venerdì 2 dicembre 2016

Le ricette della Signora Toku di Naomi Kawase (2015)


Il film racconta la storia di Sentaro, un uomo infelice che consuma la vita rinchiuso in un piccolo chiosco dove lavora dall’alba al tramonto sfornando dorayaki (dolcetti tradizionali giapponesi) senza riuscire a riscattare un grosso debito contratto coi precedenti gestori (anche perché il baracchino ha pochissimi avventori: passanti frettolosi, liceali ciarliere e sciocche, una ragazza depressa).
Una mattina di primavera (i ciliegi del viale sono in pienissima fioritura) appare una vecchietta in cerca di lavoro. Sentaro – fra mille inchini e reticenze – non vuole assumerla: è decrepita, fragile, malferma; e in più ha delle deformazioni alle mani che la rendono impresentabile. La vecchietta insiste, con garbo: ammorbidisce Sentaro con la sua delicata perseveranza (come si ammollano nell’acqua i fagioli secchi) e lo conquista con un assaggio della sua superlativa marmellata di fagioli.

Il film di Naomi Kawase è di fattura semplice e di gusto incerto. Come i dorayaki farciti di marmellata di fagioli, conserva i sapori contrastanti della cialda soffice di pandispagna cotto alla piastra e quello pastoso, improbabile per noi occidentali, della farcitura fatta di fagioli lessati e mantecati con lo zucchero.
L’idea di far incontrare due solitudini è accattivante: si possono immaginare emarginazioni dolorose, maternità mancate, affetti negati, sconforti metafisici e sensazioni di oppressione claustrofobica (rappresentate dagli spazi ristretti del chiosco e metaforicamente sottolineate dalla presenza di un canarino in gabbia).
E si può anche inquadrare il film riconducendolo al filone malinconico di molte opere nipponiche che insistono con un certo compiacimento nel raccontare la deriva esistenziale del Giappone moderno, la crisi d’identità seguita al distacco dalle tradizioni, il disperante solipsismo di individui sradicati e disorientati, il senso della morte insignificante, l’incapacità o l’impossibilità di costruire legami saldi o di esprimere sentimenti. 
Raffinato appare anche l’espediente di rappresentare disperazioni e rimpianti, fallimenti e dissesti esistenziali partendo dalla sommessa narrazione di storie ordinarie di personaggi marginali.
Si prova affetto per la scombinata Signora Toku, dolce e ossequiosa ma caparbia come un mulo, che alla fine della sua vita (76 anni) decide di prendersi una rivincita sulle emarginazioni patite (alla buon ora!) e di assegnare un nuovo senso alla sua vita.
Ma l’idea suggestiva, gli sfondi, le aleggianti infelicità e la simpatia del personaggio non bastano a far decollare il film che si snoda penosamente lento, incerto, intrappolato nella sua stessa esile trama narrativa e nella fievole tesi di partenza. Non bastano i lunghi silenzi a fabbricare un’opera intimistica.
Il tripudio dei ciliegi in fiore, a intenzionale contrasto con la desolazione esistenziale, diventa perfino patetico in tutta la sua ridondanza retorica.
E anche un dolcettino delicato può rivelarsi stucchevole e indigesto.
















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