venerdì 2 dicembre 2016

Sopravvissuto - The Martian di Ridley Scott (2015)

L'astronauta Mark Watney (Matt Damon) viene abbandonato su Marte dai suoi compagni di equipaggio che, a causa di un’emergenza, decollano e rientrano sulla terra credendolo morto.
Come Robinson, naufrago su un’isola deserta, s’ingegna a sopravvivere in attesa che qualcuno passi di lì e lo riporti a casa. E proprio come Robinson fa l’inventario di quel che può essere utile alla sopravvivenza; trova e attrezza un rifugio (la baracca tecnologica evacuata dai cosmonauti invece del fortino sulla collina); s’ingegna a procurarsi cibo e acqua (coltiva patate, utilizzando come fertilizzante le feci abbandonate dall’equipaggio sul pianeta rosso, invece di organizzarsi un allevamento di pecore); conta i giorni che passano (segnandoli col pennarello su un telo invece di incidere tacche su una croce); tiene un diario (videoselfie, ovviamente, non cartaceo); lancia messaggi nella speranza che qualcuno li intercetti; scruta l’orizzonte in attesa del passaggio, casuale o programmato, di un vascello.      
Diversamente da Robinson, che ha un pappagallo con cui conversare, Mark parla da solo. E non ha a disposizione un Venerdì da sfruttare e da indottrinare sui vantaggi della Civiltà e le consolazioni della Fede.
All’inizio le cose non procedono tanto male, ma poi qualcosa va storto (sempre per errore umano) e Mark, il botanico costruttore di serre marziane, si ritrova davvero nella merda.
Il pianeta non garantisce la sopravvivenza come l’isola tropicale. Urge organizzare il rientro. Mentre il nostro eroe si arrabatta a difendersi dalla furia delle tempeste marziane con scotch adesivi e lenzuolate di cellofan (che, sappiamo tutti, non regge nemmeno sul lunotto di una Panda), dalla Terra i cervelloni della Nasa organizzano il recupero, instradati da un nerd (colored, of course, e geniale e sregolato) che s’intrufola nel quartier generale e spiega agli scienziati le orbite delle cucitrici.

Scott, coi dollari messi a disposizione dai produttori hollywoodiani, costruisce una storia visivamente spettacolare e scenograficamente sontuosa. Ma siamo distanti mille chilometri da I duellanti, e parecchi anni luce separano questo filmetto vanitoso dai più scarni e potenti Blade Runner e Alien.
A un certo punto ci si chiede se si assista ad un film drammatico con concessioni al comico o a un film comico su una trama drammatica, tanto arruffona è la commistione di scene ad alta tensione (la tempesta iniziale, per esempio, e le operazioni – stile Gravity – del recupero di Mark) con momenti di squallida comicità (come le insistenti battutine idiote fra astronauti in crisi di isolamento e il socio che rischia la mummificazione). Troppi sono i passaggi incongruenti (lo scotch che serve sia a sigillare la serra che a riparare il casco spaziale o il telo che sostituisce la calotta di un veicolo spaziale lanciato in orbita). Sconcertanti appaiono i dialoghi insensati (“Se non ci senti, punta la camera sul cartello con la scritta NO”, dice lo scienziato addetto alle comunicazioni). Di “coerenza” tutta americana appare il linguaggio scurrile usato nelle comunicazioni interplanetarie che vorrebbe scanzonare il clima retorico da patriottismo stile “pioniere della grande frontiera” e il tifo da stadio che aleggia nella sala comando. Altrettanto sconcertante è l’atmosfera di generale ottimismo idiota (e poi ridono di Fonzie) che accompagna lo svolgersi di una tragedia. Alcuni siparietti risultano desolanti (come quello reiterato delle battute sceme sui gusti musicali della capitana, o quello finale col nostro eroe impegnato a fare il simpaticone in una classe di citrulloni aspiranti-astronauti). Per non parlare degli inserti politically ruffiani, come quello che vede l’Agenzia Spaziale Cinese impegnata a salvare il soldato Ryan di turno (gran mercato, la Cina!).
Che dire poi della scena in cui uno dei responsabili della missione ha la folgorazione in mensa e la spiega ai compagni scarabocchiando un poster staccato dalla parete? e delle soluzioni “scientifiche” irresistibili (come quella del “botanico a reazione” col buco nella tuta, già brevettata dal cinema di animazione)? e delle riprese della missione di salvataggio mandate in diretta sui megaschermi nelle piazze del mondo?

Imperdonabile il nostro Ridley – un mito che declina – che ha accettato di fare un film nato vecchio, senza nessun sussulto che spiazzi, nessuna emozione che interrompa il piattume.  Un film che sviluppa (si fa per dire) una storia senza nemmeno un cattivo. Con scene clou che spaventano solo chi soffre di mal d’aria o di vertigine. Costruito attorno a una vicenda fiacca e prevedibile (il titolo italiano – “il sopravvissuto” – è una spoilerata di un’ingenuità vicina all’idiozia), dalla trama scontata al punto che fin dalle prime scene s’indovina come andrà a finire (“riusciranno i nostri eroi …”) e a metà film ci si rassegna a non sperare nell’impennata di genio.
Siamo di fronte a un film che mette al centro della storia un unico personaggio (gli altri, tutti, sono comparse stereotipate di contorno) e non si cura di costruirgli sopra una biografia minima, di dargli un passato, di assegnargli relazioni affettive, di indagare sulle sue inevitabili paure, di assegnargli un qualunque spessore psicologico.

Da un blockbuster d'intrattenimento ci si può aspettare di tutto, ma è temerario pretendere che il povero Damon – udite, udite – tenti di far ridere (cosa che invece riesce benissimo al suo truccatore).
La scelta di Demon sarà pure indovinata: quando c’è qualcuno da salvare, Hollywood va sul sicuro. Ma oltre a Demon, chi altro si salva in questo film: forse i paesaggi mozzafiato che lasciano impietriti?


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