lunedì 27 aprile 2009

Le regole

Oggi tutti invocano le “regole”: si è sparsa la voce e si è diffusa a tutti i livelli l’idea che il mondo vada a rotoli perché non ci sono modelli educativi forti, manca la severità, l’autorità vacilla, il vecchio ordine si dissolve; per farla breve non c’è più disciplina.
Lo dicono tutti: baristi e avvocati, impiegati e casalinghe, genitori e giornalisti, professori e bidelli, poliziotti e magistrati, vecchie zie e uomini politici.
La colpa del dilagante permissivismo viene attribuita – ovviamente – al Sessantotto che ha segnato l’inizio del disfacimento di tutti i valori. Forse per questo si è diffusa una nostalgia per il presessantotto e si va dicendo che per risolvere questa degenerazione inarrestabile basti il ritorno al passato, ad alcuni sistemi antichi, quali il voto in condotta, il maestro unico e il grembiule; e qualcuno invoca anche la bacchetta e i sacrosanti ceffoni.
Per nostra sfortuna la pensa così il ministro dell’istruzione, che ha una cultura pedagogica da Bar Sport. Gli insegnanti più avvertiti invece sanno che lo sculaccione a tre anni, lo scappellotto a nove e il voto in condotta a quindici hanno un effetto momentaneo; che le punizioni agiscono sui sintomi – direbbe un farmacista – ma non sulle cause; che le sanzioni risolvono il fastidio per un’ora, un giorno o una settimana ma non risolvono il problema; che sono un rimedio transitorio che può modificare un atteggiamento, non una soluzione che segna una svolta nella maleducazione quotidiana.
Il castigo è il rimedio inefficace dell’impotente: non modifica il comportamento di chi lo subisce, non restituisce l’autorità a chi lo infligge.
Questo semplice principio è comprovato dal buonsenso comune, oltre che avvalorato dalle scienze pedagogiche.
Le mamme più manesche e isteriche sono infatti quelle che hanno una vita frenetica e stanno poco tempo coi figli e compensano la loro assenza riempiendoli di bacetti e regalini, che non sanno parlarci e non hanno voglia di ascoltarli, che soddisfano per pigrizia novantanove capricci ed esplodono per il centesimo.
I professori più inflessibili sono quelli che non trovano il tempo per stabilire una relazione con la classe, che non sanno trasmettere la passione per la materia che insegnano, che non sanno attivare l’interesse, la curiosità, il gusto di sapere, la voglia di partecipare.
I genitori e gli insegnanti che “sentono” di aver perso il ruolo (il “potere”) non possono riconquistarlo sottomettendo i ribelli con lo spauracchio di tremende sanzioni: otterranno una momentanea e rancorosa docilità, ma perderanno ulteriore terreno come educatori. E la loro vittima, provvisoriamente domata, coverà odio per loro e per le loro regole, disprezzerà la categoria e l’etica proclamata, non desidererà altro che ribellarsi e fare sistematicamente il contrario di quanto è stato insegnato.
Che fare dunque?
Non esistono ricettari e i repertori di suggerimenti comportamentali (“Cosa fare quando …”) non funzionano. D’altra parte, se dettare regole ai ragazzi non serve, tanto meno servirà dettare regole a genitori e a insegnanti.
E allora?
La soluzione di questi conflitti è diversa di volta in volta, e sta in ognuno di noi – genitori o educatori – e in ognuno dei nostri bambini o ragazzi.
L’asimmetria si supera comunque solo in un modo: con la simmetria, con l’equilibrio, con la regolarità, con la corrispondenza. Non dobbiamo farci irritare dai capricci e dalle crisi isteriche, non possiamo lasciare che le incomprensioni e le provocazioni ci allontanino, non ci devono scoraggiare le sfide spavalde che nascondono insicurezza e fragilità. Ogni atteggiamento “deviante”, ogni parola indisponente ci vuole avvertire di qualcosa: proviamo a capire; tentiamo di ascoltare, di entrare in rapporto, di esserci.
Un genitore “in transito” non può pretendere di incidere e non può arrabbiarsi se il rapporto non funziona.
Un insegnante incompetente che non ama il proprio lavoro, che non trasuda passione per quel che insegna, che non entra nel cuore e nella testa di ognuno dei bambini e dei ragazzi che incontra, non può giudicare, non può denigrare gli alunni svogliati, non può castigare quelli indisciplinati.
Ogni ragazzo problematico ha alle spalle una famiglia che ha fallito in qualcosa.
Ogni alunno emarginato rivela l’inefficienza della scuola che lo ospita.

Ho preso undici!

Agli inizi della mia carriera (anni '70!) mi piaceva leggere in classe i temi scritti di italiano dei miei alunni, anche per discutere e concordare insieme il voto. Una volta fu deciso di assegnare un bel 10 ad un tema particolarmente gradevole; mi scappò di dire che il tema forse meritava di più: dal fondo della classe uno disse ridendo che potevamo dare undici: scrissi 11, e undici fu. I ragazzi erano tutti felici. L'undici fu introdotto ufficialmente nella nostra classe, con lo sconcerto dei genitori, la perplessità dei colleghi e la disapprovazione del dirigente. Ricordo che anche nelle interrogazioni gli alunni si preperavano studiando forsennatamente e chiedevano di essere torchiati per prendere undici.
Dopo pochi anni il voto fu abolito e venne introdotto il giudizio sintetico, che però doveva essere accompagnato da una valutazione più articolata e meno perentoria.
Ora si torna indietro, e la questione del voto o del giudizio torna a infiammare gli animi.
Su una sola cosa il mondo della scuola dovrebbe infiammarsi: sul modo ottuso e drastico con cui la ministra decide senza consultare gli interessati e senza tener conto che gli assetti e gli ordinamenti attuali, la prassi e le regole, la cultura pedagogica e le consuetudini didattiche sono frutto di un processo lungo e lungamente meditato, discusso, sperimentato, verificato, consolidato.
Fra il voto, che usa una scala di dieci numeri, e il giudizio, espresso usando la gamma di 5 aggettivi, non vi è nessuna sostanziale differenza: il voto, con più gradi di giudizio, consente semmai una definizione più raffinata dei livelli e toglie dall'ambascia quegli insegnanti che si arrovellavano incerti fra il distinto e l'ottimo e si inventavano il quasi sufficiente e il più che buono. Ma il succo non cambia, gli strumenti di misurazione non cambiano le dimensioni delle cose, così come l'introduzione dell'euro non ha cambiato le condizioni economiche di chi non aveva una lira.
Chi usava con intelligenza il giudizio, userà con intelligenza il voto.
Chi adoperava il giudizio in modi scorretti, continuerà a farlo coi numeri.
Il giustiziere tornerà a impugnare la penna come una spada, aprirà il registro per decretare il voto invece del giudizio, conserverà immutato il potere di ristabilire le gerarchie dei dannati e dei salvati, e potrà pungolare “color che son sospesi” (fra il 5 e il 6) minacciando loro la perdizione o paradiso.
Il voto tranciante darà nuovo vigore al colpevolizzatore che da sempre tende a imputare all'alunno la responsabilità dell'insuccesso – vuoi per cattiva volontà o per "ritardo psico-evolutivo globale" - e non si sente quindi in obbligo, voto o non voto, di modificare programmazione o comportamenti.
E a lui si accoderà lo scaricabarile, variante pietista del colpevolizzatore, che imputa gli insuccessi dell’alunno (“poverino”) a cause extrascolastiche (ambiente, deprivazione culturale, massificazione, scadimento dei valori, crisi del ruolo educativo della famiglia,...), ma non si sogna di mettere in discussione l'inefficacia dei suoi interventi educativi e di attivare le possibili azioni compensative.
Sarà finalmente libero dalle ambiguità lessicali dei giudizi il minuzioso fiscalisa che, vittima dell'ossessione docimologica, ama registrare con burocratica pignoleria i risultati secchi delle sue periodiche, ineluttabili e rituali "verifiche" usando tecniche asettiche e punteggi centesimali.
Resterà uguale a se stesso, con pochi adattamenti, il rassegnato fatalista, convinto che la situazione di difficoltà dei suoi alunni sia immodificabile (“non c'è niente da fare!), che i processi di maturazione degli alunni siano regolati da leggi imperscrutabili (“quando sarà il suo tempo, capirà”), che il rendimento scolastico dipenda in minima parte dall'azione educativa. I voti diagnostici, così come i giudizi sintetici, non lo costringeranno a tentare prognosi e terapie: saranno come delle istantanee che fissano la situazione senza considerare i precedenti o le prospettive, i percorsi e i processi, i requisiti e le potenzialità, le difficoltà di apprendimento e gli stili cognitivi.
Lo schizofrenico, che non ravvisa relazioni fra la valutazione e la programmazione, che non si cura di analizzare i risultati delle verifiche per trarne le opportune conseguenze e modificare le sue proposte, contunuerà a imperterrito a misurare competenze e stimare capacità che non ha provveduto a sviluppare.
Non cambierà – per sua natura – lo sclerotico che giudica in base a pregiudizi; che riconferma le valutazioni di quadrimestre in quadrimestre, di anno in anno, senza sostanziali variazioni; che replica proposte monotone e ottiene risposte conformiste e regressioni spesso irreparabili (per il noto “effetto alone”); che non si sogna di attivare interventi individualizzati, sclerotizzando così anche la condizione degli alunni in difficoltà.
Resteranno nelle loro amate nebbie il generico e il reticente: abilissimi nell'usare un repertorio di giudizi elastici, impareranno ora a dare voti di mediana indeterminatezza, accompagnati da raccomandazioni ad alta fumosità adattabili ad ogni situazione e da consigli buoni per tutte le stagioni (come il classico “deve impegnarsi di più,... potrebbe fare meglio,...”); attenti ad evitare che il giudizio espresso nei confronti dell'alunno venga letto come il riflesso della loro scarsa professionalità; o resi elusivi dalla disistima verso i destinatari del messaggio che "non capiscono e non collaborano".
Scatenerà la sua fantasia il perifrasante che, per attenuare l'impressione di immobilità assoluta di una situazione problematica, accompagnerà i suoi voti sempre uguali con giudizi sempre equivalenti, resi apparentemente diversi con sinonimi, giri di parole e circonlocuzioni.
Cercheranno e troveranno nuove strade gli equilibristi, abili a bilanciare voti e giudizi (per cui ogni punteggio negativo va attenuato da valutazioni possibiliste) e a tentare sintesi indecifrabili delineando spesso profili contraddittori.
L'unico che si troverà in difficoltà coi voti sarà il moralista, abituato a trascurare la definizione del quadro di conoscenze e abilità, ad eludere l'accertamento preciso dei risultati e dei processi di sviluppo, a schivare la rilevazione degli apprendimenti conseguiti nei campi disciplinari; facile invece alla confusione fra cause ed effetti, fra impegno e competenze, fra disponibilità e padronanze, fra livelli motivazionali e capacità, fra comportamenti partecipativi e processi di apprendimento; esperto nel delineare il profilo psicologico, nel dar più spazio a considerazioni sull'impegno scolastico, nel considerare il senso di responsabilità e gli atteggiamenti nei confronti degli insegnanti; grande indagatore dei problemi di socializzazione, analista delle capacità attentive e di concentrazione, esploratore delle motivazioni ad apprendere e dei livelli di autostima.
Anche il moralista saprà comunque adattarsi ai voti. Ed eserciterà in parallelo la sua vocazione di indagatore del profondo.
Quelli che sanno invece stabilire una “relazione” educativa con i loro alunni (e sono i più, e capiscono quel che dico, e sanno un po' ridere di se stessi); quelli che sanno, almeno quanto basta, di pedagogia, metodologia e didattica; quelli che non hanno mai usato bastone e carota; quelli che non accettano di setacciare, selezionare, escludere; quelli che sanno rimanere seri nello sbandamento generale; quelli che condividono i principi fondamentali della Costituzione; quelli che credono in quel che fanno e fanno sorretti da quello in cui credono, ...
Ebbene, tutti questi bravi educatori – sfiduciati ma ancora determinati, disorientati ma tenaci, arrabbiati ma perseveranti, stanchi ma appassionati – non si lascieranno deconcentrare o smontare dalle studiate stravaganze del ministro che distrae il popolo con le superficiali questioni del grembiule e del voto per nascondere la sostanziale azione di smantellamento della scuola pubblica.

mercoledì 22 aprile 2009

Le brigate rosse sono nere

Chi vuole costruire la Città Ideale deve prima conquistare il potere.
Chi vuole conquistare il potere deve prima istruire cervelli, educare coscienze, diffondere cultura, formare persone sensibili e mature.
Le elezioni si vincono se la gente capisce le ragioni di una politica democratica.
Ma anche (perfino) la rivolta armata, l'autentica rivoluzione, l'insurrezione e la conquista violenta del potere presuppongono che il popolo sia cosciente - oltre che sofferente - della sua condizione di estrema ingiustizia che patisce.
Per colpire con le armi e abbattere il tiranno che detiene il potere o per desautorare un dispota che vessa i deboli con prepotenza o per mandare in minoranza col voto una forza politica che difende con arroganza i suoi privilegi , è necessario comunque EDUCARE.
Alle tortuose elucubrazioni politiche elaborate dai cervellotici rivoluzionari nostrani, da Pisacane a Cafiero a è sempre mancato il preambolo basilare che pone la consapevolezza dell'oppressione come condizione indispensabile di ogni insurrezione.
Alle analisi strategiche e alle manovre tattiche dei politici di sinistra è sempre mancata la capacità di convincere, aggregare, mobilitare.
La rivolta armata, così come la vittoria elettorale, non sono ammissibili né possibili se il popolo è addormentato nell'ignoranza o sedotto dalle lusinghe o addomesticato dalla retorica, ....
I pochi che hanno consapevolezza dell'ingiustizia hanno prima il dovere di “svegliare” gli oppressi e di trasmettere loro questa consapevolezza per poi invitarli alla sollevazione; non sono autorizzati a sobillare prima la plebe (a chiedere il voto sulla fiducia) e mandarla al macello (al seggio) per ristorare poi la sete di giustizia e libertà, restituire dopo ricchezza e benessere, dispensare successivamente kultura e consapevolezza.
La vera rivoluzione e la vera palingenesi sono date dal cambiamento delle coscienze, dalla maturazione politica, dal prevalere della ragione.
Chi soffre la tirannide non deve cominciare la rivoluzione da solo, non è autorizzato a fare da avanguardia. Chi crede nel gesto eroico esemplare e solipsistico (che, la storia insegna, sempre si è rivelato inutile e controproducente) dimostra di essere un individualista presuntuoso, un élitario romantico che disprezza il popolo, un classista reazionario che non crede nella capacità di riscatto degli umili (ed è quindi per questo, e in aggiunta, paradossalmente incoerente).
I rivoltosi che partono da soli, così come i politici che presumono di interpretare i bisogni del popolo, non sono diversi da quegli stessi dittatori che desiderano rovesciare (anzi, molto spesso, e riescono nell'impresa, si sostituiscono temporaneamente a loro limitandosi a modificarne le insegne): gli anarchici e i giacobini, così come i politici arroganti, sono simili ai tiranni che si aggiudicano il diritto di interpretare le volontà degli altri, si appropriano del potere di guidare la plebe, pretendono di essere destinati a governare le masse e ad assicurare la felicità al popolo, hanno perfino l'arroganza di scrivere le regole, di coniare le parole d'ordine, di imporre slogan, ...
I terroristi o i politici che agiscono per conto del popolo rivelano, oltre che una immaturità psichica, un istinto tirannico e un delirio di onnipotenza antidemocratici esecrabili come quelli nazista o fascista, una mentalità dispotica e una cultura autoritaria abominevole come quella sovietica o polpotiana, una propensione all'assolutismo detestabile come quella paternalistica dei democristiani, una tracotanza dittatoriale indecente come quella seduttiva dei berlusconiani.

mercoledì 1 aprile 2009

I terroni

Sono un ex-dirigente scolastico "padano", nel senso geografico e non politico del termine.
Nei miei quarant'anni di carriera ho conosciuto centinaia di insegnanti e posso affermare con cognizione di causa che la loro qualità non è mai dipesa dal luogo d'origine, come avviene (avveniva) per il Gorgonzola o il Chianti. Cervelli fini e citrulli crescono a tutte le latitudini, come dimostra la storia, come conferma la cronaca.
Sono portato, per indole e per scelta, alla estrema tolleranza. Ma se dovessi decidere di "cacciare" dalla scuola una categoria, butterei fuori i razzisti, gli sciovinisti, gli intolleranti e gli integralisti di ogni risma i quali - non per caso, come avviene per il luogo di nascita, ma per consapevole scelta culturale - sono "inadatti": non possono infatti pretendere di fare con convinzione gli educatori predicando l'intolleranza; non possono coerentemente trasmettere valori trasudando becerume; non possono insegnare con efficacia la convivenza civile e porsi come modelli di comportamento disprezzando la Costituzione e guazzando fra pregiudizi; non possono stare con i bambini e frequentare nello stesso tempo chi invita a usare la bandiera per usi impropri; non possono infine fare e trasmettere cultura contrapponendo Cattaneo a Pirandello come fossero trippa e pasta con le sarde.

Sono padano

Sono lombardo di nascita e di cultura. Ma non mi riconosco nello schieramento politico che si è impadronito del titolo di “padano” e se ne fregia abusivamente, assegnando all’aggettivo una colorazione verdastra e una connotazione becera.
Sono padano e aperto come la mia pianura, crocevia di popoli, mescolanza di razze, minestrone di culture. Sono padano e orgogliosamente bastardo perché so che nelle mie vene - come nelle zolle della mia terra - si mischia sangue ligure e gallico, bizantino e germanico, longobardo e franco, lanzichenecco e spagnolo, francese, veneziano e austriaco.
Sono padano e tollerante: non ho mai guardato con ostilità i terroni, indistinguibili da noi perché come noi meticci per mille incroci; non guardo con ostilità gli extracomunitari, distinguibili da noi perché ancora - ma per poco - di razza pura, intatti nel loro isolamento esistenziale e nella loro più integra identità culturale.
Sono padano e, con la saggezza antica dei miei padri, sono consapevole che il mondo va per la sua strada. E nessun borghezio riuscirà a fermarlo.