venerdì 2 dicembre 2016

Julieta (2016) di Pedro Almodóvar


Julieta, una distinta signora ultracinquantenne, in seguito all’incontro casuale con un’amica di sua figlia Antìa (che l’ha abbandonata dodici anni prima ritenendola responsabile della morte in mare del padre), decide di riconsiderare la sua esistenza, ricucirne i brandelli, analizzare errori e fallimenti e tentare di recuperare i rapporti con la figlia. E lo fa attraverso la scrittura di un lamentevole e autoassolutorio diario epistolare che dovrebbe chiarire tutto, aggiustare tutto, assolvere, giustificare, recuperare.
Lo spagnolo Almodovar, il più fantasioso inventore di immagini, traspone in un film alcuni racconti della canadese Alice Munro, la più sofisticata alchimista della parola, e compie l’errore, secondo me fatale, di imbastire una sceneggiatura esageratamente condizionata dalla scrittura e di ammorbare tutto il film con un estenuante sottofondo costituito dalla fastidiosa voce fuori campo di Julieta.
Julieta ricorda e scrive, si dispera e scrive, scrive e si giustifica. E Almodovar, che vuole sottolineare il valore salvifico della parola, ammorba le atmosfere con le estenuanti considerazioni “diaristiche” che rendono la visione eccessivamente narrata, verbalizzano puntigliosamente quel che ci passa sotto gli occhi, chiosano quel che s’intuisce, commentano e spiegano tutto, imprimendo alla trama un andamento pesantemente didascalico.

Il film – che si dipana dalla scrittura di una lettera/diario - è ovviamente farcito da numerosi flashback. Nella prima parte, per ragioni imposte dalla cronologia, prevalgono le splendide scene della solare giovane Julieta che morde con gusto le sue coloratissime giornate. Nella seconda parte, una Julieta fragile e ripiegata su se stessa – vedova e abbandonata da una sbiaditissima figlia – vive con laceranti sensi di colpa i cambiamenti che la vita riserva a ognuno di noi e annaspa per recuperare l’impossibile. Nel finale l’atmosfera si fa sempre più cupa attorno alla scialba Julieta che naufraga e la prefigurazione di un ristabilimento di equilibri non è convincente. 

Ad accontentare gli irriducibili aficionados del regista spagnolo, troviamo molti temi almodovariani (amore e dolore da separazione, nascita e morte, desiderio e abbandono, euforia e depressione, colpa e punizione, rimorso e catarsi, fato, assenza, solitudine, fatica di vivere, …) e non manca l’ossessione compiaciuta per il valore simbolico dei colori (rosso-amore, nero-morte, blu-libertà, …).
Ma non c’è traccia in questo filmetto della densa umanità di Tutto su mia madre o dello struggente pathos melodrammatico di Parla con lei (che tocca il suo apice nell’inarrivabile scena in cui Caetano Veloso canta Cucurrucucu Paloma) o dell’energia iconoclasta di La mala educacion.
Qui le tinte forti le troviamo solo sugli abiti indossati dalla protagonista e sui muri degli appartamenti madrileni. Non rimangono tracce della vitalità barocca dell’ex-eccessivo regista spagnolo e della sua anarchia buñueliana.
Il tempo passa anche per vecchio Pedro, classe 1949.

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E ad essere straziante non è la storia, ma la regia.

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