venerdì 2 dicembre 2016

Un mercoledì di maggio (2015) di Vahid Jalilvand


L’Iran, parlando di cinema, riserva sempre delle piacevoli sorprese.
E questo film, nella sua genuinità neorealista, conferma questa premessa.
Il paese mediorientale attraversa una situazione – storica, politica, economica, culturale e di costume – molto simile a quella dell’Italia degli anni ’50, arrancando faticosamente fuori dal caos seguito alla rivoluzione komeinista e alla guerra con tutti gli squilibri che accompagnano il difficile cammino verso la democrazia e la modernità: e il cinema, proprio come quello del nostro dopoguerra, appare lo strumento più adeguato per raccontare alla “gente” la realtà, per riflettere sulle opportunità di cambiamento, per indicare direzioni e per sollecitare la ricostruzione.

La vicenda raccontata si snoda tutta attorno alla strana idea di Jalal, un buon uomo che – avendo deciso di donare diecimila dollari in beneficenza a una persona bisognosa – mette un’inserzione sul giornale per convocare i postulanti e stabilire a chi assegnare la somma. Nel giorno indicato, davanti alla sua abitazione a Teheran, si presentano migliaia di disperati e l'impreparato filantropo, oltre che mettersi nei guai con la polizia per “procurato allarme”, non sa come districarsi dalla situazione in cui si è cacciato.
Il regista (Vahid Jalilvand) usa un ingenuo espediente narrativo per lanciare una dura accusa alle inadeguatezze della politica: come molti altri registi che operano in paesi nei quali la contestazione è pericolosa e la censura è sempre in agguato, evita guai raccontando formalmente una piccola storia, dietro alla quale però emerge evidentissima la precisa denuncia contro il malessere, la miseria, la mancanza di lavoro, l’inadeguatezza dell’assistenza sanitaria, … e appare esplicita la chiamata in causa della classe dirigente del paese.
L’accusa si estende qui (temerariamente) anche alla “mentalità” retrograda che soffoca la società iraniana, pesantemente condizionata dal conservatorismo e dall’integralismo religioso. Nella folla dei postulanti, infatti, le due donne individuate come possibili beneficiarie della somma messa a disposizione si trovano in difficoltà a causa dell’ottuso maschilismo dei loro familiari: Leila, che anni prima era stata promessa sposa di Jalal, ha bisogno dei soldi (dollari, non rial) per pagare le cure del marito  (interpretato dal regista stesso) che però, pur essendo in condizioni gravissime, rifiuta l’aiuto per  gelosia e malcelato orgoglio; l’altra donna, Setareh, ha bisogno della somma per far uscire da prigione il compagno ingiustamente detenuto col quale si è sposata segretamente perché oppressa della zia tutrice e angariata del cugino che non approva la sua relazione.  
Appare come confortante segno di apertura (o comunque un cedimento della protervia retorica di un regime teocratico) il fatto che sia consentito a un regista iraniano di raccontare una storia in cui solo l'inverosimile miracolo di un improbabile benefattore possa risolvere i drammi di due povere donne.
Il peso allegorico e il valore politico della vicenda sono fondamentali, mentre appare secondaria la qualità intrinseca del film che, comunque ottima, presenta qualche ingenuità e alcune debolezze di sceneggiatura (la scelta, per esempio, di premiare - troppo metaforicamente - la giovane ribelle incinta a scapito del moribondo marito della ex-fidanzata).



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