venerdì 6 giugno 2014

Lei (Her) di Spike Jonze, 2013



Il film sviluppa un’idea non del tutto originale (la filmografia sul rapporto uomo-macchina è sterminata) ma lo fa con una sceneggiatura ben congegnata, che regge nonostante alcune pesantezze nei dialoghi.

Theodore (Joaquin Phoenix) lavora in un’azienda che predispone mielate lettere d’amore su richiesta e su misura dei singoli committenti, e lo fa acquisendo poche informazioni essenziali per calarsi con grande sensibilità nei panni dei suoi “clienti”.
La sua empatia è eccezionale e la capacità di trovare le espressioni più efficaci è straordinaria se si tiene conto che l’azione si svolge in un prossimo futuro ipertecnologico (molto probabile e simile al nostro) nel quale, considerate le infinite opportunità comunicative non verbali, una lettera sentimentale non può essere altro che un vezzo di alto valore poetico ma di scarsa utilità pratica.

Da buon venditore di parole (surrogati della fisicità), è solo: sentimentalmente parlando, è separato e vive in una fase di transizione, sospeso fra emozioni perdute, velleità indefinite, esitazioni irrisolte.
E dunque acquista per sé un’interlocutrice virtuale inserita in un sistema operativo, una partner artificiale dialogante, ovviamente programmata sui suoi bisogni, che si muove un po’ come fa lui con i suoi clienti afasici, tentando di immedesimarsi in loro per meglio interpretarli.

Le manovre dei due personaggi sono complesse e ondivaghe.
Samantha OS1 (questo è il nome che la nuova “fidanzata” ha scelto per sé) comunica con Theodore (con la voce di Scarlett Johansson in inglese e con quella roca di Micaela Ramazzotti in italiano) dopo averlo ben inquadrato, misurandosi con la sua complessa personalità e tenendo conto anche della sua voglia di imbozzolarsi, della sua sterile verbosità, delle sue fantasie erotiche, esplicite o sottaciute.
Theodore, che si era messo in stand-by sul piano sentimentale per evitare delusioni e frustrazioni e si era allontanato dalla sua “umanità” per rifugiarsi nella tecnologia, compie un’inversione a U, s’imbarca in una storia d’amore (che crede di poter controllare). Le conversazioni diuturne, empatiche come da contratto, fanno nascere in Lui una simpatia, un principio d’innamoramento, un’infatuazione progressiva, un’affezione amorosa, ovviamente assecondata dalla femme servante. Lo vediamo abbandonarsi alla deriva dei sentimenti con le sue sensibilità (molto femminili) e con tutta la carica emozionale che gli ricresce dentro naturale e propria dell’uomo, quindi illogica.

Samantha-OS1 compie il percorso inverso. Da vera “macchina” programmata per essere specchio, emanazione e amplificazione dei bisogni sentimentali di Theodore, si comporta con la piaggeria imposta dalle regole d’ingaggio (come fosse una puttana), asseconda il padrone disorientato (ripetendogli continuamente “As you like it”)  e – dopo “averlo imparato” – risponde come suggerisce la sua sapienza psicologica. Ma poi, procedendo con la sistematica fame esperienziale di chi è pianificato per crescere accumulando dati, si arricchisce (?) progressivamente di connotazioni antropiche (proprio – tutti i cinefili lo ricorderanno – come il N.° 5 in Corto circuito di John Badham, del 1986, col suo ossessivo “Necessito imput!”) e gradatamente si umanizza, senza però appesantirsi delle consustanziali zavorre morali o sentimentali proprie di noi mortali. E diventa infine “donna”, cioè “domina”.

In sintesi: Theodore, il maschio, prima sceglie e dispone, poi regredisce e perde indipendenza; Samantha, emblematicamente femmina, prima ascolta e asseconda, prende ordini e dipende, conversa con irreale tenerezza, lavora per lui; poi progredisce irrefrenabile, si emancipa, prende iniziative, lo sostituisce, comanda.
Significativa la scena nella quale Theodore, in mezzo ai passanti sbigottiti, gira “come fosse una trottola” su comando di Samanta; e quasi tragicomica appare un’altra scena, quella di un ansimantissimo orgasmo a conclusione di un amplesso richiesto da lei (con lui che si chiede perplesso la ragione degli inutili sospiri).

Ovviamente, col passare del tempo, il crescente distacco fra i bisogni primordiali dell’uomo (di controllo totale e dominio geloso) e le mansioni evolute della macchina emancipata entrano in rotta di collisione e la frattura diventa inevitabile e incolmabile.
Il processo di deumanizzazione iniziato da Theodore (caratterizzato da dipendenza da gadget tecnologici, robotica domestica, wireless a gogò, videogiochi inglobanti l’avatar e sesso virtuale) evapora di fronte ai più primitivi impulsi dettati dai fantasmi della gelosia, dalla sindrome di abbandono, dallo smarrimento.  L’uomo ridiventa uomo vulnerabile, un povero Cristo nato per soffrire.
Samantha, ideata come strumento della guarigione, inizia a ferire.
Nemmeno tutta la sua sapienza psicologica (accumulata per “essere”) riesce a frenare la deriva di colui per il quale esiste.

Ancora una volta l’inappagato maschio, impossibile da soddisfare (o incapace di suo di trovare completezza), sempre incontentabile e lanciato alla ricerca del “possesso” esclusivo ed escludente (“O sei mia o non sei mia”), si ritrova davanti un essere irraggiungibile. Samantha è sempre lì, vicina – certamente – ma sta eseguendo un suo aggiornamento, pensa ad altro, è con la testa altrove, interattiva anche con altri, inclusiva (“Sono tua e non sono tua”), omnicomprensiva, omnivora, in altre faccende affaccendata.

E il cerchio si chiude nel più prevedibile dei modi.
Jonze – a ben vedere – ci racconta un’assurda (cioè ordinaria) storia d’amore (cioè di solitudine).
Una storia che, in più, veicola un messaggio infinitamente triste, sostenendo (non so quanto gli autori siano di questo consapevoli)  che l’uomo non troverà mai l’appagamento, nemmeno in una donna fatta su misura, incarnazione dei suoi desideri. Forse perché è più forte in lui la necessità di inseguire le proprie ossessioni rispetto al bisogno di trastullarsi in faticosi idilli e gestire emozioni reali.

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Fitti (quasi disorientanti) i dialoghi, anche se nella fase conclusiva debordano e presentano lungaggini, esitazioni e sfilacciamenti.
Lo sfondo è blade-runneriano (anche se molto pulito, diluito e ricolorato con tinte pastello, un po’ fasulle): forse a significare che anche qui il virtuale mangia il biologico, oppure che i rapporti umani (con i relativi sentimenti) sono destinati a polverizzarsi; ma anche a ribadire che l’uomo, per quanto apocalittico o utopico sia il suo futuro, sempre omuncolo rimane.  
Bello lo skyline con grattacieli neri dalle finestre illuminate ma vuote.
Joaquin Phoenix giganteggia (se non altro perché fa tutto da solo) triste coi suoi occhi verdi e goffo nei suoi inverosimili calzoni ascellari.








Bambini del cielo di Majid Majidi (Iran 1997)


Ali, un ragazzino di una decina di anni che vive in un povero quartiere della metropoli iraniana, passa dal calzolaio a ritirare le scarpette della sorellina Zohre – le uniche che la piccola possiede – e tornando a casa le dimentica sui banchi del fruttivendolo. Quando se ne accorge è troppo tardi: un robivecchi è passato e le ha caricate sul carretto insieme a mille altre cianfrusaglie.
Inizia un complicatissimo balletto fra i due fratellini che vogliono nascondere la cosa in famiglia per non dare dispiaceri e preoccupazioni alla madre (che è di salute malferma e deve badare a una neonata) e, soprattutto, per non incorrere nelle furie dell'irascibile padre che - non guadagnando abbastanza per mantenere la famiglia, pagare l’affitto e garantire le cure alla moglie - non è certo in grado di comperare un paio di scarpe nuove a Zohre.
Facilitati dal fatto che le scarpe, in Iran, restano fuori dalla soglia di casa, i due piccoli riescono a farla franca; avendo poi orari di scuola diversi (i maschi e le femmine, per motivi logistici oltre che religiosi, si avvicendano nel piccolo edificio scolastico) trovano il sistema, per frequentare le lezioni, di condividere le scalcinate simil-Superga di Ali scambiandosele – scarpe vs ciabatte – in un vicolo defilato a metà del percorso casa-scuola.

Le condizioni di vita dei poveri quartieri della città, in stridente contrasto con l’ostentata opulenza dei ricchi residenti nei quartieri alti (larvatamente denunciata dal regista, che non è fra quelli messi “all’indice” dal regime integralista di Teheran), ricordano molto quelle della nostra piccola Italia degli anni Cinquanta. Non a caso questo film del 1997 richiama alla mente le atmosfere del cinema neorealista di Zavattini e De Sica (in particolare Ladri di biciclette).
Analogie affiorano nell’ambientazione proletaria e nella predilezione minimalista per la quotidianità, nella presa diretta della realtà e nella visione pessimistica, nel ruolo protagonista dei bambini (dalla cui altezza si osserva l’assurda società adulta) e nell’uso di attori presi dalla strada, nell’inserimento di intensi primi piani per esprimere stati d’animo e perfino nell’uso “partecipante” della camera.

Il film è lieve, garbato, delizioso, confortante.
Da vedere, come pausa fra la visione di film che rappresentano le quotidianità complicate e le prospettive catastrofiche della nostra civiltà.