venerdì 27 dicembre 2013

I paesaggi, Tullio Pericoli, Adelphi, Milano 2013

Io me lo immagino sempre il Tullio (anzi – per meglio dire – il Pericoli, perché lui così si firma, solo col cognome), me lo immagino lì seduto davanti al suo tavolo sempre ingombro di mille matite e matitone, pastelli e gessetti, raschietti e pennelli e altri strumenti strani di scrittura o disegno.
Sta lì ogni giorno per delle ore, perché quello è il suo mestiere. E deve fare i suoi scarabocchi quotidiani, quelli per cui è pagato, con i quali si paga il caffè della mattina e la tisana della sera, e si compra le belle tod’s che indossa e i caldi calzoni di fustagno.
Si siede composto e se ne sta tranquillo a pensare, senza fare nulla per qualche minuto. Poi prende un bel foglio di carta, quella fatta a mano, da una pila ordinata che sta ai margini del suo tavolo, se lo mette davanti, lo contempla qualche secondo e incomincia a tracciare le sue righe.
Dentro la testa ha sensazioni, ricordi e fantasie.
Dietro gli occhi vivono per conto loro emozioni, paure e nostalgie.
La sua mano si sposta qua e là sulla carta tracciando segni che l’autore non conosce finché non sono visibili. Pare mossa da automatismi incomprensibili e da meccanismi un po’ inceppati.
Nascono linee indecifrabili, talvolta dritte come le righe dei quaderni di scuola, talvolta curve come le colline poppute delle Marche, altre volte rotte come le faglie geologiche o ubriache come il percorso casuale dei fiumi sulle carte o sottili come le crepe tremolanti dei muri.
Le righe da sole però sono inquietanti nella loro perentoria assolutezza. E allora Pericoli le impiastriccia con grumi di colore che subito spalma con dita attente.
Imbratta e stende, sfuma all’infinito, sparge segni, aggiunge e mischia colori, punteggia, sovrappone, tratteggia, accavalla.
Il lavoro procede così, meticoloso, con poche titubanze.
Viene quel che viene: nuvole sotto gli alberi, segni tipografici nel cielo, stormi che sgorgano da un masso, intrichi di colline ondose, fumi subacquei, treni che tagliano percorsi obliqui, nature morte che intralciano il panorama, viali vaporosamente alberati, prospettive distorte di metropoli sognate, laghi vulcanici ingombri di cornici affastellate, cavalieri vaganti dentro valli metafisiche, altopiani che s’interrompono ai margini di una scrivania,  magre figure solitarie che contemplano territori infiniti, alberi gonfi come nuvole e nuvole sfilacciate come stracci, cespugli a sbuffo o a spirale, modelle in posa e cinghiali erranti, finestre aperte su vedute inclinate, microcosmi affollati circoscritti dai bordi di un vaso, busti che affiorano disseminati in pianori deserti, colline a balze e gradoni, cieli ventosi e ingarbugliati, fazzoletti di terre arate cuciti fra loro con casualità arlecchinesca, mari verticali, casette sghembe, libri volanti.
Il Pericoli non l’ho mai visto al lavoro.
Ma immagino che le cose vadano così.
Con lui che segue gli sviluppi e si meraviglia.



mercoledì 18 dicembre 2013

Il passato (2013) di Asghar Farhadi

Ahmad sbarca a Parigi da Teheran per formalizzare e concludere la pratica di divorzio con Marie dalla quale si è separato quattro anni prima.  È ospitato dall’ex-moglie farmacista nello scompigliato appartamento della periferia parigina dove incrocia anche Samir (il compagno subentrante, titolare di una lavanderia), Lucie e Léa (le due figlie - una adolescente, l’altra bambina - che Marie ha avuto da una precedente relazione) e Fouad (figlio di Samir e coetaneo di Léa).
Il suo arrivo scombussola i già difficili equilibri del gruppo e provoca l’affiorare dei complicati ingorghi esistenziali di tutti: quelli di Marie, innanzitutto, insoddisfatta e determinata a ricominciare ma incapace di gestire l’intricata situazione in cui si è ficcata; quelli di Lucie, che non perdona alla madre il carosello di figure maschili che le vengono proposte e sottratte senza tener conto delle sue esigenze di stabilità affettiva; e poi quelli di Samir, che è scisso fra Marie (dalla quale aspetta un figlio) e la moglie (in coma per un tentato suicidio forse collegato alla sua nuova relazione) e patisce insopprimibili gelosie di fronte ai banali segni della antica e consuetudinaria intimità della ex-coppia; e ancora quelli del ribelle Fouad, che - bisognoso di calori materni – vive con gelosie e rancorosi sensi di colpa la sua condizione di bambino “quasi orfano”; e infine quelli della piccola Léa che insegue con paziente rassegnazione i suoi confusi ideali di serenità, disorientata dal caos che la circonda.
Anche lui, Ahmad - che potrebbe sembrare il deus ex machina della situazione, con la sua pazienza esemplare, la sua razionalità, il suo senso di giustizia, la sua capacità di mediazione, la sua straordinaria empatia, il suo senso di paternità (pur essendo l’unico adulto non-genitore) - viene risucchiato, scena dopo scena, nella matassa aggrovigliata che credeva di poter dipanare con una piccola formalità.
 
I due triangoli sghembi costituiti da tre adulti e tre minori s’intersecano in cerca di improbabili equilibri, disturbati in questo anche da due altri pesanti presenze-assenze costituite dalla moglie di Samir in coma e dal nascituro.
Ognuno dei protagonisti cerca la sua stabilità attraverso piccoli movimenti di assestamento, ma ogni tentativo modifica l’assetto generale e crea squilibri nuovi.
Quella che può sembrare la via d’uscita per uno, diventa l’imbuto per altri.
Ognuno si trova in ogni momento nella confusa impossibilità di trovare il modo di alleviare il sottile dolore che lo assilla: la scelta che s’impone ad ogni biforcazione appare comunque inadeguata. 
Impossibile trovare la giusta misura dei rapporti. 
Nessuna strategia pare funzionare: non le diplomazie di Marie con i suoi uomini o l’alternarsi di severità o indulgenza con le figlie; non la disponibilità di Samir o l’equilibrio paternalistico e talvolta irritante di Ahmad (che si rivela più fragile di quanto non voglia sembrare); non il ribellismo ricattatorio dell’inquieta Lucie o la fragile caparbietà di Fuoad o la candida semplicità di Léa.
Gli equilibri precedenti l’arrivo di Ahmad si reggevano solo sulla finzione, sull’accettazione ipocrita dello statu quo con tutti i suoi equivoci, sulla consistenza epidermica dell’esistenza: nel momento in cui si solleva un solo lembo della fragile pelle dell’apparenza, tutto si scopre, in una reazione a catena incontrollabile. Una verità, per quanto piccola, ne smuove un’altra. La mimetizzazione cessa di funzionare. Il quadro si scompone. L’inquietudine sopita cresce e dilaga.
 I protagonisti, illusi tutti di poter voltare una pagina nella loro esistenza, si accorgono che il passato non è mai del tutto passato; che il presente ne è la stratificazione, conseguenza del garbuglio che si è vissuto; che nessun rapporto è mai liquidabile definitivamente da una firma sull’atto di divorzio, da una perdita, da un rapporto nuovo, da una fuga, da una rimozione; che per aggiustare la catena saltata di una bicicletta è necessario allentarla, recuperarla, manovrare avanti/indietro, evitare forzature.
 E tutti avvertono confusamente che la verità non si scrive con la lettera maiuscola; che non è una e pura, ma un mosaico composto da tante piccole verità e da grandi bugie intrecciate ad accompagnare e sostanziare le vite; e non deve essere letta, ma interpretata; e non appare mai lucida, fredda e fissa come uno specchio, ma si modifica e rimanda immagini sovrapposte e fuse insieme, figure frante e sfaccettate, abbagli e zone d’ombra.

 La potenza del film – che pure è lunghissimo e determina inevitabili cali di attenzione – può essere pesata dall’altissima inquietudine emotiva che pervade la sala e dall’assoluta e costante concentrazione degli spettatori durante la proiezione. Le microvicende psicologiche dei personaggi hanno la capacità di creare tensioni opprimenti, simili a quelle di un triller, senza bisogno di ridondanze registiche, colpi di scena drammatici, furbizie tecnologiche, montaggi frenetici, musiche diegetiche. 

Geniale – e coerente con l’assunto principale del film – il finale irrisolto.

 


lunedì 2 dicembre 2013

Paolo Nori il 10 dicembre 2011 ha scritto (http://www.paolonori.it/dopo-16/):

Dopo, ieri, sono andato a Cesena, a parlare a degli studenti di architettura, e l’ultima domanda che mi hanno fatto è stata, più o meno, Ma tu che parli di una lingua concreta, di una vicinanza al dialetto, cosa ne pensi di Pier Paolo Pasolini.
Guarda, gli ho detto io, il fatto quotidiano han pubblicato oggi una cosa, aspetta eh, ce l’ho nella borsa, lo prendo, e ho aperto la borsa, ho preso il fatto quotidiano, l’ho aperto e ho letto:Uno parla di Matera, qualcuno tira fuori Pasolini, parla di calcio, la grande passione di Pasolini, parla di cinema, c’è sempre uno che cita Pasolini, parla di aborto, da qualche parte salta fuori Pasolini, parla di chiesa, la controversa spiritualità di Pasolini, parla di manifestazioni, neanche da dire, Valle Giulia e Pasolini, parla della fauna emiliana, saltan fuori le lucciole di Pasolini, parla di poesia dialettale, c’è sempre qualcuno che ha letto Pasolni, accende la radio, dopo un minuto Pier Paolo Pasolini, va bene. Non dico niente, va bene.



Gli rispondo.

Sono d'accordo. 
Ma mi viene il sospetto che sotto ci sia un qualche polemico fraintendimento. 
E allora dico la mia.  Senza polemica. Senza intenzione di beatificazione (iterata, inutile).

Si sa, ma lo ricordo come premessa: Pasolini - nonostante l’ostracismo della chiesa e dei comunisti,  il tentativo di esclusione della classe politica e della borghesia e la paternalistica accondiscendenza della cultura alta - aveva raggiunto un enorme successo come poeta (prima dialettale e poi in lingua italiana), come romanziere, come autore teatrale e sceneggiatore, come critico letterario ed infine come regista.

Il suo poliedrico, eclettico (ed anche un po’ frenetico) attivismo culturale [e qui hai ragione con la tua accusa di prezzemolizzazione], accanto alla sua diversità ed al suo effettivo anticonformismo, lo rendevano funzionale ad una società sensibile ai movimenti antiautoritari degli anni Settanta, all’anarchismo eversivo, alla simpatia per le rivoluzioni. E lo rendevano anche "di moda".
I media si erano tuffati su di lui e lo avevano adottato, quasi addomesticato (in quegli anni Mario Apollonio, parlando d'altro, sosteneva che la chiesa era capace di far parlar latino anche i bestemmiatori). 
Pasolini era  - suo malgrado - un buon segnavento: garantiva audience, piaceva ai media perché dava patente di libertario a chi lo invitava, piaceva alla sinistra modaiola perché scavalcava a sinistra la sinistra tradizionalista, piaceva anche ad una certa destra modernista perché smascherava le ipocrisia dei progressisti.
Le sue prese di posizione anticonformiste erano musica per le orecchie degli anticonformisti di professione (che sono più conformisti dei conformisti): Pasolini infatti - pur di andare contro corrente, consapevole della strumentalizzazione di cui era vittima - prendeva posizione contro tutti - guadagnandosi, di volta in volta, le simpatie dei radicali e dei frati di Assisi, dei maoisti e dei poliziotti, dei critici letterari e dei lumpenproletari borgatari, dei funzionari Rai e degli intellettuali espulsi dalla televisione,...
Piaceva a tutti e dava fastidio a tutti. Era, in sintesi, un rompicoglioni reso innocuo dal suo rompicoglionismo fatto professione.
Il fatto che continui ad essere sfruttato in quell ruolo qualche decennio dopo la sua morte ci dice due cose conferma la sua attualità e la sua innocuità.
Pasolini continua ad essere attuale anche perché TUTTI gli argomenti su cui si è espresso allora riguardano problemi (politici, sociali, etici, culturali, letterari, economici, religiosi, educativi, …) non ancora risolti.
E continua ad essere innocuo - malgrado avesse spesso ragione; benché abbia spesso ancora oggi (purtroppo) ragione - per il fenomeno di beatificazione che l’ha investito.
Ora a citarlo sono dei piccoli conformisti.
E a denigrarlo sono dei piccolissimi anticonformisti.
Di “aspiranti pasolini” - o di sue copie sbiadite - siamo purtroppo invasi.