sabato 20 agosto 2011

Fabbricare poesie

Perché fabbricare poesie invece di ricorrere alla spontanea immediatezza della prosa?
Sembrerà incoerente, ma il ricorso ai versi è paradossalmente dattato dal pudore: la prosa ti espone senza mediazioni e diaframmi; la poesia si frappone con la sua costruzione artificiosa e ti consente di parlare senza ostentazioni dirette.

Chi scrive versi svia in qualche modo l’attenzione del lettore dall’autore al contenuto e tenta di farsi dimenticare: e questo vale, sempre paradossalmente, perfino per la poesia più banalmente intimista: il poeta dolente si lagna e pone la sua privata esasperazione al centro dell’universo ma - con la smaccata pretenziosità della finzione poetica - si affanna a indagare le ragioni incomprensibili della sofferenza in generale e mostra di voler scavare nel suo disagio per capire il disagio universale.

venerdì 5 agosto 2011

Essere, avere, apparire

Guy Debord, nella sua opera più nota (La società dello spettacolo del 1967) scriveva:
"La prima fase del dominio dell’economia sulla vita sociale aveva determinato, nella definizione di ogni realizzazione umana, un’evidente degradazione dell’essere in avere.
La fase attuale dell’occupazione totale della vita sociale da parte dei risultati accumulati dell’economia conduce a uno slittamento generalizzato dell’avere nell’apparire, da cui ogni “avere” effettivo deve trarre il suo prestigio immediato e la sua funzione ultima".
Questa involuzione è giunta alla sua terza fase, forse imprevedibile nel '67: oggi l'apparire tocca un punto di esasperazione tale per cui - superata la necessità di possedere la sostanza dell'essere e superato anche il bisogno vanesio di esibire quel che si è o si ha - si impone la consuetudine di ostentare i segni apparenti dell'essere e di sfoggiare gli orpelli che simboleggiano l'avere, in una plateale e volgare rappresentazione di uno status che non basta a nascondere la sostanziale inconsistenza e la sconfortante vacuità.