Ammettiamolo: la biografia di ciascuno di noi (anche di
quelli che più se la tirano) può benissimo essere raccontata con una manciata
di canzonette.
Provate a pensarci, smorzando i pregiudizi ipercritici, e
scoprirete che ogni stagione della vostra esistenza (infanzia, fanciullezza,
adolescenza,…) può essere evocata da una canzone; che ogni momento cruciale
della vostra vita (infatuazione, delusione amorosa, conquista, abbandono,…) è
già stato descritto con sorprendente efficacia da un cantautore; che ogni vostra
vecchia fotografia può trovare la sua esatta colonna sonora in un pezzo
dell’infinito repertorio della musica (cosiddetta) leggera.
Come spiegare altrimenti l’effetto suggestivo (a volte accompagnato
da struggente nostalgia) provocato dall’ascolto, anche casuale, di un certo
refrain? Come spiegare lo spiazzamento (la delocalizzazione spazio-temporale)
determinata da un certo gaglioffo ritornello sepolto nella memoria?
Turturro conosce alla perfezione questi meccanismi, amando
senza riserve la musica popolare (il suo film, Passione, del 2010, lo dimostra ampiamente e – appunto –
appassionatamente); e su questi meccanismi imposta il racconto di una
passeggera (ma non banale) crisi matrimoniale.
Nick Murder (James Gandolfini) è un corpulento operaio che,
pur essendo sposato da diversi anni con l’energica Kitty (Susan Sarandon) e avendo
per casa tre figlie adolescenti inquiete ed rockettare, è invischiato in un’impetuosa
tresca con la focosa Tula (una disinibita, e rossa, Kate Winslet). Il triangolo
proletario viene alla luce e Nick è costretto a scegliere fra l’amante che gli
spiana la strada con tutte le sue procacissime armi di seduzione e la moglie
che gliele ostruisce con i suoi rancorosi orgogli.
Il film, che non è un film musicale, è punteggiato da
canzoni famose (c’è perfino Quando
m’innamoro, cantata da Anna Identici, e Delilah
di Tom Jones; ma non mancano brani popolarissimi di James Brown, Elvis Presley
e Bruce Springsteen). Spesso le canzoni sono canticchiate sopra-traccia dai
diversi personaggi; ogni tanto si assiste anche a dei goffi balletti
improvvisati da passanti o da vicini di casa; perfino i dialoghi sono farciti
di citazioni che richiamano titoli o testi di canzoni.
Ma le venature grottesche, la trama confusa (come i sentimenti
rappresentati, del resto), le situazioni e gli ingranaggi un po’ bislacchi (i
fratelli Coen sono fra i produttori, e si sente), il gusto per i coup de
théâtre, i camei di due squilibrati del cinema americano come Steve Buscemi e Cristopher
Walken, … rendono il film gradevolmente surreale; il miscuglio kitsch di
allegria e malinconia appare equilibrato; e alla fine nemmeno stona il declinante
finale con la pacchiana apoteosi moralista (il fumo fa male e la famiglia è
sacra) che risulta poco credibile dopo tanta dichiarata irriverenza.
Tanto poi, dopo i titoli di coda, il mondo continuerà a
rotolare così, popolato da maschi più o meno arrapati, in crisi; da femmine più
o meno possessive, in crisi; tutti perennemente impegnati a bisticciare e a
promettere; a pagare la felicità offrendo delusioni, e viceversa; a fare torti e
a pentirsene, a subire torti e cercare vendette; a rincorrere soddisfazioni
gratuite e negarne. In definitiva, a tirare avanti. Appagati qualche volta dal riconoscere un’emozione
vissuta nelle note di una canzonetta, dal rispecchiarsi nei sentimenti di un
cantante, dal condividere le passioni di un poeta. E sapendo che anche il
cinema è un po’ vita vicaria.
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