venerdì 2 dicembre 2016

Delicatessen (Francia 1991) di Jean-Pierre Jeunet e Marc Caro.



Una ciliegia tira l’altra. La recente visione di Ma Loute (di Bruno Dumont) mi ha ricordato questo film del 1991 che, come Ma Loute, è francese, grottesco, scombinato e contiene surreali scene di cannibalismo.
Ho voluto rivederlo. Ed è stata una buona idea.

Gli autori sono una coppia bizzarra: Jeunet, il più noto dei due, è anche l’autore de Il meraviglioso mondo di Amélie e di Alien-La clonazione; Caro, un fumettista, è co-regista, sceneggiatore e comparsa, ed ha collaborato con Jeunet in altri film.

La vicenda si svolge in un’epoca imprecisata (dopo una crisi o un conflitto devastante?) in un caseggiato fatiscente, buio, sordido, abitato da poveracci che vivono nella miseria e arrancano per arrivare a sera. Sovrano incontrastato della piccola comunità di reietti è Clapet (Jean-Claude Dreyfus), un macellaio che tiene bottega (Delicatessen) al piano terra dell’edificio: è lui che amministra il condominio e riscuote la pigione (in sacchetti di granaglie, visto che la moneta non circola più); è lui che gestisce l’assegnazione degli alloggi, la sorveglianza e la manutenzione; è lui, infine, che garantisce agli inquilini la sopravvivenza dall’inedia spacciando carne, umana.
La materia prima se la procura ammazzando vagabondi attirati in trappola con inserzioni che promettono lavoro in cambio di vitto e alloggio oppure dai condòmini morosi (consapevoli della possibilità di passare dalla categoria dei consumatori a quella di fornitori e – quel che è peggio – tutti rassegnati al mors tua, vita mea).
Il film comincia proprio con l’arrivo di un forestiero in cerca di lavoro: è Louison (Dominique Pinon, che vedremo anche in Amélie), un fantasista che, non sapendo di essere destinato al macello, si fa assumere come factotum e comincia subito a darsi da fare per apportare migliorie allo stabile.
Luison in pochi giorni entra in contatto con gli strampalati abitatori del casermone, un microcosmo di personaggi eccentrici la cui presentazione basta da sola a rendere imperdibile questo film: conosce i fratelli Kube, fabbricatori di barattoli mugghianti (in tempo di carestia, dei vitelli – in scatola – si conserva solo il muggito!); poi conosce la signora depressa che escogita ogni giorno un sistema complicato (da cartoon) per suicidarsi; e la vecchia che lavora ossessivamente ai ferri (e come Penelope disfa contemporaneamente il lavoro per avere filo da utilizzare) col genero (riparatore di profilattici) che la cede al macellaio per saldare i debiti; e la bella figliola che paga l’affitto in natura; e infine l’eremita selvaggio autosufficiente che sopravvive rintanato in una stanza-stagno e mangia esclusivamente le rane e le chiocciole che affollano il suo antro. Non mancano due bambini che, in questo delirante universo post-apocalittico macabro e crudele, non si stancano di inventare scherzi.
Il pallido Luison incontra anche la dolce Julie (Marie-Laure Dougnac), la figlia del macellaio che, prese le distanze dal brutale padre, vive da sola in un appartamento dell’ultimo piano, suona il violoncello e sogna di evadere dal lerciume che la circonda. I due si sentono attratti: lui  la intrattiene mostrandole uno dei suoi numeri da artista (una piccola esibizione con segaccio e archetto) e duetta con lei; lei se ne innamora, lo corteggia discretamente, lo invita a prendere un the (dando il via a una delle numerose scene esilaranti del film, quella delle gag di lei che vuole intrattenersi con lui senza gli antiestetici occhiali da miope). La dolce e goffa Julie si propone ovviamente di salvare Luison dal mannarino del padre: prima implorando (inutilmente) il macellaio, poi cercando alleanze presso un’orda di vegetariani integralisti (i trogloditi) che vivono rintanati nelle fogne in attesa di riemergere per spodestare i cannibali e conquistare il potere.   

La prima parte del film è ineffabile; la seconda, quella della lotta di liberazione, è un po’ più costruita e risente maggiormente della pesantezza insita in ogni apologo metaforico che si amplia troppo o si dilunga oltre il dovuto.
Nel suo insieme però l’opera regge, nonostante le tentazioni intellettualistiche, ed è godibile anche a distanza di tempo. E fa comunque parte della storia del cinema.
Notevoli la fotografia (seppiata o saturata, per creare distanza dalla realtà), la scenografia (con scale e pianerottoli, porte e letti, fogne e tetti; e tubi, interruttori, coltelli boomerang; e rilevatori di stronzate).
Splendida la colonna sonora, soprattutto la traccia degli effetti sonori, forse curata da Caro (stupefacente il concerto di rumori condominiali che accompagna un rapporto sessuale fra il macellaio e la sua amante).

Non è facile mescolare realismo poetico e surrealismo onirico, anarchia e romanticismo, fantasia e horror, nostalgia e sadismo post-apocalittico, fiaba e humor nero, visionarietà grottesca e comicità da slapstik comedy; e inscatolare tutto in un film che si sviluppa attorno a una rosa ristretta di personaggi ingabbiati in un luogo chiuso, in un tempo compresso.
Jeunet e Caro ci riescono e guadagnano con questo film una cifra stilistica tutta loro. Anche se, ex post, può essere divertente cercare i fili (visibili e invisibili, espliciti o inconsapevoli, dichiarati o sottintesi) che legano questo film ad altri film e ad altri autori, prima e dopo il 1991: Fellini, René Clair, Terry Gilliam, Tatì, Carné, Brecht, ma forse anche Tom Browning (quello di Freaks) e Polansky, per finire coi fratelli Coen. E ognuno può aggiungere del suo.

Comunque, dopo la visione di questo film (pessimista) che racconta la fatica di sopravvivere dell’innocenza, si capisce meglio l’ottimista meraviglioso mondo di Amélie, che – diversissimo – racconta la stessa cosa.










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