martedì 25 febbraio 2014

Nebraska (2013) di Alexander Payne

Woody Grant (Bruce Dern) è un vecchio incazzoso che cova rancori con l’universo, forse per la semplice ragione, comune a molti anziani, di vedersi scivolare via nella monotonia quotidiana una vita inconcludente. Per sopravvivere a questa esiziale inquietudine si aggrappa alla speranza di riscatto fornita da un dépliant pubblicitario che gli annuncia la vincita di un milione di dollari. Tutti tentano di spiegargli che la vincita è subordinata all’estrazione a sorte fra sottoscrittori di un abbonamento ad alcune riviste, ma il vecchio testardo si incaponisce, non cede e tenta in tutti i modi, anche a piedi, di mettersi in strada per andare a reclamare il suo premio nel Nebraska, a Lincoln (che – ho controllato su Google maps – dista 871 miglia, pari a quasi 1.440 chilometri da Billings nel Montana, dove vive).
Dopo aver provato inutilmente a farlo ragionare, David (Will Forte), uno dei suoi due figli, si rassegna ad accompagnarlo, coinvolgendo poi inevitabilmente anche la madre Kate (June Squibb) e l’altro fratello, Ross (Bob Odenkirk).
Il quartetto, lontano dai luoghi abituali, costretto a misurarsi in situazioni anomale, è indotto ad abbandonare l’ipocrisia di rapporti convenzionali e mettere a nudo la sostanza delle relazioni. Nello “svelamento” si accendono accuse incrociate e vengono esplicitati rancori covati a lungo nel silenzio, ma emergono anche solidarietà inimmaginabili e si scoprono legami di affetto mal riconosciuti e mai dichiarati.    
In questa breve odissea, tutti e quattro i membri della scombinata famiglia trovano l’occasione per rivisitare con confuse nostalgie i luoghi di origine (Hawthorne) e ritrovare persone dimenticate, ma imparano anche a conoscersi e riconoscersi per recuperare un rapporto che aveva perso senso e sostanza con l’accumularsi di mille piccole incomprensioni, di futili ostilità e di astiose recriminazioni. Sotto i risentimenti affiorano affettuosità mai espresse e i rapporti si rivelano più saldi e tenaci di quanto poteva apparire.
Scopriamo che David, disposto ad assecondare il vecchio per evitare il fastidio di doversi scontrare con la sua senile cocciutaggine, è tormentato da sensi di colpa; e riscoprendo un padre non conosciuto (con sogni delusi, desideri insoddisfatti, amori dissolti) cerca un’occasione nuova per ristabilire e riparare un rapporto malformato; e sente riaffiorare dentro, sotto i risentimenti antichi, un affetto filale che non si lascia smontare dalla sconcertante durezza del vecchio, sempre burbero e intrattabile. (Paradigmatica la scena dell’attraversamento del paese, col padre alla guida del desideratissimo furgone e lui accucciato, come un bambino, che contempla dal basso la sfilata trionfale del vecchio). 
Anche Ross, il fratello maggiore, anchorman di una certa notorietà, che disapprova l’arrendevolezza del fratello e detesta l’alcolismo del padre, scopre in questi frangenti complicità dimenticate e imprevedibili. (Esilarante la scena del furto del compressore).
E Kate, la moglie insolente e lucidissima, spietata nel tratteggiare gli squilibri di tutti, diventa il fulcro della solidarietà ritrovata. (Indimenticabile la corrosività dei suoi apprezzamenti e la determinazione con cui prende le difese del suo malsopportato “consorte”).
Insieme affrontano gli avidi parenti e si prendono delle piccole rivincite sugli ex-soci; insieme prendono atto della vacuità della promessa; insieme tornano a casa, alla vita di sempre.

L’avventura è una parentesi che sicuramente non muterà le dinamiche dei loro rapporti e non cambierà di una virgola le loro abitudini; ma sarà servita a restituire loro la consapevolezza di sentimenti inespressi e ridare senso ad affetti disorientati.
Perfino il coriaceo Woody, alla fine, pur con mille pudori e reticenze, si ritrova “parlante” e confessa che il milione lo pretendeva solo per lasciare qualcosa ai figli, per risarcirli di un affetto laconico, per offrire loro ragioni per ricordarlo per qualcosa di buono. (Viene in mente Foscolo: “Sol chi non lascia eredità d’affetti poca gioia ha dell’urna”…).
Ma se il suo sogno (molto “americano”) si rivela carta da macero e le grandi speranze si rivelano inutili, i figli non lo dimenticheranno. Il viaggio nel Nebraska ha restituito un equilibrio nuovo ai loro piccoli sfrangiati affetti familiari. Questo basterà a sopravvivere nell’aridità dei giorni a venire.

La fotografia in bianco e nero ci offre l’essenzialità arida dei paesaggi e dei caratteri, la desolazione delle periferie rurali e dell’emarginazione di chi le abita, la crudezza degli spazi infiniti e dell’incomunicabilità, la sorda indifferenza di una società nella cui deriva sono trascinati i nostri poveri eroi, disillusi e stanchi.







sabato 15 febbraio 2014

Philomena, di Stephen Frears (2013)

Leggo che il film è stato premiato perché “offre un intenso e sorprendente ritratto di una donna resa libera dalla fede … che nella sua ricerca della verità, sarà sollevata dal peso di una ingiustizia subita grazie alla sua capacità di perdonare”.

Mi chiedo quanto di questa capacità di perdonare sia da attribuire alla fede e quanto alla stanchezza o alla coriacea assuefazione al dolore tipica di chi ha subito ingiustizie devastanti e non riesce a reagire alla cattiveria se non con lo sbigottimento passivo.
In genere queste vittime consapevoli giustificano (anzi coonestano, nobilitano) la loro indolenza (che in qualche modo è non-dolenza, atarassia) e quasi consacrano la loro incapacità di lasciarsi assalire (giustamente) dalla rabbia e di reagire (come si dovrebbe) con delle ragioni di fede.
Philomena intrisa di religiosità, come lo sono le irlandesi nate negli anni Venti, rientra in questa categoria.
Il perdono per lei è più appagante della vendetta, più accettabile e consono alla sua esistenza della indignazione. La remissività si è “stagionata” in lei. Nel suo intimo è convinta che l’indulgenza le faccia guadagnare indulgenze e che la comprensione della cattiveria altrui le faccia meritare hic et nunc la serenità (altrimenti impossibile per gli oppressi) e nel vicinissimo “futuro” la rivincita costituita dalla pace eterna.

La fede produce energie, è vero. Ma questo non avviene a causa di misteriose infusioni di fluidi extraterrestri.  La forza di chi ha fede è endogena, generata da meccanismi psichici legati alla presa di distanza di chi sente l’insopprimibile bisogno di sopravvivere e di superare il panico della finitezza guardando oltre.