giovedì 13 novembre 2014

Il giovane favoloso di Mario Martone (2014)



 L’estenuante visione del film, accidenti, ha confermato i pregiudizi che mi aveva suscitato il trailer in cui mi era capitato di intravedere Elio Germano arrancare rasentando antichi muri, piegato in due e insaccato nelle sue braghette lucide,…

Nella prima parte (quella carceraria ma idilliaca) mi sono sorbito, con crescente irritazione, una carrellata confusa infarcita dei più triti luoghi comuni della biografia del poeta: il padre scorbutico, la madre arida d’affetti (O natura, o natura,…), il fratello ombra e la sorella trepidante, la procace ma cagionevole dirimpettaia Silvia, all’opre intenta; e lo studio matto e disperatissimo nella biblioteca, il greco tradotto all’impronta, il tavolinuccio accostato alla finestra aperta nelle notti di luna e la corrispondenza quasi amorosa con Giordani, cara e buona immagine paterna; e l’infelicità variamente declinata, il sarcasmo iroso, il pessimismo cosmico e le derivazioni metafisiche e non fisiche dell’infelicità, l’insofferenza per il natio borgo selvaggio e lo smarrimento nella città, con la lucida consapevolezza di essere estraneo dovunque.
Non ci è nemmeno stata risparmiata la gallina sulla via, quella che ripete il suo verso nella quiete dopo la tempesta.
E quando ho visto il povero gobbo infrattarsi nella boschetta intricata in cerca di un invalicabile cespuglio che fungesse da siepe (quella che dall’ultimo orizzonte il guardo esclude), ed ho intuito che ci si apprestava a declamare L’infinito, mi ha sopraffatto l’insofferenza (parzialmente smorzata – ad essere sincero – dallo struggente incanto del carme, ben detto da Elio Germano e ben fotografato da Martone che per fortuna ha tenuto la macchina ferma sul primo piano dell’attore e ci ha risparmiato la carrellata didascalica su gli interminati spazi).

La seconda parte poi (quella della libertà) mi è parsa ancora più indisponente e confusa: lì si assiste frastornati all’affastellarsi di viaggi e amori non corrisposti (per la seducente fiorentina Fanny Ronchivecchi Targioni Tozzetti ma forse anche per il troppo avvenente amico Ranieri); ad attese in anticamere vaticane (con lo zio bigotto); a comparsate imbarazzanti in salotti brulicanti di dame, curiose verso il malformato genio e in Gabinetti affollati da scrittori livorosi.

Nella terza parte (quella disperata) si ha un’impennata teatrale e visionaria e non ci viene risparmiato nulla: il degradante alloggiare in una fredda stamberga, come la Mimì della Bohème; le soste in incongrue taverne napoletane per sfogar la fame di vita divorando gelati; e poi ancora l’incontro allucinato con una convitata di fango che si sfarina in sabbia; un’inverosimile eruzione vulcanica; lo sfacelo del colera che imperversa; una terrificante discesa all’inferno – presagio funebre – in un felliniano postribolo sotterraneo simile all’antro fumoso della sibilla.
Il film con le sue esasperanti contorsioni sembra non finire mai. Procede a balzi e intoppi, accelera, singhiozza, rallenta, scarta, si attorciglia. E quando arriva la conclusione, il botto finale è dato dall’indigeribile lettura della potente ma contortissima Ginestra.

Elio Germano sguazza nella sua parte come un dustinhoffman de noantri, pensando al prossimo trofeo; riesce però a rendere con una certa efficacia l’acido sarcasmo che divorava il povero Leopardi (da non confondere con il pessimismo citato in tutti i bigini).  Martone dimostra di aver studiato molto ma gigioneggia di riflesso, pensando forse ai passaggi televisivi o al bookshop della Casa Leopardi (che dall’1 ottobre, guarda caso, aumenta le tariffe del 30%). Le musiche giocano di contropiede e scompigliano le carte accostando elettronica e Rossini.
La sala era piena di studenti, a sacrificare una sera per qualche credito in più.





Pasolini, di Abel Ferrara (2013)



Dopo aver maldigerito il film di Martone su Leopardi, mi ero ripromesso di non vedere un altro biopic.
Ma quando è uscito nelle sale il film di Abel Ferrara su Pasolini, le riluttanze sono durate l'espace d'un matin. Forte ancora dura l’interesse nei confronti di Pasolini, un provocatore di mestiere che, a suo tempo, aveva suscitato una certa inquieta attrazione in quelli della mia insoddisfatta generazione (e in me aveva fatto nascere un’indefinibile circospetta devozione); e acuta era la curiosità di vedere come avesse svolto il compito Abel Ferrara, un regista che pare presenti molte affinità col poeta friulano, nella biografia complicata e nelle opere eccessive.
Ho dunque visto il film, e ne sono uscito - come dire - perplesso.
L’opera appare disomogenea e – nella sua disorganicità – presenta alcuni aspetti suggestivi e altri indigesti.

La prima cosa che mi viene da dire è che il regista americano ha tenuto, per fortuna, un profilo basso, non si è lasciato sfuggire piazzate autoriali e non ha ceduto alla tentazione di beatificare, riscrivere la storia, rivelare verità, sposare tesi, spiegare misteri. E non ha nemmeno strafatto (come suo solito) per stupire o suscitare scandali. Ha semplicemente raccontato l’ultimo giorno di vita di PPP: il risveglio nella cameretta della casa dell’amatissima madre, il pranzo in famiglia e la cena in trattoria, la scrittura, la visita dell’amica (Laura Betti, esagerata di per sé, qui esasperata fino alla caricatura da Maria De Medeiros); e poi la partita di calcio in uno spiazzo fra i condomini della periferia degradata, le telefonate, l’intervista per un quotidiano, …
La cronaca di una giornata che avrebbe potuto essere banale è inframmezzata da alcuni stralci tratti da un film in fase di montaggio (mostrando il regista mentre visiona spezzoni di Salò o 120 giornate di Sodoma); da sequenze ricavate da brani di Petrolio, l’ultimo romanzo incompiuto; da scene desunte da Porno-Teo-Kolossal, il copione appena terminato di un film (che avrebbe dovuto essere realizzato con la partecipazione di Eduardo De Filippo e Ninetto Davoli).

Ecco. Appunto questi inserti non mi hanno convinto.
Sono frammentari, slegati, pretestuosi, sicuramente incomprensibili e inefficaci per chi (Ferrara in primis?) non conosce a fondo Pasolini.
Possono essere letti come una confusa scaletta di lavoro, appunti, idee, dichiarazione d’intenti, capitoli di progetti monchi, paragrafi di un testamento.
Ma non raccontano l’essenziale.
Se l’obiettivo degli autori era, presentando questa macedonia, di rivalutare il multiforme ingegno di PPP, il film è inefficace: gli spezzoni decontestualizzati sottolineano solo l’anticonformismo e il fervore dissacratorio, ma dicono poco – e lo dicono confusamente – della ferocia intellettuale, del lucido disincanto e del disperato nichilismo di Pier Paolo, che liquida le ideologie del secolo breve con una icastica esclamazione (“La cometa era ‘na stronzata”) messa in bocca a Davoli a conclusione di Porno-Teo-Kolossal, qui riportata solo in chiusura e non sufficientemente sottolineata.
Se invece l’intento di Ferrara era quello - modesto e poco originale - di presentare la debolezza dell’uomo più che l’anticonformismo dell’intellettuale, il film si può dire riuscito (anche se Defoe, spigoloso nei tratti e nel carattere, è algido, distaccato, scostante; e non suscita empatie).
Il sapore truce degli inserti, in altri termini, restituisce con una certa efficacia la fragilità emotiva del poeta, la sua randagia esuberanza, il dissidio fra il giorno e la notte, la desolata solitudine.  E la loro sconnessa visionarietà ben rappresenta il sobbollire dell’inconscio, il caos degli incubi e il fervore febbrile della creatività.
Niente altro.
Ma da Ferrara ci si poteva aspettare qualcosa di più.
Non doveva sprecare la preziosa opportunità di presentarci finalmente la figura di un rigorosissimo intellettuale, lucidissimo conoscitore della decadenza nella quale ci perdiamo, prescindendo dai suoi orientamenti sessuali attorno ai quali grufolano da decenni tutti quelli che, nel bene o nel male, parlano di Pasolini.



PS

Il film di Abel Ferrara ha riaperto il dibattito su Pasolini. Un dibattito confuso, che resterà vivo per poco, e sarà riassorbito presto, inghiottito per l'arrivo di altre colate, spazzato via da altri refoli.
Nella recensione non ho avuto modo di esprimere la mia opinione, affettuosa, sul suo ruolo di intellettuale, sul suo anticonformismo, sulla sua attualità, ...
Ecco.
Quel che penso l'ho scritto qualche anno fa in una lettera ad un amico che mi sollecitava.
Mi cito addosso ....

Pasolini - nonostante l’ostracismo della chiesa e dei comunisti, il tentativo di esclusione della classe politica e della borghesia e la paternalistica accondiscendenza della cultura alta - aveva raggiunto un enorme successo come poeta (prima dialettale e poi in lingua italiana), come romanziere, come autore teatrale e sceneggiatore, come critico letterario ed infine come regista. Ma il suo poliedrico, eclettico (ed anche un po’ frenetico) attivismo culturale, accanto alla sua diversità ed al suo indubitabile anticonformismo, lo rendevano funzionale ad una società sensibile ai movimenti antiautoritari degli anni Settanta, all’anarchismo eversivo, alla simpatia per le rivoluzioni. E lo rendevano anche "di moda".
Oggi sarebbe fuori luogo. E - cambiato il contesto - sarebbe diverso anche lui.

I media si erano tuffati su di lui e lo avevano adottato, quasi addomesticato (in quegli anni Mario Apollonio, parlando d'altro, sosteneva che la chiesa era capace di far parlar latino anche i bestemmiatori). Pasolini era - suo malgrado - un buon segnavento, garantiva audience, dava una patente di libertario a chi lo invitava, scavalcava a sinistra la sinistra, smascherava le ipocrisia dei progressisti.
MA le sue prese di posizione anticonformiste erano musica per le orecchie degli anticonformisti di professione (che sono più conformisti dei conformisti).

Pasolini inoltre - pur di andare contro corrente, consapevole della strumentalizzazione di cui era vittima - prendeva posizione contro tutti guadagnandosi, di volta in volta, le simpatie dei radicali e dei frati di Assisi, dei maoisti e dei poliziotti, dei critici letterari e dei lumpenproletari borgatari, dei funzionari Rai e degli intellettuali espulsi dalla televisione,... Piaceva a tutti e dava fastidio a tutti. Era diventato forse, in sintesi, un rompicoglioni sostanzialmente innocuo. Io non credo che la sua morte sia la conseguenza di un complotto politico-economico-mafioso. Non so...



venerdì 6 giugno 2014

Lei (Her) di Spike Jonze, 2013



Il film sviluppa un’idea non del tutto originale (la filmografia sul rapporto uomo-macchina è sterminata) ma lo fa con una sceneggiatura ben congegnata, che regge nonostante alcune pesantezze nei dialoghi.

Theodore (Joaquin Phoenix) lavora in un’azienda che predispone mielate lettere d’amore su richiesta e su misura dei singoli committenti, e lo fa acquisendo poche informazioni essenziali per calarsi con grande sensibilità nei panni dei suoi “clienti”.
La sua empatia è eccezionale e la capacità di trovare le espressioni più efficaci è straordinaria se si tiene conto che l’azione si svolge in un prossimo futuro ipertecnologico (molto probabile e simile al nostro) nel quale, considerate le infinite opportunità comunicative non verbali, una lettera sentimentale non può essere altro che un vezzo di alto valore poetico ma di scarsa utilità pratica.

Da buon venditore di parole (surrogati della fisicità), è solo: sentimentalmente parlando, è separato e vive in una fase di transizione, sospeso fra emozioni perdute, velleità indefinite, esitazioni irrisolte.
E dunque acquista per sé un’interlocutrice virtuale inserita in un sistema operativo, una partner artificiale dialogante, ovviamente programmata sui suoi bisogni, che si muove un po’ come fa lui con i suoi clienti afasici, tentando di immedesimarsi in loro per meglio interpretarli.

Le manovre dei due personaggi sono complesse e ondivaghe.
Samantha OS1 (questo è il nome che la nuova “fidanzata” ha scelto per sé) comunica con Theodore (con la voce di Scarlett Johansson in inglese e con quella roca di Micaela Ramazzotti in italiano) dopo averlo ben inquadrato, misurandosi con la sua complessa personalità e tenendo conto anche della sua voglia di imbozzolarsi, della sua sterile verbosità, delle sue fantasie erotiche, esplicite o sottaciute.
Theodore, che si era messo in stand-by sul piano sentimentale per evitare delusioni e frustrazioni e si era allontanato dalla sua “umanità” per rifugiarsi nella tecnologia, compie un’inversione a U, s’imbarca in una storia d’amore (che crede di poter controllare). Le conversazioni diuturne, empatiche come da contratto, fanno nascere in Lui una simpatia, un principio d’innamoramento, un’infatuazione progressiva, un’affezione amorosa, ovviamente assecondata dalla femme servante. Lo vediamo abbandonarsi alla deriva dei sentimenti con le sue sensibilità (molto femminili) e con tutta la carica emozionale che gli ricresce dentro naturale e propria dell’uomo, quindi illogica.

Samantha-OS1 compie il percorso inverso. Da vera “macchina” programmata per essere specchio, emanazione e amplificazione dei bisogni sentimentali di Theodore, si comporta con la piaggeria imposta dalle regole d’ingaggio (come fosse una puttana), asseconda il padrone disorientato (ripetendogli continuamente “As you like it”)  e – dopo “averlo imparato” – risponde come suggerisce la sua sapienza psicologica. Ma poi, procedendo con la sistematica fame esperienziale di chi è pianificato per crescere accumulando dati, si arricchisce (?) progressivamente di connotazioni antropiche (proprio – tutti i cinefili lo ricorderanno – come il N.° 5 in Corto circuito di John Badham, del 1986, col suo ossessivo “Necessito imput!”) e gradatamente si umanizza, senza però appesantirsi delle consustanziali zavorre morali o sentimentali proprie di noi mortali. E diventa infine “donna”, cioè “domina”.

In sintesi: Theodore, il maschio, prima sceglie e dispone, poi regredisce e perde indipendenza; Samantha, emblematicamente femmina, prima ascolta e asseconda, prende ordini e dipende, conversa con irreale tenerezza, lavora per lui; poi progredisce irrefrenabile, si emancipa, prende iniziative, lo sostituisce, comanda.
Significativa la scena nella quale Theodore, in mezzo ai passanti sbigottiti, gira “come fosse una trottola” su comando di Samanta; e quasi tragicomica appare un’altra scena, quella di un ansimantissimo orgasmo a conclusione di un amplesso richiesto da lei (con lui che si chiede perplesso la ragione degli inutili sospiri).

Ovviamente, col passare del tempo, il crescente distacco fra i bisogni primordiali dell’uomo (di controllo totale e dominio geloso) e le mansioni evolute della macchina emancipata entrano in rotta di collisione e la frattura diventa inevitabile e incolmabile.
Il processo di deumanizzazione iniziato da Theodore (caratterizzato da dipendenza da gadget tecnologici, robotica domestica, wireless a gogò, videogiochi inglobanti l’avatar e sesso virtuale) evapora di fronte ai più primitivi impulsi dettati dai fantasmi della gelosia, dalla sindrome di abbandono, dallo smarrimento.  L’uomo ridiventa uomo vulnerabile, un povero Cristo nato per soffrire.
Samantha, ideata come strumento della guarigione, inizia a ferire.
Nemmeno tutta la sua sapienza psicologica (accumulata per “essere”) riesce a frenare la deriva di colui per il quale esiste.

Ancora una volta l’inappagato maschio, impossibile da soddisfare (o incapace di suo di trovare completezza), sempre incontentabile e lanciato alla ricerca del “possesso” esclusivo ed escludente (“O sei mia o non sei mia”), si ritrova davanti un essere irraggiungibile. Samantha è sempre lì, vicina – certamente – ma sta eseguendo un suo aggiornamento, pensa ad altro, è con la testa altrove, interattiva anche con altri, inclusiva (“Sono tua e non sono tua”), omnicomprensiva, omnivora, in altre faccende affaccendata.

E il cerchio si chiude nel più prevedibile dei modi.
Jonze – a ben vedere – ci racconta un’assurda (cioè ordinaria) storia d’amore (cioè di solitudine).
Una storia che, in più, veicola un messaggio infinitamente triste, sostenendo (non so quanto gli autori siano di questo consapevoli)  che l’uomo non troverà mai l’appagamento, nemmeno in una donna fatta su misura, incarnazione dei suoi desideri. Forse perché è più forte in lui la necessità di inseguire le proprie ossessioni rispetto al bisogno di trastullarsi in faticosi idilli e gestire emozioni reali.

---

Fitti (quasi disorientanti) i dialoghi, anche se nella fase conclusiva debordano e presentano lungaggini, esitazioni e sfilacciamenti.
Lo sfondo è blade-runneriano (anche se molto pulito, diluito e ricolorato con tinte pastello, un po’ fasulle): forse a significare che anche qui il virtuale mangia il biologico, oppure che i rapporti umani (con i relativi sentimenti) sono destinati a polverizzarsi; ma anche a ribadire che l’uomo, per quanto apocalittico o utopico sia il suo futuro, sempre omuncolo rimane.  
Bello lo skyline con grattacieli neri dalle finestre illuminate ma vuote.
Joaquin Phoenix giganteggia (se non altro perché fa tutto da solo) triste coi suoi occhi verdi e goffo nei suoi inverosimili calzoni ascellari.








Bambini del cielo di Majid Majidi (Iran 1997)


Ali, un ragazzino di una decina di anni che vive in un povero quartiere della metropoli iraniana, passa dal calzolaio a ritirare le scarpette della sorellina Zohre – le uniche che la piccola possiede – e tornando a casa le dimentica sui banchi del fruttivendolo. Quando se ne accorge è troppo tardi: un robivecchi è passato e le ha caricate sul carretto insieme a mille altre cianfrusaglie.
Inizia un complicatissimo balletto fra i due fratellini che vogliono nascondere la cosa in famiglia per non dare dispiaceri e preoccupazioni alla madre (che è di salute malferma e deve badare a una neonata) e, soprattutto, per non incorrere nelle furie dell'irascibile padre che - non guadagnando abbastanza per mantenere la famiglia, pagare l’affitto e garantire le cure alla moglie - non è certo in grado di comperare un paio di scarpe nuove a Zohre.
Facilitati dal fatto che le scarpe, in Iran, restano fuori dalla soglia di casa, i due piccoli riescono a farla franca; avendo poi orari di scuola diversi (i maschi e le femmine, per motivi logistici oltre che religiosi, si avvicendano nel piccolo edificio scolastico) trovano il sistema, per frequentare le lezioni, di condividere le scalcinate simil-Superga di Ali scambiandosele – scarpe vs ciabatte – in un vicolo defilato a metà del percorso casa-scuola.

Le condizioni di vita dei poveri quartieri della città, in stridente contrasto con l’ostentata opulenza dei ricchi residenti nei quartieri alti (larvatamente denunciata dal regista, che non è fra quelli messi “all’indice” dal regime integralista di Teheran), ricordano molto quelle della nostra piccola Italia degli anni Cinquanta. Non a caso questo film del 1997 richiama alla mente le atmosfere del cinema neorealista di Zavattini e De Sica (in particolare Ladri di biciclette).
Analogie affiorano nell’ambientazione proletaria e nella predilezione minimalista per la quotidianità, nella presa diretta della realtà e nella visione pessimistica, nel ruolo protagonista dei bambini (dalla cui altezza si osserva l’assurda società adulta) e nell’uso di attori presi dalla strada, nell’inserimento di intensi primi piani per esprimere stati d’animo e perfino nell’uso “partecipante” della camera.

Il film è lieve, garbato, delizioso, confortante.
Da vedere, come pausa fra la visione di film che rappresentano le quotidianità complicate e le prospettive catastrofiche della nostra civiltà.