venerdì 2 dicembre 2016

Mandarini di Zaza Urushadze (2013)


Siamo nel 1991: la Georgia ha appena raggiunto la sua autonomia, staccandosi dall’Unione Sovietica, ma – con l’incoerenza che contraddistingue ogni nazionalismo – non riconosce le rivendicazioni di autonomia dell’Abcasia e reprime nel sangue la rivolta dei separatisti. La guerra – come altre che hanno insanguinato i paesi del Caucaso (Cecenia o all’Ossezia) o quelli della ex-Jugoslavia – è particolarmente feroce e complicata perché non è condotta da schieramenti definiti ma vede la partecipazione di esercito, milizie scissioniste, volontari stranieri, nazionalisti organizzati in brigate paramilitari, partigiani autonomi, mercenari e gruppi isolati di autodifesa.
Un guazzabuglio inestricabile.

La storia narrata dal film è ambientata in una piccola valle che si apre in una fertile zona collinare non lontana dal mar Nero, dove due vecchi contadini estoni sono impegnati nella raccolta dei mandarini. Tutti i coloni estoni dell’enclave, insediati in Abcasia ai tempi delle migrazioni forzate degli Zar o di Stalin, sono rientrati in patria (lontana quasi 3.000 chilometri) fuggendo dalle ostilità. Solo due vecchi amici e vicini di casa, Ivo (Lembit Ulfsak) e Margus (Elmo Nüganen), hanno scelto di rimanere, nonostante i rischi: Margus desidera portare a termine il raccolto, Ivo non ha nessuna intenzione di abbandonare la casa in cui è vissuto e la terra alla quale è legato.
Un giorno due pattuglie nemiche si scontrano davanti alle loro catapecchie. Ivo e Margus, al termine della sparatoria, seppelliscono tre morti e recuperano due feriti: un georgiano e un ceceno, mercenario al soldo dei ribelli.
Ivo decide di curarli, li trasporta in casa sua, li sistema in due camere e si prende cura di loro.
Oltre che medicare le loro ferite, il vecchio cerca di guarire i due nemici ferocemente ringhiosi dell’ottusa ostilità che li contrappone: comincia con il far leva sul loro senso di riconoscenza (considerato che riconoscono di dovergli la vita), poi punta sul dovere dell’ospitalità (non possono offendere chi li ha accolti scannandosi proprio nella sua casa), poi gioca sul senso dell’onore e del rispetto della parola data.
La convivenza obbligata, gli spazi ristretti, la necessità di dividere il poco cibo a disposizione, impongono una tregua fra il rude ceceno e l’impulsivo georgiano che si scoprono somiglianti più di quanto credano, accomunati prima dall’odio che li anima e dall’intransigenza, poi dalle identiche sofferenze (per le ferite e per gli amici persi).
La pacata ma ferma determinazione di Ivo (che conta, con cautela, anche sulla autorevolezza che, in tempi normali, viene assegnata ai vecchi nelle pur diverse culture di appartenenza dei due feriti), smorza dapprima i contrasti fra loro, poi consente il graduale determinarsi di una condizione di non belligeranza, alla quale subentra un atteggiamento di sospettosa sopportazione, di reciproca indulgenza, di esitante cameratismo, …  Niko e Ahmed smettono per un istante, sia pure con scarsa convinzione, di essere quello che rappresentano (e cioè, rispettivamente, il difensore dello stato unitario o il mercenario ribelle) ed è fatta: la loro mascheratura bellica svanisce e emerge la sostanza umana. Non sono due soldati che si rispettano (visti in troppi altri film), ma due combattenti che depongono l’armatura e, sotto la crosta, si scoprono uguali, affrancati dall’obbligo di morire o dal dovere di uccidere.

Il film ha inevitabilmente l’impianto delle opere a tesi e non può non impolverarsi di velature buoniste. È difficile proclamare la fratellanza universale senza cascare nel mielismo moralista.
Ma il regista (Zaza Urushadze. georgiano) riesce invece ad evitare sia la retorica pacifista che gli schematismi manichei, conservando una rude onestà che alla fine ci evita le stucchevolezze insopportabili della parabola umanista.
Determinanti sono la scelta della location austera (un’unità di luogo quasi da rappresentazione teatrale), il rigore della regia (sobria e contenuta, senza i virtuosismi barocchi della scuola americana) e la recitazione asciutta, quasi reticente, attenta a non guastare l’eloquenza dei lunghi silenzi, delle occhiate, dei movimenti impercettibili.

Il tempo, nella valle dei mandarini, è rallentato, e sembra momentaneamente sospeso (come nella fotografia della bella nipote di Ivo che dal camino guarda e fa la sua parte): i mandarini brillano al sole e i quattro uomini vivono in una vita interrotta, si lasciano quasi imbozzolare da una fragile condizione provvisoria, restano lì in attesa che intrusioni esterne rompano gli equilibri, consapevoli di essere destinati a finire di nuovo ingoiati e maciullati dalla realtà.

Un’inaspettata situazione di pericolo determinerà il crearsi di un'imprevedibile alleanza: i due antichi nemici si coalizzeranno per difendersi a vicenda (e per proteggere il vecchio Ivo) e di nuovo imbracceranno i mitra.
Non poteva essere altrimenti.
I soldati che depongono le armi e i camion che prendono fuoco precipitando in un dirupo si vedono solo al cinema che – dice Ivo – è una grande truffa.

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