domenica 24 marzo 2013

Django unchained (2012) di Quentin Tarantino



La vicenda è semplice.
Siamo nel 1858, in Texas (e dove sennò): il cacciatore di taglie King Schultz (Christoph Waltz) libera lo schiavo nero Django (Jamie Foxx) per farsi affiancare nella cattura di due pericolosi furfanti; in cambio lo aiuterà a rintracciare e liberare la moglie tenuta in schiavitù da Calvin Candie (Leonardo DiCaprio), proprietario di piantagioni nel Mississippi e allevatore di lottatori.

Tarantino, con la cialtronaggine che lo caratterizza e con la sgangherata vitalità che attraversa tutti i suoi film, si diverte un’altra volta a replicare una storia balorda caricandola parossisticamente di esagerazioni. Dopo il colpo al razzismo hitleriano con The Inglourious Basterds (vagamente ispirato a Quel maledetto treno blindato di Castellari, del 1978, che nella fase di pre-produzione si intitolava Bastardi senza gloria ed era stato distribuito in America col titolo di The Inglorious Bastards), arriva quello al razzismo di casa (ispirato sempre ad un film nostrano, il Django di Corbucci del 1966, che vedeva Franco Nero nel ruolo protagonista).  
La trama archetipa però è un pretesto, non un modello: Tarantino se ne libera presto per sviluppare storie assolutamente originali, col suo altrettanto personale e riconoscibilissimo marchio di fabbrica. Anche se poi – da cinefilo onnivoro e bulimico – non si trattiene dallo spargere nella storia, per scelta o per riconoscenza, mille altri rimandi al nostro cinema di serie B (frullando col western anche altri sottogeneri noir, horror, poliziotteschi, vampireschi, fantascientifici, peplum e buttando l’occhio perfino, forse, sui “documentari” razzisti Africa addio e Addio zio Tom del duo Jacopetti & Prosperi) e si diverte ad infarcire il film con mille esplicite citazioni, omaggi, indizi, strizzate d’occhio: come la grafica dei titoli di testa, l’uso dell’inquadratura o degli zoom, il ralenty, gli sguardi, le carrettate di morti (a cui, di suo, il Tarantino-splatter aggiunge litri il sangue), il cameo di Franco Nero e – last but not least – le musiche (il Bacalov  del primo Django o la orecchiabile traccia de Lo chiamavano Trinità con il relativo trotterellare buffo del cavallo).

Quentin è un regista ridondante, barocco: cerca l’enfasi, ha una fantasia ipertrofica, ama l’esasperazione dei toni e in ogni scena si pone il problema di cosa inventarsi di straripante per fare in modo che lo spettatore venga sorpreso, sbalordito, spiazzato. (“È del poeta il fin la meraviglia, … chi non sa far stupir, vada alla striglia!” diceva il cav. Marino agli inizi del ‘600).
Il suo gusto parodistico però è godibilissimo, i suoi eccessi sono sempre strabilianti, come stupefacente è la disinvoltura con cui inserisce sistematicamente il disequilibrio fra i comportamenti strampalati dei personaggi e le circostanze storiche delle ambientazioni.
 Il successo del regista americano, diciamocela tutta, è anche dovuto alla sua capacità di fidelizzare un pubblico che si aspetta le esagerazioni, vuole la sbracataggine e gli perdona ogni mascalzonata, anche (o soprattutto) perché Tarantino ha il grandissimo pregio di avere l’aria di uno che non si prende sul serio e sa mescolare con sapienza l’ironia e l’autoironia.

Superba l’interpretazione esagerata di Christoph Waltz, risoluto bounty killer dal linguaggio colto e pomposo e dai comportamenti ostentatamente raffinati. Ottimi il sadico arrogante Di Caprio, lo “scatenato” Jamiie Foxx, la dolente quasi assente Kerry Washington, il viscido Samuel L. Jackson imbolsito e zoppo.
Geniale l’esplosivo cameo del regista nelle parti di un corpulento negriero un po’ coglione.
Esilarante la sequenza dedicata al Ku Klux Klan, con il dibattito dei cavalieri mascherati sulla scarsa funzionalità dei cappucci.

Aspettiamo la versione lunga.

Amour (2012) di Michael Haneke


Georges (Jean-Louis Trintignant) e Anne (Emmanuelle Riva) sono due affiatatissimi coniugi ottantenni, borghesi benestanti, musicisti in pensione, appagati di sé e della vita. Un ictus colpisce improvvisamente Anne e la porta verso una graduale e progressiva degenerazione. La donna rifiuta il ricovero in ospedale e Georges decide di accudire la moglie in casa, accompagnandone il declino con la determinazione calma e disperata di chi è consapevole dell’inevitabile epilogo.
La trama è tutta qui, in questa situazione scarna, fatta più di gesti che di inutili parole, di ellissi, di pudori, di imbarazzi, di confusi sbigottimenti, di atroce dolore senza lacrime.

Il film, dopo un breve preambolo allusivo, inizia con un’effrazione (i segni dello scasso dei ladri che hanno visitato l’appartamento dei due anziani sono il presagio dell’intrusione della malattia che inaspettatamente violerà il corpo della donna e scardinerà la tranquilla routine della coppia) e si sviluppa poi attorno alle crescenti manovre di isolamento e di difesa dell’intimità messe in atto dalla coppia contro ogni altra invasione, contro ogni inutile ulteriore intromissione: quella del portinaio (ossequioso per deformazione professionale) o quella dell’infermiera freddamente concreta; quella dell’allievo in debito di riconoscenza o quella della figlia e del genero (anaffettivi, distanti, capaci solo di proporre soluzioni che allontanano il problema). Perfino un piccione penetrato in casa è un intruso che verrà intrappolato da Georges e catturato con una coperta, “imprigionato” (non respinto come gli altri, la figlia prima di tutti) per essere poi liberato (o forse ucciso, che è lo stesso).

Negli spazi claustrofobici di questo preservato isolamento si dispiega struggente la veemenza di una disperazione compressa e dignitosa e si rivela – nello stesso tempo – la potenza di un amore assoluto e sgomento: il decoroso appartamento, nel quale si sono accumulati mobili e oggetti testimonianza di una vita, diventa rifugio e prigione, nido di sicurezza e gabbia di angoscia, stanza nuziale e camera mortuaria. La piccola evasione che Anna cerca nel passato sfogliando un album di vecchie foto è – a mio parere – più atroce di quanto non lo siano le scene di accudimento o quelle crude dell’agonia.

Negli infiniti tempi di forzata vicinanza fra Anne e Georges si alternano momenti di intimità e momenti di intollerabile ripugnanza: ed è difficile capire se siano più dolorosi i primi o i secondi, se sia necessario mettere in atto maggiori energie per superare il ribrezzo della degradazione o per sussurrarsi la tenerezza dei ricordi. La sintesi perfetta della dicotomia dolore-amore è la scena in cui Georges aiuta Anne nello spostamento dalla sedia al letto mimando involontariamente i passi strascicati di un ballo impacciato, tragicamente bizzarro.

Il dolore provoca asfissie, allucinazioni, alterazioni; paralizza, prosciuga e inebetisce.
La demenza di Anne – i suoi occhi, i suoi intensissimi occhi muti – e la pazienza quasi ottusa di Georges – i suoi gesti, i suoi silenziosi gesti inefficaci – ci inabissano nella depressione, nel dolore senza fondo. Le sequenze, scandite spesso da convulsi tagli di montaggio ci portano una dopo l’altra  sempre più in basso: Anne sprofonda nella sua vacua inconsapevolezza, Georges nella sua lucidissima angoscia. Il dolore prepotente è indicibile: le antiche stanze sprofondano nel silenzio, la donna piomba nell’afasia, l’uomo sceglie il mutismo.
L’irruzione devastante della malattia rende inutili gli affetti (la premura dei figli e la riconoscenza degli allievi) e svuota di senso i ricordi (le musiche di Schubert, le stampe degli impressionisti, le foto dei tempi felici, gli oggetti accumulati).
Non resta che la regressione nell’infanzia. La fiaba aiuta ad allontanare la realtà. È confortante scivolare con i pensieri verso il felice mondo dell’incoscienza, prima di abbandonarsi al sonno.

L’irruzione devastante della malattia rende inutili gli affetti (la premura dei figli e la riconoscenza degli allievi) e svuota di senso i ricordi (le musiche di Schubert, le stampe degli impressionisti, le foto dei tempi felici, gli oggetti accumulati).
Non resta che la regressione nell’infanzia. La fiaba aiuta ad allontanare la realtà. È confortante scivolare con i pensieri verso il felice mondo dell’incoscienza, prima di abbandonarsi al sonno.