martedì 30 marzo 2010

martedì 23 marzo 2010

Il concerto di Radu Mihaileanu (2009)

Il film racconta una storia di umiliati e offesi.
Gli orchestrali ebrei del Bolshoi, licenziati ed emarginati in epoca brezneviana, vittime del totalitarismo sovietico crudo e ferocemente oppressivo, continuano ad essere esclusi ed emarginati, dopo trent’anni, dai nuovi (pre)potenti, cinici e volgari, che si sono impadroniti della Russia con la corruzione e l’hanno condotta verso il capitalismo più bieco e degradato. Alcuni di loro sono stati annientati, fisicamente o psicologicamente; altri si sono piegati alla rassegnazione e vanno alla deriva; in molti è prevalso l’istinto di sopravvivenza che li ha spinti a insinuarsi nelle pieghe della società in sfacelo per svolgere i più improbabili mestieri. Nessuno fra gli ex-musicisti crede ormai nella possibilità di un riscatto o di un risarcimento.
Ma l’occasione inaspettata arriva, non grazie al caso o alla fortuna, non per la resipiscenza degli oppressori, non in virtù della voglia di rivalsa dei vinti, e nemmeno nelle vesti della giustizia che finalmente prevale. La nemesi percorre le strade dell’inganno, nasce dall’orchestrazione (non solo metaforica) di un imbroglio colossale che vede la collusione, la complicità, la partecipazione collettiva delle vittime (proprio come in Train de vie, l’altro film di Radu Mihaileanu).
Lo sviluppo della grande truffa segue un andamento alterno, avvicenda momenti grotteschi e momenti di pathos, gioca fra il paradosso e il sentimento; spesso va sopra le righe, ha vezzi d’avanspettacolo, dà corda al patetismo; la trama si appesantisce di alcuni eccessi forse superflui; il doppiaggio - ma di questo Mihaileanu non ha colpa - è sciatto, ridicolmente parodistico, imbarazzante, perfino irritante.
Ma per il regista rumeno gli eccessi sono la norma: il suo tratto stilistico è dato proprio dalla caricatura, dall’esasperazione dei toni, dalla frammentarietà, dal macchiettiamo, dalla chiassosità corale, dal colorismo etnico. Per questo ci piace.
Il crescendo - e proprio ad un crescendo travolgente si assiste - sfocia nella riconciliazione con la giustizia malandrina (trionfale), nella agnizione strappalacrime (efficace), nella esecuzione del concerto della redenzione (ineffabile).
Lacrime ed applausi.

mercoledì 3 marzo 2010

Carlo Pisacane, l'eroe ottuso.

LA STORIA CI INSEGNA CHE DALLA STORIA NON IMPARIAMO NIENTE - 4

Carlo Pisacane, patriota reso famoso da Luigi Mercantini nella poesia risorgimentale La spigolatrice di Sapri (quella che ha come intercalare "Eran trecento, eran giovan e forti ...e sono morti", il refrain che tutti gli ultracinquantenni conoscono a memoria), ci è sempre stato presentato come un eroe.
Nulla da eccepire sull’eroismo temerario.
Molto da eccepire invece sulla sua intelligenza rivoluzionaria o politica.
Giudicate voi.

Si imbarca il 25 giugno 1857 con ventiquattro compagni su un piroscafo di linea diretto a Tunisi (precisamente il Cagliari, della Società Rubattino). Il suo amico Rosolino Pilo con altri patrioti ha il compito di seguire il piroscafo su alcuni pescherecci trasportando armi e rinforzi; per non dare nell’occhio parte il giorno dopo, ma si perde.
Pisacane, senza le armi e i rinforzi assolutamente necessari, non cambia i piani: si impadronisce della nave, la dirotta su Ponza, libera i 323 detenuti (quasi tutti delinquenti comuni ), distribuisce loro le poche armi trovate nel penitenziario, li imbarca e, volenti e nolenti, li coinvolge nella sua avventura.
Approda vicino a Sapri, sulla costiera del Cilento; sbarca sventolando il tricolore; i patrioti sono assaliti e messi in fuga dalla popolazione locale che ha riconosciuto numerosi briganti fra i forestieri scesi dalla nave; dopo alcuni giorni un altro assalto dei contadini (a Padula) provoca 25 morti, mentre 150 rivoluzionari si arrendono e vengono consegnati ai soldati borbonici; i superstiti allo sbando vengono di nuovo assaliti dalla popolazione (a Sanza): 83 rimangono sul campo. Pisacane si suicida sparandosi con la pistola.
I suoi compagni, quelli scampati alla furia del popolo, sono arrestati, processati e condannati a morte; il re tramuterà la condanna capitale in ergastolo.

Pisacane non è solo sfortunato: sbaglia tutto perché parte da una convinzione balorda. Crede di poter liberare il popolo senza informarlo e senza coinvolgerlo (e cioè senza preoccuparsi della sua “educazione” e del consenso).
E lo fa con ottusa convinzione, teorizzando perfino questo suo assurdo modo di procedere.
In un suo libro intitolato Saggio sulla rivoluzione sostiene infatti che bisogna prima fare la rivoluzione, poi istruire il popolo («la propaganda dell'idea [è] una chimera e l'istruzione popolare un'assurdità. Le idee nascono dai fatti e non questi da quelle, ed il popolo non sarà libero perché sarà istrutto, ma sarà ben tosto istrutto quando sarà libero»).
Non poteva che fallire. Onestamente se lo meritava.


Risposte e domande (commento al commento del 28 febbraio di Anonimo)

Su poesia e terapia me la cavo con una citazione di Orazio che scrive in una Satira (II, 7, 17): "Aut insanit homo, aut versus facit" (per i digiuni di latinorum : "L'uomo o impazzisce o scrive versi").

Aggiungo comunque un ringraziamento al mio "Anonimo" commentatore e gli sono grato delle sue considerazioni che mi aiutano … a restare nella mia insanabile incertezza.
Non apro su di esse una discussione, anche perché - a ben vedere - il lungo commento in forma di meditazione si avvolge su se stesso e contiene in sé tutte le contraddizioni necessarie (e in questo sta il suo pregio ed il suo valore).
Mi spiego accennando a qualche esempio di questa eccellente incoerenza e ponendo qualche domanda.

1. Perché la scrittura viene considerata da Anonimo una “parentesi” e la terapia invece si connota come una “via d’uscita”? Che differenza “scientifica” può esserci fra la sua affermazione e quella opposta? Sono meno credibile se sostengo che la seduta psicanalitica è una parentesi reiterata e che la poesia invece aiuta a capire? Che differenza c’è fra i due modi di “guardarsi dentro”? Non dice forse il poeta (che sarei io):
Aprono sentieri le parole
nell’intricata mente.
Se spiego quel che ho dentro,
un poco lo decifro anche per me.
Se la racconto, l'ansia si sgroviglia.
E l'universo mio confuso
in quel che dico prende consistenza.
2. La terapia, dice Anonimo, indaga le “cause remote”. Questo significa che la poesia indaga le cause “prossime”? Vogliamo stabilire gerarchie fra le cause? Le cause remote sono più dannose? quelle prossime sono acqua fresca? Ne vogliamo fare una questione di distanza, di potenza di fuoco, di mira? di micro o macro? di zoom? O pensiamo forse, da non liberi muratori, che le cause remote siano fondamenta e quelle prossime invece siano superfetazioni secondarie e trascurabili? …

3. Anonimo parla di “consapevolezza redentrice”. Io mi chiedo innanzitutto: capire significa forse risolvere? come se si trattasse di un problema di geometria? E se così anche fosse, il capire-risolvere con l’analisi vale più del capire-risolvere in altri modi? Ma questa benedetta capacità di cognizione, ammesso che serva, non percorre forse le strade più disparate, segnate dagli “stili emotivi" di ciascuno di noi, analogamente a quanto sostengono gli psicologi dell’apprendimento quando parlano di "stili cognitivi"?... Che senso ha giudicare gli strumenti e classificarli e distinguerli fra rozzi e sofisticati, efficaci e fuorvianti, scientifici e falsi? …

4. E poi, e poi,… Cosa c’è di eretico nel sostenere che ognuno indaga come vuole, quanto vuole, fin dove vuole? e che ognuno decide il livello di consapevolezza che gli aggrada? È immorale accontentarsi? sospendere le indagini? non voler sapere? non andare oltre? Nella ossessione di mettere tutto in chiaro, non c’è forse un po’ di presunzione, di sindrome di onnipotenza e di onniscienza? non c'è un po’ di quella arroganza intellettuale di chi crede di aver capovolto il mondo? un po’ di aristocratica e disperata volontà di distinguersi dalle “pecore matte”?...un po’ di immoralità?...). Sono così esecrabile io se mi diverto nel sostenere (e non sono solo, ma questo non conta) che la follia è in bel rifugio? sono così eccentrico se, storpiando il motto benedettino, proclamo “Beata ebetudo, sola beatitudo”?

5. Ed infine, vogliamo ancora rimenarla con le distinzioni fra scienza e fede? Andiamo a cercare la fede nei numeri dopo averla persa nei dogmi? L’atteggiamento di fondo fra religiosi e laici non vi sembra un po’ troppo gemello? Il bisogno di dio, non assomiglia pericolosamente al bisogno di negarlo? A me pare che i credenti che vogliono spiegare tutto con la fede siano troppo vicini - come una immagine riflessa e asimmetrica - agli indagatori che vogliono capire tutto in altri modi: stessa inquietudine, stessa foga, stessa insoddisfazione, stesse tensioni, stesso senso di impotenza.
Per quanto mi riguarda, mi iscrivo al club degli “Indifferenti Universali” e trovo patetico, quasi ridicolo - con rispetto parlando - questa ansia di “comprensione” dell’universo.
È l’universo, casomai, che comprende noi.
Stop.
“Siate contenti, umana gente, al quia”. (Dante, Divina Commedia, Pur. III, 37).