giovedì 9 aprile 2015

Turner di Mike Leigh (1014)



Il film racconta gli ultimi anni della vita di Turner, presentandoci il paesaggista inglese alla soglia della vecchiaia e al culmine della carriera.
Poiché lo scorcio di biografia non può riservare sorprese dal punto di vista narrativo e offrire particolari spunti per la trama, al regista non resta che evidenziare la mesta quotidianità dell’uomo privato che va verso la decadenza e riferire le idiosincrasie dell’uomo pubblico.
Il quadro è desolante: il vecchio Joseph Mallord William è un egotista, scontroso, burbero, asociale, incapace nutrire sentimenti o di mantenere legami affettivi: subisce infastidito le visite della vecchia e sfatta amante che non riesce a estorcergli affetti e sussidi per figlie e nipoti; e non è capace di un gesto gentile o di una parola di considerazione per la fedele serva che lo accudisce e gli si concede in frettolosi pastrocchi sessuali. L’unico affetto che coltiva è quello nei confronti del vecchio padre, aiutante di bottega, la cui morte lo lascia in un’ingrugnita depressione; la sola relazione apparentemente “normale” è quella che intrattiene con un’anziana affittacamere di Calais, con cui finisce per convivere (e tutti noi ci chiediamo come faccia una così garbata signora a sopportare un vecchio tanto selvatico e repellente).
Fuori di casa non va meglio. Turner è un misantropo asociale, un orso, e le uniche relazioni pubbliche che tiene, ovviamente problematiche, sono quelle col milieu accademico inglese della prima metà dell’Ottocento, un contorno di comparse simili a mummie composto da intellettuali incartapecoriti, critici boriosi, colleghi invidiosi, mercanti avidi, committenti neoricchi.

Dimostra del coraggio Mike Leigh a fare un biopic senza intreccio, ad affrontare il ritratto di un soggetto così complesso senza regalarci nemmeno un climax emozionale e a raccontarci il decadimento di un vecchio senza nemmeno tentare di farcelo piacere o di sollecitare perlomeno commiserazioni empatiche.
Capita raramente che un biografo infierisca sul suo “eroe” fino a suscitare nei suoi confronti disgusto e repellenza: in ben due scene – oltretutto agli inizi del film, così, tanto per mettere le cose in chiaro – il laido Turner viene accostato al maiale: la prima volta quando si ingozza di guancia suina lessa tagliando bocconi dalla testa di porco presentata intera nel piatto; la seconda quando grugnisce durante un veloce orgasmo con la serva appoggiata alla credenza.

Viene il sospetto che l’esasperazione dei toni abbia due scopi: quello di trasformare il personaggio in una caricatura e di rendercelo simpatico (un po’ come fa Molière con il misantropo Alceste o con l’avaro Arpagone) e quello di giocare “a contrasto”, prendendoci in contropiede, di caricare cioè al massimo la contrapposizione fra la finezza dell’artista e la grossolanità dell’uomo e di sottolineare con vigore che in Turner gli istinti animaleschi potevano (dovevano?) essere appagati in fretta per lasciar spazio alla vitale, irrefrenabile voglia di VEDERE (paradigmatica la scena del pittore che si fa legare in cima all’albero maestro di una nave per contemplare una tormenta di neve, come Ulisse e le Sirene).
C’è un momento – uno solo – nel film in cui Leigh azzarda una sintesi della bipolarità di Turner e cerca un punto di impacciata convergenza fra tensioni nobili e istinti, ed è quando mostra il pittore incantato davanti a una giovane pianista: ci si aspetterebbero avances grossolane, ma il frastornato pittore chiede alla timida artista di suonare Purcell e tenta di accompagnare con la sua sgraziata voce Il lamento di Didone.
 
Superba, nel film, la qualità pittorica delle sequenze: quasi una competizione di Leigh con Turner.
Turner – sappiamo – è ossessionato dalla luce, dalla rappresentazione della luce, della possibilità che la luce ha di svelare l’intima essenza della realtà, di modificare i paesaggi coi suoi riverberi, sconvolgere il cielo e le nuvole con barlumi e opalescenze, scompigliare il mare con sprazzi e luccicanze, trasfigurare gli oggetti rimarcandone o annullandone i contorni con l’imprevedibile gioco di ombre e chiarori.
Anche Leigh (assonante con light, nomen omen) si lascia possedere dalla stessa ossessione: accompagna (con riluttanza) il pittore nelle escursioni sulle spaziose spiagge e nelle sconfinate lande; lo presenta mentre schizza appunti frenetici di scorci e impressioni eccitate di crepuscoli o temporali, spesso stagliato in controluce come una silhouette barocca (o, meglio, citando Il viaggiatore sopra il mare di nebbia di Friedrich); lo segue nei docks lungo il Tamigi, sulle banchine di porticcioli ingombre dei banchetti di pescatori, nei vicoli dei quartieri urbani degradati (e qui ricorda le ambientazioni delle incisioni satiriche di Hogart); si sofferma (con compiaciuta insistenza) negli interni bui, su scalette ripide illuminate da tagli di luce espressionisti, in bugigattoli (dickensiani) rischiarati a pena da una soffusa luminosità lattiginosa.
Spesso le squallide stanze schiudono finestre abbacinanti su paesaggi – appunto – turneriani.
Spesso i tavoli illuminati di scorcio appaiono ingombri di oggetti domestici, barattoli e vasi, pennelli abbandonati (come nature morte).

Straordinarie le inquadrature: dai campi lunghissimi sulla brughiera (con cieli lividi) alle claustrofobiche riprese al chiuso; dai piani americani con prospettiva dal basso (a rendere grotteschi fino all’imbarazzo i borghesi della bella società londinese), fino ai primissimi piani impietosi sulle occhiaie dell’ex-amante, sulla psoriasi della serva, sui denti marci dello stesso Turner.

La lunghezza del film e l’inconsistenza della trama rendono il film impegnativo.
Ma la bella scena finale della locandiera-amante che, dopo la morte del pittore, netta meticolosamente i vetri della finestra affacciata sul mare ci risarcisce della fatica.



Hungry Hearts (2014) di Saverio Costanzo




Tutti i film raccontano di un qualche squilibrio; tutti sviluppano la loro trama attorno alla conseguenza di uno scompenso; in tutti il motore dei fatti o la temperatura delle relazioni sono costituiti da carenze o eccessi, da ossessioni o rabbie, passioni, devianze, disagi, infatuazioni.
Per convincersi di questo, basta una semplice verifica: prendete il Mereghetti, aprite a caso, cercate un film che conoscete e divertitevi a individuare da quale incidente critico scaturiscano i fatti, o quale squilibrio condizioni la vicenda, quale vizio capitale sia rappresentato. Se il bislacco giochetto lo fate in compagnia di amici cinefili, vi capiterà di bisticciare nel cercare la convergenza sulla diagnosi, resa sempre difficoltosa sia dalla presenza di un numero eccessivo e contraddittorio di sintomi, sia dalla pesante interferenza operata dalla lettura soggettiva (ché ognuno di noi, come sappiamo, ha un suo filtro interpretativo costituito dalla combinazione alchemica fra cultura, esperienza ed emotività).

L’agghiacciante film di Costanzo non si sottrae alla regola e si sviluppa attorno alla inquietante, patologica, infelice fragilità di Mina (Alba Rohrwacher).
Se l’inizio è esilarante, da commedia (Mina entra per errore nell’antibagno di una fetida toilette di un ristorante cinese, vi rimane chiusa dentro e lì conosce Jude - Adam Driver - vittima di una indisposizione atrocemente fetida); e se i primi sviluppi sono da love story (i due si piacciono, si attraggono, si coccolano con la sconsiderata tenerezza di ogni nuovo amore), il corpo della storia e la conclusione sono da triller (sottogenere psicotico).
Il passaggio dall’idillio all’incubo è segnato dall’inattesa maternità di Mina che risolleva dissesti antichi, carenze affettive per orfanezza precoce, impacci esistenziali, precarietà lavorative, immaturità sentimentali. La gracile e affascinante adolescente diventa donna e precipita in un groviglio di disequilibri: l’inquietudine si manifesta prima con l’ossessione per il parto naturale e il rifiuto delle cure ostetriche, poi con l’attaccamento simbiotico al neonato, con smanie iperprotettive (paraspigoli a mobili e termosifoni per un bambino che nemmeno gattona) e con la presunzione di bastare in assoluto; poi ancora con l’assurdo salutismo che si traduce in un veganisimo integralista e delirante (con l’orto biologico sul terrazzo che si affaccia su una caotica strada di Brooklyn) ai confini con l’anoressia; poi con la radicale opposizione alla pediatria; infine con la scelta agorafobica di escludere il mondo ostile e infetto (smog e radiazioni) e di isolarsi per evitare il Contagio, finendo annegata nei propri deliri mistici e intrappolata nei miasmi del proprio dissesto psicotico. Viene da ripensare alla allegra ma allegorica scena dell’incipit che si svolge nei putridi cessi di un ristorante cinese a New York, ombelico paradigmatico della contaminazione universale (e viene pure da chiedersi, en passant, che ci facesse Mina in un ristorante cinese di terz’ordine).

Il povero Jude ama in egual misura il bimbo che deperisce e la madre alla deriva.
Vorrebbe salvare l’uno e l’altra. Prova a mediare, cerca di cucire gli strappi, di cauterizzare, di proteggere il nido; insegue soluzioni ricorrendo a sotterfugi. Ma non riesce a convincere o a imporsi con la pallida, indifesa, fragile, anoressica Mina che dispiega un’energia incontenibile, una resistenza inimmaginabile, un’ostinazione selvatica da belva ferita capace di sfoderare gli artigli.
Anche Mina ama Jude, e forse ne ama la normalità; ma è uterinamente legata al figlio, che considera un predestinato (come Rosemary’s baby?). Non vede altro. Non sa vedere altro. È sommersa, viene inghiottita, si abbandona nel garbuglio delle sue ossessioni, fino a perdersi.

Saverio Costanzo sottolinea la discesa nel delirio con riprese ossessive (talvolta eccessive, e forse anche un po’ furbette, da mestiere). In alcuni passaggi i movimenti di macchina sono frenetici e le inquadrature appaiono sporche, sfocate e deformanti (con fisheye che consegnano immagini quasi escheriane); le ambientazioni sono claustrofobiche irrespirabili (a cominciare da quella del bagno del ristorante cinese, piccolo paradiso, fino a quella a quella dell’appartamento newyorkese, microcosmo infernale). Il montaggio è impulsivo; i dialoghi diradano con l’infittirsi della sventura (geniale!); la impercepita colonna sonora di Nicola Piovani è dolce, quasi a contrasto con la crudezza a cui fa da sfondo (indovinato e struggente appare l’inserto di “Tu si’ ‘na cosa grande pe’ mme”). 

Gli eccessi formali sovraccaricano l’efficacia della narrazione ma – apparentemente – non stabiliscono categorie di giudizio. Il regista assiste neutro al dissidio della coppia, con Mina che scivola nel parossismo e Jude che si affanna impotente, ma non emette sentenze esplicite, schiva grezzi manicheismi, elude la trappola dello schierarsi; osserva con compassione il dispiegarsi della tragedia e registra l’impotenza dell’amore (o la potenza distruttiva dei legami) facendosi partecipe (e facendoci partecipi) dell’angoscia dei suoi personaggi.
Forse si tratta di una neutralità apparente, di facciata; così come apparente, di “volontà”, sembra l’incredibile pazienza (e la pietà) di Jude che ad un certo punto, esasperato anche dal deserto relazionale e istituzionale che lo circonda (dall’esterno non arrivano altro che blandi suggerimenti e disinteresse), non trattiene l’insofferenza e molla all’ostinata Mina un ceffone, inseguendo soluzioni impulsive e sbrigative, ritenute (a torto) più efficaci della sfibrata empatia.

Proprio questo ceffone segna un punto di svolta e costituisce un indizio che anticipa lo scarto comunque improvviso e atroce che sblocca e chiude la storia.
Un film del genere non fa presagire lieti fini. Ma nessuno poteva pronosticare “quella” sorprendente soluzione finale. Per un momento viene da pensare che l’esito sia troppo sbrigativo e semplicistico a fronte della complessità della tragedia (il deus ex machina appare sempre come una soluzione troppo comoda, mai convincente) e che un finale sospeso avrebbe potuto essere più coerente (e inquietante).
Mentre però scorrono i titoli di coda (in cauda venenum) noi poveri inermi spettatori-partecipi ci rendiamo conto della paradossale condizione in cui siamo stati trascinati e ci assale un gran disagio (un groppo, un senso di colpa, una immensa vergogna) nel percepire di aver nutrito dell’insofferenza (anche un pochino misogina) verso la “matta”, di aver soffocato un “finalmente, ecchecazzo!” nella scena del ceffone e di aver assistito alla “eliminazione” del problema con una vaga sensazione di sollievo. 


Non è mai del tutto inutile o banale un film che spiazza e instilla dubbi e riesce a mettere in luce l’incoerenza fra pancia e testa.

Storie pazzesche di Damián Szifron (2014)


Siamo fatti così …
Potremmo essere raffigurati, come nelle immaginette devozionali degli anni ’50, con un angioletto alla nostra destra e un diavoletto alla nostra sinistra, perennemente scissi fra le pulsioni che esplodono dentro e le regole che ci contengono da fuori; fra il desiderio di abbandonarci felicemente agli istinti (più o meno primordiali) e gli insensati inviti a rinnegarli andando infelicemente contro natura.
Da una parte alita soave l’afflato delle tendenze normali della natura umana (che la religione impicciona ha voluto etichettare tout-court come “vizi capitali”): quelle inclinazioni che spingono ogni individuo ad amare prima di tutti se stesso e a ritenersi ovviamente preferibile agli altri (superbia), a conservare quel che ha (avarizia), a cercare il benessere, il piacere e l’appagamento (lussuria e gola), a considerare sottratto a sé quel che avvantaggia gli altri (invidia) e infine a desiderare in primis la serenità, la pace, la distensione (accidia).
Dall’altra spira forte il vento delle leggi e dei comandamenti, delle norme e delle regole che nel loro insieme formano la fede etica, plasmano le attitudini sociali e la coscienza civica, sviluppano l’empatia e la convivenza democratica, instillano la buona educazione, inculcano il senso del dovere e il richiamo alla responsabilità.
Il conflitto fra essere e dovere costituisce la sostanza della nostra esistenza.
Un conflitto che per gli esseri “normali” vede prevalere (in diversa misura) la virtù pubblica sul vizio privato, la solidarietà sui sani egoismi, il self control sui giusti sdegni, la pudicizia e la riservatezza sull’edonistica soddisfazione dei piaceri.
Trasgredire diventa difficile. Lo impediscono la religione, l’educazione, la cultura, il patto sociale. Spesso, a contenerci entro gli argini stabiliti, entra in gioco perfino la nostra pavidità; un meschino calcolo di opportunità ci convince ad appiattirci nella “quotidianità”, smussare l’esuberanza, controllare gli impulsi, contemperare gli egoismi, se non altro per evitare il rischio di soccombere di fronte a “individui” meno moderati e più determinati.

Ecco perché ci piace questo film. Perché i suoi protagonisti sanno trasgredire.
Nel corso di due orette che passano via veloci, assistiamo a sei trasgressioni, a sei diverse “rotture” di argini, a sei piccole deviazioni che, per l’effetto valanga, producono risultati devastanti.
In ognuna di queste sei vicende, un nostro alter ego – un uomo o una donna qualunque – reagisce invece di incassare e porta coerentemente a termine la sua reazione.
1. "Pasternak" racconta la rivincita di un povero disadattato (invisibile) che, con stratagemmi geniali (degni di Agata Christie), si vendica in un colpo solo di tutti quelli che in qualche modo sono stati la causa o la cassa di risonanza dei suoi fallimenti (ed ora sono in sua completa balìa, queruli e impotenti);
2. “I ratti” descrive l’esecuzione truce di un ricco usuraio indisponente ad opera di due emarginate;
3. "ll più forte" è la sfida in crescendo, portata all’estremo, fra due automobilisti che si massacrano in un duello spilberghiano (l’ambientazione è quella);
4. "Bombita" riferisce della crescente irritazione che assale un rispettabile cittadino che si sente impotente di fronte alla violenza larvata della burocrazia impermeabile e irragionevole;
5. "La proposta" si sviluppa attorno al tentativo di un paperone di scaricare, a pagamento, la colpa di un incidente provocato dal figlio su un suo fedele dipendente;
6. "Fin che morte non ci separi" è la storia di una tragedia della gelosia che esplode in un delirio di odio e di vendette fra due sposi proprio nel giorno del matrimonio.

La brevità delle storie le rende dense e concentrate, e asseconda la potenza dell’impatto.
La struttura del prodotto risente molto del linguaggio televisivo che sui fatti di cronaca efferata imbastisce trame, detta stilemi, ricava successi. E ci sguazza.

Le sei storie sono bestiali, come suggeriscono le immagini dei titoli di testa, e selvagge, come dice il titolo originale.
Ma il film è divertentissimo.
Come possano delle storie tanto crudeli essere anche così esilaranti e come riescano ad ispirare nello stesso tempo sia il raccapriccio che il riso, lo spiegano i meccanismi complessi della catarsi.
Chiedo venia per il didascalismo, ma forse occorre ricordare che, secondo il pitagorismo, è il processo di purificazione del corpo che porta alla liberazione dell’anima dall’irrazionale.  E che in questo film la narrazione (così ben costruita) die fatti ha lo stesso valore (e ruolo) che nell’antica Grecia veniva assegnato alla poesia, condannata da Platone perché rappresentava ed esaltava “perniciose passioni”, ma elogiata da Aristotele in quanto capace, attraverso la mimesi, di indurre negli spettatori una purificazione delle passioni.
(I cinefili ricorderanno il contrasti su questo argomento fra Guglielmo da Baskerville ed il venerabile Jorge ne Il nome della rosa; e quelli che masticano di psicanalisi sanno che il processo di liberazione da esperienze traumatizzanti o da sistemazioni conflittuali può essere ottenuto attraverso la completa rievocazione degli eventi responsabili del trauma, che vengono rivissuti, a livello cosciente, sia sul piano razionale sia su quello emotivo).

Il meccanismo della narrazione filmica è semplicissimo: il regista presenta un piccolo “incidente critico” (che è esperienza comune di tutti); noi ci immedesimiamo nella vittima (come spesso accade al cinema); partecipiamo divertiti e sollevati alla sua prima reazione (“Bene! bravo!”); poi assistiamo al “naturale” sviluppo del conflitto quasi soddisfatti dal fatto che la guerra non si smorzi (come sempre succede, purtroppo, nella realtà); ed infine ci ritroviamo a tifare con sempre maggior empatia (quasi con entusiasmo) per il protagonista che, diversamente da noi, non molla ma reagisce caparbio, avvia una metamorfosi che da vittima lo trasforma in carnefice, cerca rivalsa e vendetta, dispiega a pieno la sua cattiveria – violenza liberatoria contro violenza ottusa – e chiude la questione alla maniera di Bronson, il giustiziere della notte, in barba a tutte le rassegnazioni e al senso della misura imposto dal convivere civile.


E il segreto dell’appagamento che percepiamo alla fine del film sta tutto nel fatto che siamo così insoddisfatti della nostra acquiescenza che ci facciamo bastare perfino la rappresentazione di una rivalsa.

I Tenenbaum di Wes Anderson (2001)



Wes Anderson fissa l’obiettivo su una bislacca famiglia americana composta da cinque scombinati alla deriva e concentra l’attenzione sul momento cruciale della loro storia, che arriva quando il vecchio padre Royal (un grande Gene Hackman), spodestato per separazione antica, si ripresenta inaspettatamente a casa e pretende ospitalità. Alla reazione negativa della moglie e dei tre figli abbandonati, comunica di essere gravemente ammalato e di avere pochi mesi di vita, e fa capire di voler riparametrare la propria vita e riassettare i rapporti in famiglia prima di morire.
La sua intrusione comunque non è gradita e la notizia della sua imminente fine desta sconcerto ma non provoca gli effetti sperati.
Etheline (Anjelica Huston), la moglie di Royal, cedendo senza troppa convinzione al discreto corteggiamento del suo distinto commercialista di colore sta per risposarsi dopo anni di solitudine rassegnata e non vede di buon grado l’indesiderata riapparizione del vecchio inaffidabile dandy che la costringe a tornare al punto di partenza, azzerando la sua faticosa metempsicosi e precludendole la possibilità di riparare le smagliature affettive della vita.
I tre figli, ex-prodigi in diversi campi, non perdonano al padre la colpa di averli abbandonati e di non aver voluto accompagnarli fuori dalla loro faticosa adolescenza; ma soprattutto non riescono a tollerare che il padre non abbia nemmeno provato a credere in loro; e forse ascrivono alla sua fuga le ragioni della loro involuzione e dei loro fallimenti.
Richie (Luke Houston) già campione di tennis, ha subìto un blocco psicosomatico e non ha più voluto impugnare una racchetta (ma se ne va in giro con la fascia per capelli, occhiali da sole e abbigliamento sportivo; e cerca il sapore della sua infanzia nella tenda da campeggio montata in camera; e fugge dal groviglio familiare imbarcandosi per mesi su navi da crociera). 
Chas (Ben Stiller) ex-genio della finanza, zoologo inventore di topi a pois, rimasto vedovo, è diventato patofobico e ossessionato dai pericoli e si muove con i due figli al seguito indossando (sia lui che i figli-clone) una tuta rossa.
Margot (Gwyneth Paltrow), ex-drammaturga prodigio, è perennemente depressa, fuma di nascosto (a trent’anni suonati), dissimula la sua insicurezza sotto un trucco un po’ adolescenziale e gira avvolta inseparabilmente in una pelliccia; segretamente innamorata del fratellastro Richie, ha un marito premuroso e rassegnato (Bill Murray) e un amante di nome Eli (Owen Wilson, coautore della sceneggiatura), scrittore tossicodipendente, vicino di casa, amico di infanzia e compagno di giochi (suo e dei fratelli) da sempre desideroso di diventare un Tenenbaum.

La casa è surrealmente pop e bizzarramente inalterata, con disegni infantili alle pareti, arredi anni ’70, stanza dei giochi, vinili, lampadari pop.  Anche le musiche (Beatles, Nico senza i Velvet Underground, Paul Simon senza Garfunkel, Bob Dylan, …) evidenziano con didascalica precisione la collocazione temporale della vicenda,  forse a significare la nostalgia incancellabile per l’age d’or o a rimarcare l’amarezza per le vite interrotte o a preservare le condizioni esteriori giuste in attesa della palingenesi interiore.
I costumi, le mise e gli accessori sono tipicizzanti, provocatoriamente connotativi e caratterizzano i personaggi come si usa nei fumetti (i gessati di Royal, la tuta rossa di Chas, la pelliccia di Margot, la fascia di Richie).
La sceneggiatura è zoppicante, come le vite che intende rappresentare; la trama appare (metaforicamente?) sfilacciata; mentre le leggendarie inquadrature simmetriche (ossessione di Anderson) rivelano qui la nostalgia e il bisogno di equilibri introvabili.

Le cinque vite alla deriva restano incerte e sospese, ferme, in attesa, deluse, confusamente rassegnate al fatto che nulla possa ormai accadere, consapevoli che la storia non torni indietro.
Il bizzarro padre, riapparso per rimediare alla colpa originaria, insiste nella sua missione; l’epitaffio che ha narcisisticamente preparato per sé parla di salvezza dal naufragio, ma l’approdo da lui immaginato resta in realtà una speranza, un auspicio.
Forse Anderson vuol dirci che la salvezza dal naufragio sta nell’accettarsi per come si è, con piena consapevolezza; che per sopravvivere basta schivare l’infelicità che deriva dal voler essere o apparire diversi; che è inutile incaponirsi per modificare, reprimere, controllare, resistere, rinegoziare, difendersi; e che non serve assolutamente a nulla aspettare, desiderare, affannarsi per afferrare il tempo o preoccuparsi di rileggere il passato per riscrivere il futuro.  
Una cosa è certa: la vita non ha senso; la vita è un nonsenso.
La natura non può essere sovvertita e la vita consumata non può essere riparata o ricostruita o reinventata.
Non basta ricreare le atmosfere del passato per ritrovare il tempo perduto. Non serve ricucire smagliature affettive per rimettere in carreggiata esistenze deragliate. Le illusioni stinte non recuperano colore o vita dalle cose inanimate, dalle pareti pastello, dagli oggetti-feticcio transazionali, dal remake di occasioni ingoiate dal tempo.
Non resterà traccia degli affanni dei Tanenbaum, personaggi dimenticabili, ridicoli nel loro impotente arrancare per uscire fuor del pelago a la riva.