sabato 18 dicembre 2010

Gioco e teoria del duende (di Federico Garcìa Lorca).


Il duende è quel fluido ineffabile che emana (dal corpo, dall'anima?) del poeta o di chiunque (musicista, ballerino, torero,...) senta il bisogno insopprimibile di spingersi oltre i confini di sé per esprimere la sua traboccante interiorità.
Il duende invade e pervade, attraversa e sconvolge, intride e trasfigura.
Essendo sensazione indefinibile, non può essere teorizzato, insegnato o appreso. E non è possibile possederlo: casomai se ne è posseduti, e mai in modo permanente; perché lo spirito "soffia dove vuole" (Giov. 3. 8) e quando vuole.
Il duende scaturisce dalle profondità telluriche, ti sale attraverso i piedi, ti inebria ("Nunc est bibendum, nunc pede libero pulsanda tellus" Orazio, Odi, I, 37, 1), ti attraversa il corpo e dal corpo promana stabilendo un ponte elettrico con chi ti circonda.
Se reciti e interpreti una poesia con la più raffinata abilità attoriale, potrai colpire e smuovere le emozioni di molti fra quelli che ti ascoltano; ma se leggendo la stessa poesia ti lascerai pervadere dal duende, l'emozione emanerà da te, non solo dal testo, e impregnerà totalmente lo spazio, farà vibrare l'aria, assorbirà l'attenzione di tutti. Riuscirai ad inondare i loro nervi di commozione, li sommergerai nella tua sensibilità, fagociterai la loro percezione determinando una rivelazione e una eversione, una sorta di estasi collettiva e di ebbrezza dionisiaca, un’esperienza mistica e un sovvertimento, uno stato di sospensione e annullamento, di illuminazione e di ascesi, di catarsi e di beatitudine, di assenza e di assoluto.
Solo chi ha il caos dentro di sé può generare una stella che danzi. (Nietzsche)

martedì 3 agosto 2010

SESSANTOTTO E DINTORNI (6): Gonrieux

Il problema delle vacanze estive del ‘67 lo risolsi iscrivendomi all’associazione internazionale dei “Soci Costruttori” che organizzava campi di lavoro in quasi tutti i paesi europei.
Mi offrirono l’opportunità di scegliere se andare a raccogliere la frutta in Baviera o in Belgio a imbiancare una chiesa. Per l’idiosincrasia che provavo nei confronti della lingua tedesca, scelsi il Belgio, pur sapendo che il lavoro del raccoglitore di frutta è più salubre e meno faticoso di quello dell’imbianchino.
Con me si era aggregato un amico ed una ragazza con la quale stavo tentando di instaurare una relazione un po’ più stabile e salda dell’amicizia.
Il viaggio fu, come lo sono tutti gli spostamenti, una esperienza preziosa: ogni dislocazione porta con sé una maturazione, una crescita; ogni spostamento comporta un allargamento delle proprie frontiere e un ampliamento dei propri orizzonti; ogni spaesamento ti sradica dalla protettiva dimensione domestica, ti decentra, ti porta a prender coscienza della tua collocazione nel vasto mondo, ti costringe ad assumere consapevolezza di non essere l’ombelico dell’universo. Il viaggio amplia i confini, snida l’anima dal localismo provinciale, libera il cervello dall’angustia dei pensieri, fa uscire il cuore dalla ristrettezza.

La nostra destinazione era Gonrieux, un paesino belga sulle Ardenne, a pochi chilometri di Carleroix, sulla strada che porta al confine con la Francia.
Le tre ragazze che facevano parte della squadra furono alloggiate in canonica, considerato che la loro occupazione era principalmente quella di preparare pranzo e cena per i venti imbianchini che lavoravano in chiesa.
Noi maschi fummo ospitati, a coppie, presso le famiglie del paese, orgogliose di poter in questo modo contribuire al restauro della chiesa.
Il paese era piccolo, contava forse non più di quattrocento abitanti, aveva una sola piazza all’incrocio di tre strade, un piccolo giardinetto con un piccolo monumento ai caduti della Grande guerra, un piccolo bazar in cui si trovava tutto quel che serviva, un piccolo municipio, un piccolo cimitero.
Di grande c’era solo la birreria nella quale tutte le sere si radunavano, immancabilmente, tutti i maschi del paese.
E di immenso c’era, purtroppo, la chiesa che dovevamo tinteggiare.
Il lavoro dell’imbianchino è fra i più faticosi del mondo: la pennellessa utilizzata per stendere la tempera dopo le prime venti pennellate diventa pesante come il piombo, il braccio si indolenzisce, la spalla si anchilosa, la schiena si spezza, la testa gira. E non è bello se la testa gira quando si è sospesi a venti metri di altezza.
Comunque, messe tutte le protezioni e prese tutte le precauzioni per la sicurezza, il ritrovarsi sotto una cupola con il pennello in mano ci dava un’euforia michelangiolesca.
Il nostro contratto stabiliva che si lavorasse sei ore al giorno da lunedì a venerdì. Ci davamo dentro otto ore al giorno invece delle sei stabilite, in modo da essere liberi ogni giovedì pomeriggio. Dopo una doccia, zaino in spalla, ci piantavamo in mezzo alla piazza, sotto il cartello stradale che indicava Paris o Bruxelles e trovavamo immediatamente il passaggio verso la destinazione scelta.
Il primo fine settimana visitai Parigi, facendo il canonico giro del turista (l’Ile con Notre-Dame e la Sainte Chappelle, i buoquinistes lungo la Senna, il Louvre, Montmartre, la tour Eiffel).
Il secondo fine settimana visitai Bruxelles della quale ricordo solo confusamente la Grand Place e, più chiaramente, l’Enfant qui pisse.
Sulla strada per Bruxelles però ho chiaro il ricordo della periferia di Charleroi con i suoi allucinanti cumuli di detriti nella zona delle miniere di carbone e l’altro cumulo, quello di Waterloo, non so se tomba delle migliaia di caduti o monumento alla sconfitta dell’Imperatore.
Il terzo fine settimana, più breve perché interrotto per il rientro a casa fissato la domenica mattina, mi dovetti accontentare di Reims, della quale ricordo la incredibile cattedrale e, lungo la strada, gli sterminati vigneti della Champagne.

Esilio

"Allontanarsi dalle creste pericolose, annacquare il vino dei sentimenti, diluire, dosare, spezzare la coazione dei desideri".
Fred Vargas, Nei boschi eterni, Einaudi 2007

mercoledì 21 luglio 2010

Il tempo che ci rimane - di Elia Suleiman ( 2009)

C’è una breve scena emblematica che sintetizza il senso di questo film sulle condizioni dei Palestinesi che vivono nello stato di Israele: un ragazzo arabo è davanti alla sua casa e sta parlando al cellulare; la strade è deserta ed assolata; un carro armato è parcheggiato pochi metri più in là col cannoncino ad alzo zero puntato su di lui. Il ragazzo parla e gesticola, fa qualche passo, attraversa la strada, si abbassa a raccogliere qualcosa da terra, torna indietro verso il cancelletto del suo giardino, si ferma, prosegue, indugia. Il lungo cannone del carro armato si muove seguendo i suoi movimenti, sempre puntato su di lui e lo segue passo dopo passo, con lo stridore degli ingranaggi della torretta. Lui non sembra accorgersi del mastodonte che pare una minacciosa macchina vuota che si muove calamitata dalla sua testa: solo dopo aver varcato il cancelletto di casa lancia un’occhiata verso il carro, da sopra il muretto o la siepe, come se si fosse accorto solo in quel momento di quell’ingombrante assurda presenza.

Elia Suleiman , unico in questo, sceglie l’ironia - amara, staccata, surreale - per rappresentare l’assurda condizione del suo popolo prigioniero in casa, dei suoi concittadini esuli in patria.
Questo autoritratto desolato e ironico, acre e fatalista (ed anche un po’ arruffato), questo sarcasmo distaccato e dolente (che talvolta scivola un po’ in caricature compiaciute) aiutano il regista a ricostruire quasi un secolo di storia senza cedere alla disperazione e convincono certamente più di ogni propaganda ammalata di retorica, più di ogni corteo, di ogni slogan, di ogni kefia che si incrocia sul corso.
Viene voglia, per un attimo, di sperare che questa ironia (“una risata vi seppellirà …”) riesca dove hanno fallito l’Intifada, le guerre, il terrorismo, le pressioni internazionali, le alleanze panarabiche, le risoluzioni dell’ONU, …

giovedì 15 luglio 2010

La speranza

La speranza è buona come prima colazione, ma è una pessima cena.
Francis Bacon

martedì 13 luglio 2010

Il poeta è un fingitore

I poeti che strane creature.
Ogni volta che parlano è una truffa.
(De Gregori - De André, Le storie di ieri)

AUTOPSICOGRAFIA
(Fernando Pessoa, Presença, n. 2, Coimbra, Nov. 1932
in Il mondo che non vedo, BUR, Milano, 2009, pag. 666
Traduzione di Omero Sala)

Il poeta è un grande fingitore.
E quando finge par così sincero
che arriva a simular come dolore
il dolore che sente per davvero.

E coloro che leggon la poesia,
nel dolore da lui rappresentato,
non colgon quello vero o la bugia,
ma altro che non hanno mai provato.

E così se ne va senza destino
trainando sui binari la ragione,
questo piccolo inutile trenino
che ci ostiniamo a definire cuore.

venerdì 9 luglio 2010

Dove stare

Una vecchia bambina, su una panchina del parco, mi ha raccontato un giorno che era stata in un paese dove tutto quello che si desiderava succedeva davvero.
Volevi una torta: ecco la torta. Volevi un vestito nuovo: ecco il vestito nuovo. Volevi un gioco, i riccioli biondi, il papà bello e importante, la mamma più buona: ecco fatto.
Volevi il cielo sereno, la pioggia con l'arcobaleno, la neve soffice e non troppo fredda: ecco il sole, l'arcobaleno, la neve per fare pupazzi.
Ma chissà perchè - mi diceva la vecchia bambina - quelli che capitavano da quelle parti si fermavano poco.
Arrivavano, esprimevano due o tre desideri, poi ancora due o tre, si sfogavano a sfornare desideri per qualche giorno, poi si guardavano in giro e desideravano essere da un'altra parte.
Ed ecco, si trovavano da un'altra parte, ovunque, dove i desideri restano desideri.

giovedì 1 luglio 2010

Tracce

A circa trecento o quattrocento metri dalla piramide, mi chinai, presi un pugno di sabbia, lo lasciai cadere silenziosamente un po’ più lontano e dissi a bassa voce:
Sto modificando il Sahara.

(J. L. Borges, Atlante)

martedì 29 giugno 2010

L'artista

Quella dell'artista non è innocenza, semmai è incompletezza, destino mozzato.
Non è capace di diventare un uomo adulto. Certo, potrà pagare le tasse, partecipare alle primarie del Pd, figliare, fare la raccolta differenziata. Ma dentro di sé, nel cantuccio più riservato e inconfessabile della sua fibra vitale, non capirà mai bene che cazzo significano tutte quelle cose. Ed è proprio in questa incomprensione radicale, in questo stare al mondo per pura convenienza e imitazione, sperando sempre che gli altri non se ne accorgano, è proprio in questa idiozia senza rimedio che si annida (come una malattia mortale, non come un privilegio) la sua capacità di visione, di allucinazione, di decostruzione del reale. Dall'Uomo del Sottosuolo al Paranoid Android dei Radiohead, la grande poesia moderna non ha fatto altro che dare forma a questa anomalia, a questo residuo inservibile dell'evoluzione umana, a questo destino inteso come scherzo del destino.

(Emanuele Trevi, I critici della critica, il manifesto, 28 gennaio 2010).

lunedì 21 giugno 2010

SESSANTOTTO E DINTORNI (24): Le avventure di un regista

Il mio interesse per il cinema e il fatto che nella scuola si cominciasse a parlare con maggior sensibilità di educazione all’immagine, mi spinsero a iscrivermi ad una scuola di cinema. Il corso, organizzato dalla Regione Lombardia, era biennale; al termine del biennio ottenni un diploma di “Operatore audiovisuale per la didattica” e divenni coordinatore didattico del corso successivo al mio e frequentai la scuola per un altro anno.
Dal punto di vista tecnico imparai ad usare cineprese (superotto e 16 millimetri) e moviole (portatili per il superotto e professionali per il 16 mm), macchine fotografiche (ripresa, sviluppo e stampa), telecamere professionali (e anche i primi videoregistratori con telecamere portatili collegate ad un registratore a nastro, grosso come un baule, alimentato da una batteria come quelle delle automobili, pesante quanto un macigno). Bazzicai in una sala di montaggio, a Milano, e imparai a montare e sonorizzare il 16 millimetri, usando una moviola “vera”.
Dal punto di vista linguistico imparai le regole della comunicazione audiovisiva, la sceneggiatura, le sequenze, i tempi, i movimenti di macchina, le profondità di campo, le focali, il montaggio.
In concreto realizzai o collaborai alla realizzazione di diversi documentari (su mestieri scomparsi, sull’agriturismo,…)

Col regista Achille Rizzi collaborai alla realizzazione di documentari per La Scuola Editrice su alcune regioni italiane.

Con Berbenni conobbi le tecniche di produzione di documentari scientifici: ci mostrò una cinepresa che riusciva a scattare parecchie decine di fotogrammi al secondo utilizzando oltre al classico otturatore ad elica un particolare congegno rotante, a specchi; ci mostrò sequenze al rallentatore girate con quella macchina: la goccia di latte che cade sulla superficie, un proiettile che infrange una lastra di vetro, il battito di ali di un calabrone,...

Con Olmi, non Ermanno, girammo un documentario sulla Resistenza nelle valli bresciane. Il mito della Resistenza unitaria contro il fascismo cominciava in quegli anni a sgretolarsi: la lunga guerra fredda e la lotta politica che divideva in Italia i comunisti dalle altre forze politiche si riverberavano sul passato e facevano affiorare i contrasti mal repressi durante il Ventennio e in guerra. In quella occasione sentii per la prima volta raccontare in maniera più esplicita dei sordi contrasti fra le formazioni comuniste e le altre formazioni: rivalità nei reclutamenti di volontari, risse attorno alle zone di lancio di rifornimenti e armi, scontri per la ripartizione delle zone di controllo, spiate e agguati; un vecchio partigiano, deluso e rancoroso, ci raccontò anche dell’assassinio di un alto comandante da parte di una banda concorrente perpetrato ad un posto di blocco da partigiani vestiti da repubblichini (l’intervista non venne inserita nel documentario).

Con il critico Tatti Sanguineti imparai a leggere i classici del nostro cinema realista (vidi e analizzai con lui Riso amaro).

Con quel matto di Paolo Gioli imparai che la creatività si esprime anche con una scatola di scarpe, che il linguaggio audiovisivo può cercare strade anarchiche fuori dalle rotte.

La specializzazione mi servì anche sul lavoro. Fui incaricato di curare l’educazione iconica nelle scuole in cui operavo, di costruire un curricolo di educazione all’immagine, di aggiornare i colleghi, di tenere corsi di formazione in molte scuole della provincia.

Il giorno in cui scoppiò la bomba in piazza Loggia mi precipitai a prendere gli attrezzi e mi trovai sul posto prima che le ambulanze avessero finito di portar via morti e feriti.
Feci una ininterrotta ripresa sulla gente che vagava sbigottita nella piazza, sugli operai che avevano interrotto il lavoro per riunirsi sul luogo del massacro, sul lago di sangue che inondava il selciato, sui brandelli di carne incollati ai muri, sul pilastro sbrecciato dall’esplosione, sui fotografi accorsi.
Da sopra una fontana ripresi e registrai, piangendo, un gruppo di uomini che sottovoce intonarono, in mezzo a quel macello, “Fischia il vento”.
Restai nella piazza fino a quando arrivarono i pompieri per lavare con gli idranti selciato e muri, cancellando l’orrore e rimuovendo indizi utili agli investigatori.
Fui ammesso ai funerali con il pass della stampa e feci un’accurata ripresa di tutta la cerimonia in piazza e lungo il percorso fra le vie del centro, scisso fra il dovere di riprendere le autorità, i gonfaloni, il servizio d’ordine imponente, il dolore composto della gente comune e l’istinto di dare spazio alla rabbia dei giovani tenuti lontano dal percorso, ai loro pugni chiusi, alle loro bandiere rosse.

domenica 20 giugno 2010

BLOG

Se hai un segreto veramente importante, confidalo alla fessura di un albero secolare, che lo conserverà per sempre.
(In the Mood for Love di Wong Kar-wai).

sabato 19 giugno 2010

In the Mood for Love di Wong Kar-wai (2000)


Hong Kong, 1962.
Un uomo e una donna (il signor Chow e la signora Su Lizhen), vicini di casa, scoprono casualmente che i rispettivi coniugi sono amanti. La voglia di sapere e capire li porta ad avvicinarsi e a studiarsi con prudente circospezione forse per quel senso di solidarietà che unisce gli esclusi o forse per indagare le proprie inadeguatezze o per capire i meccanismi della insoddisfazione e della attrazione, del rapporto inappagante e del tradimento. Dopo l’iniziale reciproca curiosità, i due si cercano con una certa assiduità; e la vaga simpatia si trasforma in un’attrazione indecisa, in un affetto reticente, in una incerta dolcezza piena di pudori, frenata dalla timidezza, dalla insicurezza, dalla confusione emotiva.
La voglia di tenerezza è forte e Chow e Su Lizhen non riescono a lasciarsi; ma nemmeno riescono ad abbandonarsi ad una relazione clandestina (come quella che lega i rispettivi coniugi insinceri) e a cedere ad un sentimento che potrebbe sembrare attizzato dalla ripicca.
Si sfiorano ma non si toccano, si intrattengono ma si contengono; non riescono a nascondere il loro insopprimibile desiderio ma lo reprimono; soffocano la loro attrazione e la occultano a tutti; giocano di nascosto a recitare la parte degli amanti ma non sanno portare fino in fondo la loro stentata finzione, troppo sensibili, delicati, emotivi per “consumare” il rapporto e cercare squallide eccitazioni clandestine.

L’idea di tenerezza nasce da una sensazione di insoddisfazione.
Il desiderio inappagato è più intenso di quello esaudito e placato.
La sublimazione ha, appunto, tratti di sublimità.
Il rimpianto è, fra i sentimenti, quello più struggente ed assoluto.
La storia d’amore più appassionata è quella che sarebbe potuta accadere.
Il tempo perduto occupa l’anima più di quello vissuto.
Un non-amore può cambiare la vita.

Il sogno, per definizione, deve rimanere irrealizzato e inconfessato; e per non infrangersi non può che restare segreto, per tutti e per sempre: può essere bisbigliato dentro la fessura di un albero nascosto nella foresta o può essere sussurrato e custodito in una crepa, poi sigillata, di un muro fra le rovine di un tempio abbandonato. Ma questo intimo sogno di un amore, noi lo abbiamo conosciuto: abbiamo colto l’inespresso, abbiamo sentito quello che il triste e gentile signor Chow e la dolce e malinconica signora Su Lizhen non si sono detti, abbiamo visto i segni invisibili che questo non amore ha lasciato sulle loro invisibili anime.
 
Splendidi dunque i silenzi, ovviamente. E dolcissima la colonna sonora (di Michael Nyman) e i brani di musica inseriti (Yò te quiero mucho, Qui sas,…).
Efficacissimi i movimenti claustrofobici della macchina da presa dentro spazi stretti, la monotonia delle inquadrature, il montaggio spezzato e incoerente (come lo sono i ricordi), gli sguardi mesti e i gesti trattenuti, la recitazione sobria e reticente, l’immagine ricorrente di un orologio che segna il tempo che scivola via, sotto la pioggia, insistente ed inutile.




martedì 8 giugno 2010

La nostra vita di Daniele Luchetti (2010)

Claudio è un buon marito innamorato, un buon padre giocherellone affettuoso, un buon muratore instancabile e competente. Fuori da questi confini costituiti da casa e cantiere non esiste altro per lui. E quando la moglie muore di parto dopo avergli dato il terzo figlio, si dissesta.
Per risarcire se stesso ed i figli concentra le sue energie sul secondo pilastro della sua vita, il lavoro, e decide di fare il salto di qualità, di diventare imprenditore, di conquistare per sé e per i figli il benessere, di costruire le condizioni economiche che gli consentano di avere tutto quello che la società dei consumi gli fa baluginare sotto gli occhi dalle finestre degli schermi al plasma e dalle vetrine del megacentro commerciale nelle rituali visite domenicali.
Ai bambini - pensa - non mancherà nulla se avranno tutto quello che desiderano.
Nella sua scalata non si pone problemi etici e remore morali, convinto di avere tutti i diritti nel pretendere un risarcimento dopo essere stato depredato; sicuro di poter concedersi qualche prepotenza dopo aver subito la più atroce e immeritata delle ingiustizie.
Ma il riscatto, le manovre dei subappalti, lo sfruttamento cinico dei clandestini, il lavoro mal fatto, … riescono meglio a chi conserva la fredda lucidità dello squalo, non a chi si smarrisce davanti ad ogni “persona” che incontra. E la fortuna, si sa, aiuta gli audaci prepotenti, non le vittime disorientate.

Luchetti ha acceso i riflettori su un piccolo set ed ha raccontato le tristi vicende di un ristretto clan di anime smarrite alla deriva, ma ha saputo (mi pare) far baluginare - fuori dagli ambienti che descrive, sopra la storia che racconta, attorno ai personaggi che crea - una spaventosa realtà nella quale annaspano tutti i fantasmi sullo schermo e nella quale anneghiamo tutti noi, in platea.
Le sventure di Claudio sono sue, ma l’acqua in cui Claudio si dibatte è “la nostra vita”.
Claudio forse si salva, non per quello che fa.
Noi, per quello che non facciamo, siamo nel guado.
Noi, spettatori impotenti - non attori - di una deriva (personale e universale, esistenziale e sociale, etica e politica) che sembra inarrestabile; spettatori paganti, che di giorno in giorno cediamo anima e dignità, rinunciamo ad alzar la testa, ci rassegniamo al quia e scontiamo la nostra consunzione; spettatori disorientati che assistiamo alla rappresentazione della nostra progressiva emarginazione e alla espulsione graduale e indolore della gestione democratica del nostro destino; spettatori reclusi che ci lasciamo soggiogare senza reagire e accettiamo il guinzaglio che ci segrega nel triangolo “casa-cantiere-supermercato”; e ci accontentiamo del panem et circenses; e seguiamo nel buio della multisala le tristi vicende di un campionario della nostra umanità senza avere l’impulso di prenderci per mano.

P.S.
La qualità tecnica del film, a questo punto, interessa meno: non saranno le disquisizioni sulle defaillances della sceneggiatura, sulle incertezze registiche o sulla gigionaggine romanesca degli attori (e sulla loro recitazione neorealista che avrebbe bisogno, fuori dai confini del Lazio, di sottotitoli), … a toglierci dalla bocca e dall’anima l’amaro di una sensazione di declino.

lunedì 7 giugno 2010

Draquila, L'Italia che trema di Sabina Guzzanti (2010)

Il terremoti che hanno colpito L’Aquila nel passato hanno visto all’opera i professionisti della fede mobilitatisi per ammonire e redimere i peccatori, consolare gli afflitti, vestire gli ignudi, dar da bere agli assetati e seppellire i morti. I predicatori medioevali del 1303 e del 1349, così come la moltitudine di preti e suore inviati da papa Clemente XI nel 1703, portarono alla popolazione decimata la carità solidale, trasmisero parole di speranza e contribuirono non solo alla rinascita della città ma anche al rinnovamento della fede, testimoniato dalla presenza di chiese e santuari, conventi e cappelle e dal documentato diffondersi di culti, dall’intensificarsi di novene e processioni, dal rifiorente commercio di reliquie.
Il terremoto del 2009 ha visto le innumerevoli apparizioni (in loco e in video) dell’unto del Signore, Santo Fondatore del Partito dell’Amore, l’Omino di Burro, seguito a ruota da un codazzo di parassiti del sottobosco politico, da un corteo di corruttori a braccetto coi corrotti, da processioni di strateghi del decreto urgente e della normativa straordinaria (“poteri speciali ad un uomo speciale”), da squadre di professionisti dell’appalto e del subappalto con il seguito di ballerine e nani, pervertitori e pervertiti, geometri indecenti e consolidatori del consenso, liberi imprenditori e incensatori.
Quello che per la popolazione aquilana è stata una tragica sciagura, si è rivelato un felice quanto inatteso colpo di fortuna per questa orda di vampiri (Draquila = Dracula + Aquila) composta da politici in declino e da speculatori mai sazi.
Sabina Guzzanti, la comica, gira un film dell’orrore. Con la sua traballante cinepresa, i montaggi approssimativi, le immagini sfuocate e disomogenee, le passeggiate notturne fra le macerie, le manovre da giornalista d’assalto, … contrappone i fatti alle parole; racconta la tragedia di una splendida e sfortunata città che ha subito un terremoto e si è vista “castigare” dai quelli che le hanno promesso la rinascita. Lo fa con passione, con impietosita partecipazione. Facendo parlare i fatti e defilandosi con pudore, visto che l’impudicizia delle cose che racconta basta e avanza.
Lo sconforto è grande, se si pensa che quelli che ballano sulle macerie de L’Aquila sono gli stessi che da qualche anno danzano sull’Italia in rovina. Lo sconforto è grande nel vedere che a resistere a questa orda indecente resta solo il dignitosissimo sdentato professor Colapietro, eremita in una città fantasma, fra cumuli di detriti e muri puntellati, solo con i suoi gatti e i suoi libri.

domenica 6 giugno 2010

Rigurgiti

Non serve cercare appigli se tutto precipita con te.
Quello che sembra disorientamento esistenziale è in realtà una frantumazione metafisica; la transizione è un transito; il declino è un agonia.
L'amorfa indifferenza nasce dalla netta percezione che è calato un diaframma; l'inettitudine sociale, la rassegnazione, il senso di estraneità sono la reazione incontrollabile ed inevitabile alla espulsione.
L'utopia della palingenesi varrà per altri: quella a cui assistiamo è una degenesi.
Se verranno altri tempi, come si dice, saranno altri tempi; cioè tempi di altri.

mercoledì 12 maggio 2010

Agora di Alejandro Amenábar (2009)

A prima vista il film pare un “peplum” degli anno ’60: per la splendida protagonista, innanzitutto; e poi per tutto il contorno di senatori, sacerdoti, schiavi, legionari, mercanti, comparse varie. La scenografia è … faraonica, l’ambientazione ricorda i film mitologici; le piazze, i palazzi, il tempio, la biblioteca rimandano ad Antonio e Cleopatra; i costumi sfarzosi e le acconciature sono le stesse Poppea o Spartaco; e ancora i movimenti di folla, il popolo … Pare di assistere ai mitici film con Ursus o Ercole o Maciste. E dal mare ti aspetti che giungano gli Argonauti o il disorientato Ulisse.
La trama invece, sia pure con qualche ovvia libertà narrativa, è congegnata attorno a fatti storici ed è sorretta da una ricerca sufficientemente seria e documentata; i luoghi sono ricostruiti con una certa fedeltà; i personaggi sono ricalcati su persone realmente esistite; le dispute sono ricavate da testi di autori del tempo.
La vicenda si svolge verso la fine del IV secolo dopo Cristo ad Alessandria, la città che col suo Faro e la sua Biblioteca illumina, in tutti i sensi, il Mediterraneo. Il faro, costruito nel 280 a.C. su un isolotto che si chiama Pharos, è quello che dà il nome a tutti i fari: considerato una delle sette meraviglie del mondo, è alto circa 130 metri (è la costruzione più elevata e imponente dell’antichità) e resterà in funzione fino al 641.
La biblioteca è la più grande e la più ricca del mondo antico (alcuni storici, nel riferire degli incendi che l’hanno più volte devastata, parlano di 40.000 volumi, altri di 700.000); per secoli è il principale punto di riferimento della culturale classica, greca ed ellenistica; viene distrutta più volte (da Cesare nel 48 a. C., da Aureliano nel 270 d.c., da Teodosio nel 390) e più volte ricostituita fino alla conquista Araba del 642; è da sempre una istituzione - quasi come una sede universitaria - frequentata di filosofi, politici, astronomi, matematici, scienziati di varie discipline e di vari credi religiosi che studiano, discutono, si confrontano, insegnano.
Fra gli scienziati presenti alla fine del IV secolo spicca, non solo per la sua bellezza, Ipazia, matematica, astronoma, filosofa, ricercatrice, insegnante. Suo padre e suo maestro è Teone, custode e responsabile della biblioteca. Fra i suoi allievi vi è Oreste (futuro prefetto della Città), Sinesio di Cirene (poi filosofo neoplatonico, scrittore, vescovo di Tolemaide). Fra i suoi schiavi Davos, incantato di lei e dei suoi insegnamenti, incatenato a lei da un amore tormentato e confuso.

In città convivono pagani, ebrei e i cristiani. Questi ultimi, perseguitati e martirizzati fino a pochi decenni prima, sono in forte espansione. Li guida il vescovo Cirillo (lo stesso che nel concilio di Efeso del 431 si opporrà ai nestoriani), succeduto sulla cattedra episcopale allo zio Teofilo.
Cirillo - sotto la protezione non disinteressata dell’imperatore - ambisce al controllo totale della città e non solo desidera fare proseliti e convertire, come è nella sua missione, ma vuole imporre la sua religione e “cristianizzare” la vita, la cultura, l’etica, la politica. Per affrontare le tensioni che crescono e risolvere i problemi di ordine pubblico, assume il controllo della città, trasforma le sinagoghe e i templi pagani in chiese, vieta altri culti imponendosi sul prefetto che tenta con scarso successo di garantire la libertà religiosa. Il braccio armato del vescovo è costituito da una vera e propria milizia di fanatici monaci chiamati parabalani (dei proto-talebani!) che - guidati dall’invasato Ammonio - fanno proselitismo distribuendo pane ai poveri e dando la libertà agli schiavi, ma - nutrendosi di slogan e muovendosi in massa - sbaragliano i nobili pagani recalcitranti, inducono alla conversione gli indecisi, perseguitano gli eretici, bruciano ed esiliano gli ebrei promuovendo il primo pogrom della storia (Piangete per loro, gli assassini di Cristo, perché saranno perseguitati in eterno).
A Cirillo, futuro santo, si oppone la “laica” Ipazia : dedita totalmente alle sue ricerche chiede la tolleranza, insegna la convivenza, sostiene e pratica il dialogo in nome della scienza (Sono più le cose che ci uniscono, di quelle che ci dividono, siamo tutti fratelli,…); fa appello alla filosofia, ha amore per la conoscenza, crede nel dubbio (Voi non mettete in discussione ciò in cui credete - dice ai cristiani); non vuole essere coinvolta nella lotta fra cristiani e non cristiani (forse anche perché ne comprende con troppa lucidità le ragioni tutte politiche); non accetta che la sua biblioteca venga profanata da torme di faziosi e fondamentalisti (orde cristiane, un ossimoro!) e, quando la biblioteca brucia, non pensa a sé ma ai papiri e alle pergamene da salvare.
Ipazia, la bella Ipazia, ha un’altra colpa, oltre a quella della “laicità”: è donna. Una donna che - senza arroganza - sa insegnare agli uomini e gode del loro rispetto, della deferenza del prefetto, della considerazione di vescovi, dell’affetto di molti allievi. Una donna che, con pacata e ferma ostinazione, osa resistere e persiste nelle sue convinzioni opponendosi con coraggio al vescovo che ha piegato tutti con determinazione feroce (e che contro di lei, per sancire la sua inferiorità, invoca l’autorità di S. Paolo citando la Lettera ai Corinzi 11, 3-10, dove si afferma che l'uomo non ebbe origine dalla donna, ma fu la donna a esser tratta dall'uomo; né fu creato l'uomo per la donna, bensì la donna per l'uomo).
Nel marzo del 415, Ipazia viene fermata dai parabalani, condotta al tempio, denudata e uccisa.
Nel film la morte avviene per strangolamento dalle mani pietose del suo schiavo Davos. La storia racconta che - come avveniva per molte martiri cristiane - le furono cavati gli occhi e fu lapidata, straziata con gusci di conchiglia, smembrata e fatta a pezzi, bruciata su un cumulo di immondizia. Il film su questi scempi è reticente, forse per non concedere troppo ai gusti sadici imperanti, forse per farsi perdonare qualche libertà storica, alcune alterazioni ed enfasi, alcune incongruenze e forzature…

Lo scopo del regista d'altronde non è quello di ristabilire verità storiche o di accusare la chiesa cristiana o le religioni in generale, ma è quello di denunciare la violenza e l’estremismo, l’intolleranza e il dogmatismo. Come Ipazia, Amenabar non si schiera (di questo non sembrano accorgersene molti critici “difensori della religione”). Il regista descrive con accorata sofferenza quello che Ipazia, con accorata sofferenza, vede: l’ottusa ferocia di tre estremismi radicali, la cecità degli integralismi, la tragica impotenza dei moderati, l’inutilità della indipendenza del pensiero.
Amennabar, come Ipazia, condanna, con accorata sofferenza e angosciosa partecipazione, chi con furia iconoclasta brucia i libri (… Bebel-platz, … Fahrenheit 451,…), chi vuole imporre una fede, chi usa la religione per conquistare il potere o conservarlo e ne fa instrumentum regni, chi si arroga il diritto di detenere la Verità, chi alimenta l’intolleranza, chi pretende di imporre un culto ufficiale, chi vuole dettare regole civili ed etiche, chi catechizza e impone comandamenti, chi issa bandiere con simboli religiosi.

Splendide, grandiose, estremamente significative ed assolutamente paradigmatiche, le inquadrature dall’alto, i magnifici movimenti, le visioni-evasioni stellari della macchina da presa che, come lo sguardo di Ipazia, si allontana nell’incommensurabile vastità dell’universo imperturbato, si perde nel tragico silenzio siderale dello spazio, in muta sintonia con l’armonia delle sfere celesti, distaccandosi - impotente - da questa misera terra chiassosa, straziata, intrisa di sangue e abitata da insetti feroci e ottusi.

BROTHERS di Jim Sheridan (2009)

La famiglia Shepard è composta da Sam (Tobey Maguire) un impettito ragazzone che di mestiere fa il marine, dalla moglie Grace (Natalie Portman) graziosa ex-cheerleader del liceo e ora impeccabile moglie e mamma di due deliziose bambine. Attorno alla famigliola felice si aggirano Tommy (Jake Gyllenhaal), fratello di Sam e scombinato lazzarone ed il padre, veterano del Vietnam, orgoglioso del primogenito marine e perennemente irritato dalla mascalzonaggine del secondogenito.
Sam, in missione in Afganistan, è fatto prigioniero dai Talebani: tutti lo credono morto; nella lunga prigionia subisce atroci torture fisiche e psicologiche.
Nel frattempo Tommy, lo scavezzacollo si riavvicina alla famiglia, vuoi per il presunto lutto che unisce, vuoi per amore delle due nipotine che lo adorano: perfino i rapporti col padre migliorano; e fra lui e la cognata nasce una certa affettuosità.
Quando Sam ritorna, sconvolto per le atrocità vissute, il suo squilibrio altera tutti gli equilibri. Non regge l’impatto con la normalità e con la ritualità banale della quotidianità, ma anche il mondo normale lo respinge; si lascia sommergere dalle ossessioni e non riesce più a comunicare con le bambine, ma anche le bambine sono distanti perché non gli perdonano l’assenza, non sostengono la sua dissociata paranoia e gli preferiscono il solare zio; si lascia macerare dai sospetti di tradimento della moglie e del fratello e li affronta con rabbia, ma loro, dolorosamente, sopportano tutto perché non lo vogliono abbandonare. La ricomposizione sarà difficile.

La guerra lacera irreparabilmente chi la subisce e chi la infligge. Per quanto la si voglia portare lontano da casa, ritorna e devasta tanto i colpevoli, quanto gli innocenti.
Dietro la patetica maschera del patriottismo si nascondono debolezze e fallimenti. Mentre anche il più disadattato dei falliti si rivela migliore dei migliori eroi.

La regia è impercepibile e quindi perfetta.
Gli attori sono credibili al punto di fondersi coi personaggi: Maguire che nella prima parte del film è un rigido soldato dall’aria marziale, diventa una larva umana, allucinata e psicotica; la Portman è così convincente che fa dimenticare la sua carineria; Gyllenhaal fa pensare che nella vita reale non possa essere dissimile dal suo personaggio, ed è convincente sia quando fa lo sballato che quando prende in mano la situazione e tenta di raddrizzare le cose; perfino la più grandicella delle due bambine sorprende per la sua straordinaria espressività ed è capace di render con efficacia l’angoscia trattenuta e di passare in un nanosecondo dal sorriso forzato alla lacrima repressa.


sabato 8 maggio 2010

Abbracciare l'aria

Guardò da tutte le parti se lo stavano osservando perché si sorprese ad abbracciare l’aria.
(M. de Unamuno, Nebbia)

martedì 27 aprile 2010

Notte

Vi passò tutta la notte, trascorsa in un dormiveglia interrotto ogni tanto dai morsi della fame, dai crucci e da vaghe speranze.
(Franz Kafka, La metamorfosi)

Stanza

Dietro la porta chiusa c’era una stanza disabitata da molto tempo.
(F. Dostoevskij, Delitto e castigo)

giovedì 15 aprile 2010

I migliori anni della nostra vita (di Ernesto Ferrero)

Curioso, intenso, straordinario attestato di amore per i libri, da gustare, pagina dopo pagina. Lo si legge con avidità. E resta la voglia di rileggerlo, di sfogliarlo o di aprire le pagine a caso per cercare o riscoprire quei folgoranti "ritratti" di famiglia che ci restituiscono l'efficacissimo profilo di Giulio Einaudi e le autentiche, genuine, vivissime istantanee dei "suoi" scrittori.
Leggendo questo libro conosciamo da vicino il riservato e reticente Calvino, l'occhialuto e scontroso Pavese (un cardo selvatico), il solare Vittorini (un dolce di pasta alle mandorle); il lunatico e immaginifico Manganelli (ghiottone vorace, tapiro baffuto, obeso e malinconico); il timido, cerimonioso, golosissimo Gadda (anche lui come Manganelli, definito tapiro malinconico); il pignolo e lucidissimo Sciascia, il nervoso e ossuto Pasolini; la Morante, col suo amore per i gatti e il suo pittoresco abbigliamento da zingara; Bobbio, il guru dubbioso; i Ginsburg (Leone e la solida e minuta Natalia); i Levi (Carlo ed il malinconico Primo); l'allampanato e misterioso Ceronetti; la indomabile, battagliera, cattiva Lalla Romano (cardo selvatico); il sottotenente Revelli (dormiva come se avesse ancora il mitra sotto il cuscino) e il "sergentmagiù" Rigoni Stern; l'erudito Lucentini e il disincantato Fruttero; e ancora il maestro Lodi e l'avvocato Paolo Volponi, Laiolo e Contini, Fortini e Magris e mille altri.
Dobbiamo essere grati a Ferrero per la sua testimonianza e per la imperdibile galleria di ritratti che ci offre.
Un'appetitosa strenna, un prezioso regalo. Una deliziosa goduria.

martedì 13 aprile 2010

"In Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di 'brillante promessa' a quella di 'solito stronzo'. Solo a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di 'venerato maestro'". (Alberto Arbasino)

martedì 6 aprile 2010

La scrittura

La letteratura nasce dalla difficoltà di scrivere, non dalla facilità.
... Scava in quel punto, lavoraci, rosicchia il tuo osso con pazienza.
(Italo Calvino)

domenica 4 aprile 2010

Borges e Calvino

Nella primavera del 1984 Calvino è a Siviglia con la moglie Chichita, argentina di nascita. In un albergo della città Jorges Louis Borges, cieco da tempo, incontra alcuni amici. Arrivano anche i Calvino. Mentre Chichita conversa amabilmente con il connazionale, Italo si tiene come al solito in disparte, tanto che lei ritiene opportuno avvertire:
"Borges, c'è anche Italo ...".
Appoggiato al bastone, Borges solleva in alto il mento, dice quietamente:
"L'ho riconosciuto dal silenzio".
(Ernesto Ferrero, I migliori anni della nostra vita).

Lourdes di Jessica Hausner (2009)

Si può dire, di un film, che è neutro e - nello stesso tempo - potente?
Lourdes lo è: quasi amorfo nei toni, potente nella sostanza. Lineare nella narrazione (che scivola lungo la banale progressione cronologica), intenso nella tensione (che - sequenza dopo sequenza - lo accompagna dall’inizio alla fine). Una tensione sempre sul punto di esplodere ma trattenuta, non marcata, non sottolineata dagli espedienti che tutti i registi conoscono, non enfatizzata da colpi di scena; al punto che molti spettatori non la percepiscono (diseducati a leggere le sfumature) e giudicano il film lento e noioso (e c’è anche chi si appisola durante la proiezione).
La regista Jessica Hausner dimostra un equilibrio raro ed una onestà intellettuale inconsueta. Non si compiace, non stigmatizza, non giudica, non condanna, non si lascia tentare dal didatticismo, non lancia proclami. Pone, pacatamente, dei problemi, senza enunciarli, solo raccontando. Si colloca in atteggiamento di ascolto, sensibile alla fragilità di chi crede e attenta ai dubbi di chi non crede. Descrive con uguale compassione i corpi disabili e le menti disorientate. Ha pietà per le solitudini. Segue gli accadimenti con un atteggiamento quasi indolente e con la macchina quasi immobile, ma non perde nemmeno un gesto (anche se a prima vista involontario), una parola (anche se trattenuta), uno sguardo (anche se apparentemente distratto).
Questi toni amorfi e questa reticenza sono il valore aggiunto del film: è bello trovare una regista che non mostra ma indica, e che non costringe a guardare ma insegna a vedere.

martedì 30 marzo 2010

martedì 23 marzo 2010

Il concerto di Radu Mihaileanu (2009)

Il film racconta una storia di umiliati e offesi.
Gli orchestrali ebrei del Bolshoi, licenziati ed emarginati in epoca brezneviana, vittime del totalitarismo sovietico crudo e ferocemente oppressivo, continuano ad essere esclusi ed emarginati, dopo trent’anni, dai nuovi (pre)potenti, cinici e volgari, che si sono impadroniti della Russia con la corruzione e l’hanno condotta verso il capitalismo più bieco e degradato. Alcuni di loro sono stati annientati, fisicamente o psicologicamente; altri si sono piegati alla rassegnazione e vanno alla deriva; in molti è prevalso l’istinto di sopravvivenza che li ha spinti a insinuarsi nelle pieghe della società in sfacelo per svolgere i più improbabili mestieri. Nessuno fra gli ex-musicisti crede ormai nella possibilità di un riscatto o di un risarcimento.
Ma l’occasione inaspettata arriva, non grazie al caso o alla fortuna, non per la resipiscenza degli oppressori, non in virtù della voglia di rivalsa dei vinti, e nemmeno nelle vesti della giustizia che finalmente prevale. La nemesi percorre le strade dell’inganno, nasce dall’orchestrazione (non solo metaforica) di un imbroglio colossale che vede la collusione, la complicità, la partecipazione collettiva delle vittime (proprio come in Train de vie, l’altro film di Radu Mihaileanu).
Lo sviluppo della grande truffa segue un andamento alterno, avvicenda momenti grotteschi e momenti di pathos, gioca fra il paradosso e il sentimento; spesso va sopra le righe, ha vezzi d’avanspettacolo, dà corda al patetismo; la trama si appesantisce di alcuni eccessi forse superflui; il doppiaggio - ma di questo Mihaileanu non ha colpa - è sciatto, ridicolmente parodistico, imbarazzante, perfino irritante.
Ma per il regista rumeno gli eccessi sono la norma: il suo tratto stilistico è dato proprio dalla caricatura, dall’esasperazione dei toni, dalla frammentarietà, dal macchiettiamo, dalla chiassosità corale, dal colorismo etnico. Per questo ci piace.
Il crescendo - e proprio ad un crescendo travolgente si assiste - sfocia nella riconciliazione con la giustizia malandrina (trionfale), nella agnizione strappalacrime (efficace), nella esecuzione del concerto della redenzione (ineffabile).
Lacrime ed applausi.

mercoledì 3 marzo 2010

Carlo Pisacane, l'eroe ottuso.

LA STORIA CI INSEGNA CHE DALLA STORIA NON IMPARIAMO NIENTE - 4

Carlo Pisacane, patriota reso famoso da Luigi Mercantini nella poesia risorgimentale La spigolatrice di Sapri (quella che ha come intercalare "Eran trecento, eran giovan e forti ...e sono morti", il refrain che tutti gli ultracinquantenni conoscono a memoria), ci è sempre stato presentato come un eroe.
Nulla da eccepire sull’eroismo temerario.
Molto da eccepire invece sulla sua intelligenza rivoluzionaria o politica.
Giudicate voi.

Si imbarca il 25 giugno 1857 con ventiquattro compagni su un piroscafo di linea diretto a Tunisi (precisamente il Cagliari, della Società Rubattino). Il suo amico Rosolino Pilo con altri patrioti ha il compito di seguire il piroscafo su alcuni pescherecci trasportando armi e rinforzi; per non dare nell’occhio parte il giorno dopo, ma si perde.
Pisacane, senza le armi e i rinforzi assolutamente necessari, non cambia i piani: si impadronisce della nave, la dirotta su Ponza, libera i 323 detenuti (quasi tutti delinquenti comuni ), distribuisce loro le poche armi trovate nel penitenziario, li imbarca e, volenti e nolenti, li coinvolge nella sua avventura.
Approda vicino a Sapri, sulla costiera del Cilento; sbarca sventolando il tricolore; i patrioti sono assaliti e messi in fuga dalla popolazione locale che ha riconosciuto numerosi briganti fra i forestieri scesi dalla nave; dopo alcuni giorni un altro assalto dei contadini (a Padula) provoca 25 morti, mentre 150 rivoluzionari si arrendono e vengono consegnati ai soldati borbonici; i superstiti allo sbando vengono di nuovo assaliti dalla popolazione (a Sanza): 83 rimangono sul campo. Pisacane si suicida sparandosi con la pistola.
I suoi compagni, quelli scampati alla furia del popolo, sono arrestati, processati e condannati a morte; il re tramuterà la condanna capitale in ergastolo.

Pisacane non è solo sfortunato: sbaglia tutto perché parte da una convinzione balorda. Crede di poter liberare il popolo senza informarlo e senza coinvolgerlo (e cioè senza preoccuparsi della sua “educazione” e del consenso).
E lo fa con ottusa convinzione, teorizzando perfino questo suo assurdo modo di procedere.
In un suo libro intitolato Saggio sulla rivoluzione sostiene infatti che bisogna prima fare la rivoluzione, poi istruire il popolo («la propaganda dell'idea [è] una chimera e l'istruzione popolare un'assurdità. Le idee nascono dai fatti e non questi da quelle, ed il popolo non sarà libero perché sarà istrutto, ma sarà ben tosto istrutto quando sarà libero»).
Non poteva che fallire. Onestamente se lo meritava.


Risposte e domande (commento al commento del 28 febbraio di Anonimo)

Su poesia e terapia me la cavo con una citazione di Orazio che scrive in una Satira (II, 7, 17): "Aut insanit homo, aut versus facit" (per i digiuni di latinorum : "L'uomo o impazzisce o scrive versi").

Aggiungo comunque un ringraziamento al mio "Anonimo" commentatore e gli sono grato delle sue considerazioni che mi aiutano … a restare nella mia insanabile incertezza.
Non apro su di esse una discussione, anche perché - a ben vedere - il lungo commento in forma di meditazione si avvolge su se stesso e contiene in sé tutte le contraddizioni necessarie (e in questo sta il suo pregio ed il suo valore).
Mi spiego accennando a qualche esempio di questa eccellente incoerenza e ponendo qualche domanda.

1. Perché la scrittura viene considerata da Anonimo una “parentesi” e la terapia invece si connota come una “via d’uscita”? Che differenza “scientifica” può esserci fra la sua affermazione e quella opposta? Sono meno credibile se sostengo che la seduta psicanalitica è una parentesi reiterata e che la poesia invece aiuta a capire? Che differenza c’è fra i due modi di “guardarsi dentro”? Non dice forse il poeta (che sarei io):
Aprono sentieri le parole
nell’intricata mente.
Se spiego quel che ho dentro,
un poco lo decifro anche per me.
Se la racconto, l'ansia si sgroviglia.
E l'universo mio confuso
in quel che dico prende consistenza.
2. La terapia, dice Anonimo, indaga le “cause remote”. Questo significa che la poesia indaga le cause “prossime”? Vogliamo stabilire gerarchie fra le cause? Le cause remote sono più dannose? quelle prossime sono acqua fresca? Ne vogliamo fare una questione di distanza, di potenza di fuoco, di mira? di micro o macro? di zoom? O pensiamo forse, da non liberi muratori, che le cause remote siano fondamenta e quelle prossime invece siano superfetazioni secondarie e trascurabili? …

3. Anonimo parla di “consapevolezza redentrice”. Io mi chiedo innanzitutto: capire significa forse risolvere? come se si trattasse di un problema di geometria? E se così anche fosse, il capire-risolvere con l’analisi vale più del capire-risolvere in altri modi? Ma questa benedetta capacità di cognizione, ammesso che serva, non percorre forse le strade più disparate, segnate dagli “stili emotivi" di ciascuno di noi, analogamente a quanto sostengono gli psicologi dell’apprendimento quando parlano di "stili cognitivi"?... Che senso ha giudicare gli strumenti e classificarli e distinguerli fra rozzi e sofisticati, efficaci e fuorvianti, scientifici e falsi? …

4. E poi, e poi,… Cosa c’è di eretico nel sostenere che ognuno indaga come vuole, quanto vuole, fin dove vuole? e che ognuno decide il livello di consapevolezza che gli aggrada? È immorale accontentarsi? sospendere le indagini? non voler sapere? non andare oltre? Nella ossessione di mettere tutto in chiaro, non c’è forse un po’ di presunzione, di sindrome di onnipotenza e di onniscienza? non c'è un po’ di quella arroganza intellettuale di chi crede di aver capovolto il mondo? un po’ di aristocratica e disperata volontà di distinguersi dalle “pecore matte”?...un po’ di immoralità?...). Sono così esecrabile io se mi diverto nel sostenere (e non sono solo, ma questo non conta) che la follia è in bel rifugio? sono così eccentrico se, storpiando il motto benedettino, proclamo “Beata ebetudo, sola beatitudo”?

5. Ed infine, vogliamo ancora rimenarla con le distinzioni fra scienza e fede? Andiamo a cercare la fede nei numeri dopo averla persa nei dogmi? L’atteggiamento di fondo fra religiosi e laici non vi sembra un po’ troppo gemello? Il bisogno di dio, non assomiglia pericolosamente al bisogno di negarlo? A me pare che i credenti che vogliono spiegare tutto con la fede siano troppo vicini - come una immagine riflessa e asimmetrica - agli indagatori che vogliono capire tutto in altri modi: stessa inquietudine, stessa foga, stessa insoddisfazione, stesse tensioni, stesso senso di impotenza.
Per quanto mi riguarda, mi iscrivo al club degli “Indifferenti Universali” e trovo patetico, quasi ridicolo - con rispetto parlando - questa ansia di “comprensione” dell’universo.
È l’universo, casomai, che comprende noi.
Stop.
“Siate contenti, umana gente, al quia”. (Dante, Divina Commedia, Pur. III, 37).

venerdì 26 febbraio 2010

Sto solo come un chiodo

Sto solo come un chiodo
insieme alla sua ombra.
Solo come un proiettile
che non fa in tempo
a proiettare l'ombra.

Valerio Magrelli, da Nature e venature.

martedì 23 febbraio 2010

La parola terapeutica

L'ignoranza non dovrebbe autorizzare scetticismi. Ma non riesco a cancellare il sospetto che all'origine del bisogno di poesia vi siano le stesse ragioni (e gli stessi meccanismi) che sono all'origine della psicoterapia; e che all'origine della psicoterapia o della psicanalisi vi siano gli stessi bisogni (e le stesse speranze) che sono all'origine della religione.
Stesse fragilità: stessa fede.
Sed tantum dic verbum, et sanabitur anima mea.

venerdì 5 febbraio 2010

Scrittura

La scrittura è rivelazione e maschera.
Rivelazione quando si scrive per raccontarsi esplicitamente; maschera quando si scrive d'altro.
Ma – paradossalmente – la scrittura-rivelazione è spesso una maschera (perchè quando ci si racconta è istintivo trasfigurarsi, cercando di offrire di sé un immagine idealizzata o, perlomeno, di mostrare il lato migliore); mentre la scrittura-maschera (la poesia, soprattutto) è – a ben vedere – rivelazione, svelazione: la maschera che ci scegliamo infatti dice di noi più di quanto non dica la faccia dietro cui ci presentiamo (e nascondiamo) ogni giorno.

giovedì 28 gennaio 2010

1960-1963: MICROCOSMI (6) – Rientro nella nebbia

...
Quella sera il viaggio di ritorno si collocò fuori dal tempo e dallo spazio.
Col buio era calata improvvisa una fittissima nebbia.
La corriera si era districata con fatica fra le strade male illuminate della città e, superate le ultime case della periferia, era penetrata in un mare di ovatta sporca e avanzava incerta galleggiando nel nulla.
Una lunga colonna di automobilisti si era incollata dietro di noi per farsi guidare nella caligine che diventava sempre più densa. L’autista, investito dalla responsabilità di capofila, ci aveva chiesto di stare seduti e zitti, aveva spento tutte le luci interne per non farsi infastidire dai riflessi, aveva asciugato con cura i vetri appannati, aveva tirato avanti il sedile e ora guidava con la faccia incollata al parabrezza tenendo d’occhio sia la riga sulla mezzeria a sinistra, sia i riflessi dei catarifrangenti sui paracarri a destra.
Le auto seguivano lente, a velocità costante, in fila serrata, legate una con l’altra dalle sfere di luce sfuocata emesse dai fari. Il corteo che si snodava nella notte sembrava una processione notturna, un treno nelle tenebre, un lungo bruco a strisce bianche e grigie, un serpente di luci che scivolava nel silenzio, un drago che nell’incedere bucava la bruma e la sollevava in sbuffi lenti di vapore.
I pendolari se ne stavano tutti rannicchiati nei loro sedili, infagottati nei loro cappotti, assorti nei loro pensieri a covare la stanchezza.
Il silenzio assoluto, sopra il ronzio del motore diesel che faceva da sottofondo, era rotto solo da qualche colpo di tosse.
Ero seduto sullo sgabello a scomparsa accanto all’autista. Guardavo la strada come se la mia attenzione potesse aiutarlo. E fissando un punto preciso nella nebbia, diluivo l’ansia, annegavo il tumulto che avevo nel cuore, disperdevo i mille sbriciolati pensieri che mi ronzavano in testa.
Nei vapori della notte non si capiva dove fossimo e quanta strada ci restasse da percorrere. Io pure, per mio conto, non sapevo dove fossi, quanta strada mi restasse da fare, quale strada, e nemmeno sapevo dove sarei arrivato.

1960-1963: MICROCOSMI (5) – Un’estate al mare

Sfruttando il potere di attrazione che derivava dalla nostra condizione di studenti, ci eravamo infiltrati in un gruppo di studentesse piacentine che alla sera – ogni sera – si ritrovavano con gli amici davanti al portale di una chiesetta romanica.
Nel gruppo vi erano due ragazze ed un ragazzo poliomielitico che erano stati scritturati per recitare in un film dall’esordiente Marco Bellocchio, loro concittadino, che, nonostante la giovane età, cominciava a godere di una certa considerazione e di una discreta fama. Tutti i ragazzi della compagnia, che esibivano abbigliamenti borghesi e atteggiamenti anticonformisti, amavano incondizionatamente il Marco, fieri di questa “concittadinanza d’onore”, e si sentivano per questo molto intellettuali. I genitori dei ragazzi della compagnia guardavano con benevola curiosità e con esitante perplessità il proclamato anticonformismo dei figli, e si sentivano molto liberali, in perfetta armonia con la cultura borghese della quale si sentivano i rappresentanti.

Le conversazioni erano sempre leggere, anche quando venivano affrontati i temi tragici dell’essere e del divenire. L’eversione esistenziale e quella politica erano molto celebrate e poco praticate. Le dinamiche relazionali erano spruzzate da incerte espansioni affettuose che si traducevano in corteggiamenti leggeri e flirt variabili; e questo intrecciarsi d’amorosi sensi rendeva dolce il frequentarsi e indissolubile la brigata. In questo brodo instabile, chi voleva, poteva individuare l’anima gemella, accorciare le distanze, studiare strategie di avvicinamento, fare delle prove, tentare approcci, ritirarsi senza scorno e riaprire le danze, oppure accelerare, creare la coppia e allontanarsi dal gregge.

Mi trovai a scherzare con Carla, una delle due “attrici” che per una certa avvenenza se la tirava: aveva sempre un’espressione diffidente e scostante e teneva un po’ tutti a distanza. Dopo un casto incontro ravvicinato, non incoraggiato ma neanche troppo respinto, ristabilii io le giuste distanze, sconcertato da un insospettabile e sgradevole alitosi che neanche il fumo delle sue sigarette al mentolo riusciva a compensare.
Una sera fui scherzosamente insidiato da Marisa, una piaciosa cicciotella amica di tutti e filata da nessuno, che utilizzava la sua condizione di non-accoppiabile per tenere coesa e allegra la compagnia. Stetti al gioco e recitai la mia parte con tanta convinzione che ad un certo punto il nostro idillio divenne il fulcro della serata.
Il giorno dopo, tramite posta (in busta con francobollo timbrato!), mi giunse una sua lunghissima lettera che mi mise addosso una certa inquietudine: le dichiarazioni di amore eterno, espresse con grafia arrotondata, erano un po’ esagerate ma non mi parevano allegre e spensierate come i leggeri e maldestri approcci della sera prima, recitati con una certa teatralità fra i tavolini del bar; in certi tratti mi parevano proprio sincere, genuine, dettate dal cuore, perfino troppo sincere, troppo dettate dal cuore, e anche un po’ cariche di emotività, appassionate, focose, enfatiche, sproporzionate, quasi isteriche. Sospettai uno scherzo, mi immaginai che la lettera fosse frutto di una congiura collettiva e l’inizio di un tormentone estivo giocato sul filo della più ridanciana goliardia. Ma alcuni segnali avvertiti la sera prima al momento della buonanotte e la chiusura della lettera, particolarmente intensa e carica, mi fecero sospettare e temere la “cotta calda”, l’inizio impulsivo di un innamoramento esaltato e sfrenato. Sperai che fossero in parte il frutto dell’insonnia che deforma la realtà; sperai di poterle rintuzzare, nonostante la loro eccitata perentorietà.
La sera arrivai al bar con la solita aria vagamente svagata che costituiva la mia maschera stagionale, salutai tutti con la consueta cordialità, risposi ai lazzi salaci (tra noi usavamo, come segno di profonda amicizia, scarnificarci con battute acide), stuzzicai Marisa con nonchalance, mi intromisi con una arguzia più eccitata del solito nella discussione in corso.
Marisa se ne stava in disparte taciturna e imbronciata; la conversazione andava per le lunghe; era troppo tardi per andare al cinema; decidemmo di fare una passeggiata fino al ponte sul torrente, attraversando le strade del centro, strette e male illuminate. Mi trovai Marisa alle calcagna, adorante e indagatrice. Io mi facevo vigliaccamente scudo del folto della comitiva.
Per due sere la scena si ripeté quasi identica, con le variazioni che mi suggeriva la fantasia. Per due sere Marisa fece vistosamente trapelare il suo desolato sconcerto ma non trovò il coraggio di chiedermi o parlarmi della lettera. Per due sere io mi comportai come se la lettera non fosse arrivata.
Marisa non seppe né affrontare il discorso, né farmi capire in altri modi la sua esondante passione. Mi sentivo un verme quando, passeggiando lungo il corso, me la vedevo camminare davanti nei suoi troppo attillati calzoni, forse ancora piena di rammarico per un amore mai nato, forse pentita della sua precipitosa, improvvida e fatua infatuazione.

lunedì 25 gennaio 2010

IL GIORNO DELLA MEMORIA

Nel giorno della memoria non voglio pensare a quei poveri ebrei ammazzati che nella primavera del ’45 – alla fine di tutto – hanno ricevuto la pietà di qualcuno.
Non voglio pensare a quelli che, massacrati, non sono stati comunque completamente cancellati dalla memoria del mondo ma sono vissuti per qualche tempo nel ricordo di fratelli o sorelle, figli o genitori, coniugi o fidanzate, amici o vicini di casa, compagni di scuola o di lavoro.
Non voglio ricordare le vittime che per un po’ di tempo, tanto o poco, hanno avuto in qualche modo chi ha potuto parlare di loro, leggere le loro lettere o i loro diari, guardare le loro fotografie, riordinare i loro oggetti e ricordare la loro infanzia oltre che la loro disumana fine. E non voglio nemmeno ricordare, infine, quelli che per qualche ragione erano noti prima di essere internati e sono stati poi commemorati, onorati, pubblicati, celebrati, beatificati.

Voglio invece ricordare quelli che sono stati inghiottiti dal nulla, quelli che sono scomparsi insieme a tutte le persone che li amavano, quelli cancellati dalla terra insieme alla loro casa e al loro villaggio, quelli che nessuno ha pianto mai perché chi li poteva piangere è stato con loro eliminato.
Voglio ricordare i vecchi soli, i calzolai senza moglie e figli, i contadini eliminati con tutta la loro famiglia, gli insegnanti che non hanno lasciato una riga scritta, gli studenti spariti insieme ai loro privati diari, gli orologiai o i fabbri senza nome, gli zingari ed i falegnami senza patria, gli operai dei quali non è rimasta traccia, le donne morte in silenzio e nel silenzio dissolte, gli omosessuali svaniti nella vergogna, i ladri e le puttane emarginati e cancellati dalla terra prima di essere annientati nei forni.
Sol chi non lascia eredità d’affetti poca pace ha dell’urna.
Io riservo il mio pensiero e la mia commiserazione a chi ha avuto illacrimata sepoltura. E ricordo e piango oggi quel povero cristo che, vedendosi morire, sapeva già che nessuno mai lo avrebbe pianto o ricordato.