venerdì 2 dicembre 2016

Rams - Storia di due fratelli e otto pecore, di Grímur Hákonarson (2015)

L’Islanda, così è scritto su Wikipedia, conta 3 abitanti per chilometro quadrato (in Lombardia, tanto per farsi un’idea, siamo 400 per Kmq). 
La vicenda raccontata nel film si svolge in una valle sperduta dell’isola polare e – ça va sans dire – è una storia di solitudini. I protagonisti-antagonisti sono due anziani fratelli, selvatici e barbuti come vichinghi, che si chiamano Gummi e Kiddi (nomignoli da saga harrypotteriana): figli di pastori e nipoti di pastori, fanno i pastori  e – pur avendo case, stalle e pascoli confinanti – si detestano per antichissimi e oscuri rancori familiari e non si parlano da quarant’anni (usando, per comunicare fra loro, dei biglietti affidati ad un cane – ovviamente pastore – “non allineato”, neutrale, estraneo alle loro ostilità).   
Un’epidemia fatale per le greggi – ma anche letale per l’economia di sussistenza dei pastori, per la loro piccola patria e per tutti i riferimenti affettivi – irrompe nella loro esistenza, la sconvolge e li costringe a modificare la loro selvatica quotidianità. Poiché le autorità, per contenere il contagio, hanno ordinato l’abbattimento di tutti i capi che popolano la valle, Gummi, uno dei due ostinati fratelli (caparbio come lo è nel vivere la sua solitudine piena di livori) decide di salvare otto capi (un montone e sette pecore), forse più per difendere le ragioni della sua esistenza che per garantire la sopravvivenza della pregiata razza ovina.
Da quel momento i gesti di ostilità fra i due diventano confusi passi verso il riavvicinamento (vedi la rissa nella stalla che è nello stesso tempo aggressione e recupero di un contatto; un assalto improvviso, una colluttazione scatenata e subito spenta che – sicuramente – solleva il ricordo delle giocose zuffe che infiammavano la loro infanzia). Nello stesso tempo i gesti della ritrovata alleanza si caratterizzano come astiose sottolineature dei loro risentimenti (vedi, emblematica, la scena in cui Kiddi salva la vita al fratello ubriaco, crollato nella neve e ormai mezzo assiderato, sollevandolo e trasportandolo all’ospedale su pala meccanica e scaricandolo davanti al pronto soccorso come fosse materiale inerte).  

I due protagonisti si muovono sobri, essenziali nei loro movimenti, silenziosi, coerenti nella loro ruvida scorza che copre un’inconfessata fragilità (e vengono in mente le ostinazioni e la marginalità raccontate da Linch in Una storia vera o da Payne in Nebraska).
La trama ha un lento sviluppo lineare, senza colpi di scena e senza enfasi, quasi senza ritmo, in un impercettibile crescendo che dà potenza alla storia. Il regista sta bene attento a non scivolare nel grottesco (tentazione facile quando si tratteggiando personaggi così “primitivi”) e nemmeno a concede spazio a facili sentimentalismi: taglia corto nelle scene che potrebbero solleticare l’emotività (come nel finale, magistralmente sospeso), sceglie la moderazione, non scivola nel melò.
La macchina da presa è discreta, impercepibile: osserva quel che accade, assiste, segue documentando. E non cerca stramberie prospettiche, inquadrature ad effetto, montaggi da allievo di scuola di cinema; coerente anche in questa sobrietà con la desolazione dei paesaggi e con la monotonia esistenziale che descrive.
Eppure il film tiene, prende, è denso nella sua pur pacata monotonia, vivo nella sua raffinata monocromaticità.
Il finale sospeso – che in molti film sta diventando una consuetudine furba – qui è sostanzioso, significante. Non importa che le pecore sopravvivano; e non conta nemmeno la sopravvivenza “fisica” dei loro pastori. Conta invece che i due selvatici fratelli abbiano fatto in tempo a ritrovarsi prima di essere inghiottiti dalla bufera infernal che mai non resta.






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