domenica 27 settembre 2009

Il gioco dei quattro cantoni

Il gioco dei quattro cantoni
è metafora quasi perfetta
del piccolo e chiuso universo
che mi ingabbia.

Sono qui
e passo da un angolo-rifugio all’altro
in un gioco senza scampo.
Trascorro su traiettorie note
i giorni cadenzati da quieti rituali.
Mi sposto su tragitti ordinati ed ordinari,
da tana a tana,
per nascondigli sicuri e riparati.
E intanto si consuma
prevedibile e sommessa questa vita.

Lo sfratto temporaneo
è avventura breve.
Come un pomeriggio fuori casa
senza soldi e senza documenti,
fingendo di non essere nessuno.
Come l’andare senza meta
per allontanarmi da me
e perdermi
e cancellare le mie tracce.
Come l’immaginare ad occhi chiusi
di annusare arie diverse
per sembrare altrove;
e camminare a caso,
e spiare altri profili,
e sognare
sognando di sfiorare altre vite.

Vorrei oggi cambiare anche la pelle
e mendicare pane via da qui.
Ma senza scampo ancora
fluisce il giorno,
e il tempo si consuma lento
e il tempo mi consuma lento
con placida e crudele noncuranza.
Ed è quasi ora di cena.

giovedì 17 settembre 2009

Verità

"Io non ho mai preteso di dire la verità a nessuno, da una parte perché non serve a niente e dall'altra perché non la conosco".
Fernando Pessoa, L'ora del diavolo.

lunedì 14 settembre 2009

Conflitto di interessi

LA STORIA CI INSEGNA CHE DALLA STORIA NON IMPARIAMO NIENTE. 3

Nel 1508 papa Giulio II ispira la Lega di Cambrai che riunisce l’Europa intera (l’impero Asburgico, la Francia, la Spagna e altri) contro Venezia.
Bologna non aderisce all’infame patto e viene occupata.
I Bentivoglio fuggono per salvarsi la vita e si rifugiano nelle terre della Serenissima. Il papa li scomunica e proclama l’“interdizione” in tutte le terre che danno loro asilo: vieta cioè di celebrare o partecipare a cerimonie di culto, sacramenti e riti.
Il 4 novembre del 1509 si “sparge la voce” che i giovanissimi figli di Giovanni II Bentivoglio abbiano attraversato la provincia di Brescia.
Tutto il territorio Bresciano viene interdetto.
Il vescovo di Brescia fa chiudere le chiese e ordina la sospensione i tutti i riti, compresi i funerali.
I morti, a causa della serrata delle chiese e dello sciopero dei preti, vengono sepolti sui terrapieni fuori dalle mura, nei campi, ai margini delle strade, negli orti,…
Odorici (1860) commenta: “… E queste barbare e stolte esorbitanze venivano dall’infallibile !

Elezioni

LA STORIA INSEGNA CHE DALLA STORIA NON IMPARIAMO NIENTE. 2

1503. Muore Alessandro VI, il papa Borgia famigerato per la dissolutezza, spregiudicato nel perseguire gli interessi di famiglia, ostinato nell’attizzare guerre per accrescere il potere, inflessibile coi nemici (responsabile, fra l’altro, della condanna al rogo del Savonarola).
Aveva avuto, da Vanozza moglie di Domenico d’Arignano, quattro figli: Pier Luigi e Giovanni (duchi di Granada), Lucrezia (sposa per ragioni politiche a Giovanni Sforza, poi ad Alfonso d’Aragona, poi ad Alfonso d’Este), e Cesare (per Machiavelli principe modello, spietato nel conquistare il potere con l’astuzia e la violenza: fece uccidere cinque signori dello Stato della Chiesa dopo averli invitati a cena e si dice che fosse anche responsabile dell’assassinio di uno dei suoi fratelli).
Dopo Alessandro sale al trono pontificio Pio III che però muore prima della cerimonia di insediamento.
Gli succede Giuliano della Rovere, Giulio II, il papa guerriero (contro Cesare Borgia e contro Venezia) ma anche mecenate (commissionò a Michelangelo gli affreschi della Cappella Sistina ed a Raffaaello le Stanze vaticane).
Odorici, citando Guicciardini, definisce Giulio II come “uomo di assai difficile natura, irrequieto, insistente negli odi e nelle offese, … inviso da molti e potenti romani”: in altri termini un caratteraccio sbalestrato, rancoroso e vendicativo, odiato da tutti.
Ci si chiede come riuscì a farsi eleggere.
Sempre l’Odorici sintetizza: “Più valsero le smodate promissioni da lui fatte agli elettori”.

Non passa lo straniero!

LA STORIA INSEGNA CHE DALLA STORIA NON IMPARIAMO NIENTE. 1

Nel 1525 il bresciano Giovanni Paoli lavora al torchio in una stamperia di Siviglia.
Ha preso domicilio presso l’officina e probabilmente mangia e dorme in mezzo ai torchi, alle carte, agli inchiostri, ai caratteri mobili.
È analfabeta, ma impara da solo a leggere e scrivere grazie alla pratica quotidiana con le pagine che va stampando.
Dopo sette anni di lavoro, dandosi da fare nelle diverse mansioni tipografiche, da semplice torchiatore e battitore diventa maestro dell’arte e compositore di qualità.

Un documento del 1532 lo nomina come “cittadino di Siviglia”.
Cinquecento anni fa - in un’epoca di conflitti di religione, di divisioni e lotte per il potere, con l’Europa frazionata in mille stati e statarelli sempre in lotta fra loro - la cittadinanza era attribuita dopo sette anni di soggiorno in una città a chiunque vi soggiornasse esercitando un mestiere.
Sarà mandato in America come responsabile della prima stamperia operante nel Nuovo Mondo.

sabato 12 settembre 2009

Fantasmi

Non sento in nessuno sintonie,
in nessuno riconosco comunanze.
Inutile cercare,
affanno inutile è cercare contatti.
Attorno scorre indecifrabile la vita:
passano fantasmi indifferenti,
passano automi dagli occhi opachi,
affiorano visi e figure,
confusi,
svaniscono visi e figure,
realtà galleggianti,
del tutto simili ai più vaghi ricordi.

Ed io son parte muta
di questo muto cinerama.

venerdì 11 settembre 2009

Giochi fatti

Talvolta, sai,
visto che i giochi miei son fatti,
talvolta
penso che sia il caso
di sedermi svagato in riva al fiume
ad aspettare.

Svanita e persa è infatti la curiosità
per le magnifiche sorti e progressive.
Non si commuove il cuore fiacco
ormai
alla beltà di fronde ed erbe ed animali.

Resta soltanto la privata voglia
di veder crescere il figlio,
ancora un poco;
e di seguire il suo andare,
ancora un poco,
quel tanto almeno che basti ad accertarsi
- da lontano -
che imbocchi la giusta direzione.

sabato 5 settembre 2009

1964: PANE E MORTADELLA

... Una sera incontrai davanti al salumiere la morettina che avevo soccorso durante lo scritto di matematica. La riconobbi, con qualche incertezza, dalla spettinatura. Era però meno pallida del giorno dell'esame, e soprattutto meno disperata.
Mi identificò subito e mi sorrise con riconoscenza. Ci presentammo, con una civilissima stretta di mano, appena un po’ trattenuta, la sua, morbida e poco vigorosa. Feci un tratto di strada con lei.
Si chiamava Franca, era della provincia di Pistoia, aveva una camera presso una vedova sopra il barbiere, aveva vent’anni, compiuti in maggio, voleva fare l’infermiera, la sera giocava a carte con la vedova, poi studiava o guardava la televisione.
La sua chiacchierata era un po’ prolissa e noiosa ma aveva un sapore diverso, gustoso per l’accento toscano, vivido come i suoi occhietti neri e mobili, gradevole come l’odore gradevolissimo di mortadella che usciva dal cartoccio che mi sventolava sotto il naso.
Ci fermammo sotto la casa dove aveva preso alloggio. Mi guardava con negli occhi una dose di riconoscenza che mi pareva eccessiva se riferita ai sussurrati suggerimenti del giorno dell’esame. La guardavo con un moto di simpatia e con una voglia di piacerle che mi risultava diversa da quella che sprecavo con altre.
Improvvisamente Franca si ricordò che aveva un appuntamento telefonico, si scusò, mi chiese di aspettarla venti minuti che sarebbe tornata, mi lanciò un “ciao” concitato, fece due passi, si girò, tornò indietro, mi disse un altro “ciao” sventolandomi la mano davanti agli occhi. Poi, siccome la fissavo con un’aria vagamente stordita senza parlare e senza muovermi, mi diede un velocissimo bacio sulla guancia, restò un istante in attesa di una reazione, scrollò le spalle imbarazzata, si girò, attraversò la strada e si infilò in un piccolo portone di legno e lo richiuse immediatamente alle sue spalle.
La rincorsi, bussai, la chiamai. Aprì quasi subito e, attraverso lo spiraglio, scosse la testa con un’aria di compiacente commiserazione.
Le dissi che non avevo capito. Mi chiese che cosa non avessi capito.
Le dissi che non avevo capito la faccenda dei venti minuti.
Mi guardò con dolcezza con quei suoi occhi neri da berbera, continuò a scuotere la testa con ostentata pazienza e - parlando lentamente, spiccando e distanziando bene le parole come quando ci si rivolge ad un ritardato mentale - mi disse che, se mi andava, potevo aspettarla venti minuti, lì sotto, senza muovermi, che poi lei - venti minuti, anche meno - si sarebbe liberata, sarebbe scesa, mi avrebbe raggiunto e avremmo potuto chiacchierare tranquilli, anche tutta la sera, fino a tardi.
Contemplò un attimo la mia reazione, assente e attonita, ticchettò con l’indice la mia fronte per riattivare le mie funzioni cerebrali e per invitarmi a togliere la testa dai battenti, poi con tenera malizia, alzandosi sulla punta dei piedi infilò lei la testa nello spiraglio della porta e mi diede un bacio sulle labbra, un velocissimo bacio leggero, delicato, breve, morbido, dolce, tenerissimo.
Mi richiuse la porta in faccia, con precauzione.
Con gli occhi fissi sul maniglione vissi i venti minuti più lunghi della mia vita.
In venti minuti il portone si aprì più volte: il numero dei campanelli mi diceva che in quel casamento abitavano soltanto otto famiglie che, a giudicare dal viavai intenso, dovevano essere famiglie numerose o, se non altro, irrequiete.
Puntuale Franca riapparve, con un vestito bianco orlato di pizzi e un’aria confusa e sorridente.
Mi venne in mente che avrei desiderato ripartire da dove eravamo rimasti, ristabilire immediatamente le posizioni di venti minuti prima, labbra contro labbra, respiro caldo e tenera delizia, ma Franca si guardò intorno con cautela, alzò gli occhi verso le finestre del casamento, mi disse di seguirla e si avviò a passo sostenuto lungo la discesa che portava alla piazza.
La inseguii, la raggiunsi, mi affiancai e tenni il passo.
Aveva al collo una borsetta di iuta e un mano un sacchetto di carta.
Attraversammo la piazza, scendemmo verso il fiume, raggiungemmo il ponte, uno splendido ponte medievale sorretto da diverse arcate irregolari - di diversa altezza e di diversa ampiezza - che gli conferivano uno strano profilo ondulato di una eleganza strepitosa ma di una funzionalità pessima, considerata la gibbosità della strada che lo percorreva.
Sullo slargo davanti all’imbocco del ponte c’era una panchina ed una fontanella.
Franca si accomodò sulla panchina, mi fece cenno di sedermi, aprì il cartoccio, vi infilò una mano e … “Voila!” estrasse trionfante un panino con la mortadella incartato in un tovagliolo giallo.
Con l’altra mano estrasse un secondo panino, lanciando un secondo “Voila!”, come un prestigiatore; fece un piccolo applauso sbattendo i panini fra di loro, me li mise sotto il naso appaiati e mi invitò a sceglierne uno.
Le presi le due mani imbottite, le allargai come ad aprire i battenti di una finestra e ci infilai la testa a cercare il morbido sapore delle sue labbra. Si mosse, incontrai con le mie labbra il suo naso, ridemmo, mi prese le guance fra i panini, mi baciò come aveva fatto sotto il portone, velocissima, delicata, dolce.
Restituii il bacio, lesto come il suo. Me lo ritornò.
Si rideva.
Fu una mitragliata di baci, dati e restituiti rapidamente. Baci superficiali, allegri, strepitosamente teneri, giocosi e gioiosi, senza pathos, senza eros, senza affanni.
Mangiammo i nostri panini, intercalando i morsi con sorsate di chinotto e bacetti odorosi di mortadella. Poi ci avviammo sul ponte, sotto la luce incerta e giallognola dei rari lampioni.
A metà del ponte, sul colmo dell’arcata, mi sedetti sul muretto, girando le spalle al fiume che gorgogliava sul largo greto. Franca si sedette accanto a me.
Ascoltammo per un po’ i rumori dell’acqua.
Ascoltammo delle voci lontane, dei richiami.
Ascoltammo i rumori delle moto che imboccavano la salita dietro l’abbazia.
Ascoltammo la brezza che saliva dal fiume, fresca e piacevole.
Ascoltammo il calore che emanava dal punto di contatto fra i nostri gomiti.
Mi accostai, cercando un contatto più esteso.
Franca scese dal muretto, mi si mise di fronte, mi abbracciò, appoggiando la guancia al mio petto.
I suoi capelli odoravano di fumo di sigaretta, riconobbi le Peer, una marca inglese diffusa fra le signorinette bene. Glielo dissi sottovoce, teneramente. Lei mi disse che il mio giubbino odorava di Clan, il tabacco da pipa che avevo in tasca, diffuso fra gli intellettualini di sinistra. Cominciammo ad annusarci ridendo: le maniche, le mani, il collo, la faccia, le ascelle, le orecchie, gli occhi, le guance, la bocca.
Ricominciò il gioco dei baci. Meno veloci, ancora incerti. Meno scherzosi e più teneri.
Si arrestò il fiume, calò la brezza, si spensero le voci e i rumori, si fermò l’universo.
Continuò il gioco dei baci, sempre più affannati, caldi, fantastici.
Venne l’ora del coprifuoco.
Tornammo allacciati, fermandoci ogni tre passi.
Cercando le ombre, gli angoli, i portoni.
Spinti dall’ora, riluttanti verso il convitto che stava per chiudere, come si ci attendesse la galera, la separazione eterna, il patibolo.
Quella notte - il giorno dopo mi attendeva un altro esame - la passai alla finestra, guardando il profilo gibboso del lungo ponte medioevale, con le labbra arrossate, la testa arroventata, il cuore in subbuglio.
Il giorno dopo, nel corridoio della scuola, una ragazza mi passò un biglietto.
Su un piccolo foglietto a quadretti c’era scritto, in stampato maiuscolo: “Scusami. Oggi arriva il mio fidanzato e resta con me fino alla fine degli esami. Ci sposiamo a settembre. Non ti dimenticherò mai…”.
In fondo al breve messaggio, al posto della firma, c’era l’impronta delle sue labbra, un bacio stampato col rossetto.
Non so cosa mi offese di più, se la mia prima cocente delusione d’amore o quello stupido modo di siglare uno stupido biglietto.

La noia

Non cerco la musica dolce
che accompagna le ore di grazia.
Non cerco il passo leggero dei giorni felici,
la luce che allarga la mente,
la forma che dentro ti dice
di prendere il mondo che è tuo.
Cerco la noia,
muta, che smorzi il frastuono,
amorfa, che asciughi il disagio.
Cerco e voglio la noia
grigia,
densa e sicura,
che possa stemperare la paura.
Cerco e voglio la noia
fitta come la nebbia,
che possa confondere, per poco,
la certezza che ho
d’essermi perso.