giovedì 28 gennaio 2010

1960-1963: MICROCOSMI (6) – Rientro nella nebbia

...
Quella sera il viaggio di ritorno si collocò fuori dal tempo e dallo spazio.
Col buio era calata improvvisa una fittissima nebbia.
La corriera si era districata con fatica fra le strade male illuminate della città e, superate le ultime case della periferia, era penetrata in un mare di ovatta sporca e avanzava incerta galleggiando nel nulla.
Una lunga colonna di automobilisti si era incollata dietro di noi per farsi guidare nella caligine che diventava sempre più densa. L’autista, investito dalla responsabilità di capofila, ci aveva chiesto di stare seduti e zitti, aveva spento tutte le luci interne per non farsi infastidire dai riflessi, aveva asciugato con cura i vetri appannati, aveva tirato avanti il sedile e ora guidava con la faccia incollata al parabrezza tenendo d’occhio sia la riga sulla mezzeria a sinistra, sia i riflessi dei catarifrangenti sui paracarri a destra.
Le auto seguivano lente, a velocità costante, in fila serrata, legate una con l’altra dalle sfere di luce sfuocata emesse dai fari. Il corteo che si snodava nella notte sembrava una processione notturna, un treno nelle tenebre, un lungo bruco a strisce bianche e grigie, un serpente di luci che scivolava nel silenzio, un drago che nell’incedere bucava la bruma e la sollevava in sbuffi lenti di vapore.
I pendolari se ne stavano tutti rannicchiati nei loro sedili, infagottati nei loro cappotti, assorti nei loro pensieri a covare la stanchezza.
Il silenzio assoluto, sopra il ronzio del motore diesel che faceva da sottofondo, era rotto solo da qualche colpo di tosse.
Ero seduto sullo sgabello a scomparsa accanto all’autista. Guardavo la strada come se la mia attenzione potesse aiutarlo. E fissando un punto preciso nella nebbia, diluivo l’ansia, annegavo il tumulto che avevo nel cuore, disperdevo i mille sbriciolati pensieri che mi ronzavano in testa.
Nei vapori della notte non si capiva dove fossimo e quanta strada ci restasse da percorrere. Io pure, per mio conto, non sapevo dove fossi, quanta strada mi restasse da fare, quale strada, e nemmeno sapevo dove sarei arrivato.

1960-1963: MICROCOSMI (5) – Un’estate al mare

Sfruttando il potere di attrazione che derivava dalla nostra condizione di studenti, ci eravamo infiltrati in un gruppo di studentesse piacentine che alla sera – ogni sera – si ritrovavano con gli amici davanti al portale di una chiesetta romanica.
Nel gruppo vi erano due ragazze ed un ragazzo poliomielitico che erano stati scritturati per recitare in un film dall’esordiente Marco Bellocchio, loro concittadino, che, nonostante la giovane età, cominciava a godere di una certa considerazione e di una discreta fama. Tutti i ragazzi della compagnia, che esibivano abbigliamenti borghesi e atteggiamenti anticonformisti, amavano incondizionatamente il Marco, fieri di questa “concittadinanza d’onore”, e si sentivano per questo molto intellettuali. I genitori dei ragazzi della compagnia guardavano con benevola curiosità e con esitante perplessità il proclamato anticonformismo dei figli, e si sentivano molto liberali, in perfetta armonia con la cultura borghese della quale si sentivano i rappresentanti.

Le conversazioni erano sempre leggere, anche quando venivano affrontati i temi tragici dell’essere e del divenire. L’eversione esistenziale e quella politica erano molto celebrate e poco praticate. Le dinamiche relazionali erano spruzzate da incerte espansioni affettuose che si traducevano in corteggiamenti leggeri e flirt variabili; e questo intrecciarsi d’amorosi sensi rendeva dolce il frequentarsi e indissolubile la brigata. In questo brodo instabile, chi voleva, poteva individuare l’anima gemella, accorciare le distanze, studiare strategie di avvicinamento, fare delle prove, tentare approcci, ritirarsi senza scorno e riaprire le danze, oppure accelerare, creare la coppia e allontanarsi dal gregge.

Mi trovai a scherzare con Carla, una delle due “attrici” che per una certa avvenenza se la tirava: aveva sempre un’espressione diffidente e scostante e teneva un po’ tutti a distanza. Dopo un casto incontro ravvicinato, non incoraggiato ma neanche troppo respinto, ristabilii io le giuste distanze, sconcertato da un insospettabile e sgradevole alitosi che neanche il fumo delle sue sigarette al mentolo riusciva a compensare.
Una sera fui scherzosamente insidiato da Marisa, una piaciosa cicciotella amica di tutti e filata da nessuno, che utilizzava la sua condizione di non-accoppiabile per tenere coesa e allegra la compagnia. Stetti al gioco e recitai la mia parte con tanta convinzione che ad un certo punto il nostro idillio divenne il fulcro della serata.
Il giorno dopo, tramite posta (in busta con francobollo timbrato!), mi giunse una sua lunghissima lettera che mi mise addosso una certa inquietudine: le dichiarazioni di amore eterno, espresse con grafia arrotondata, erano un po’ esagerate ma non mi parevano allegre e spensierate come i leggeri e maldestri approcci della sera prima, recitati con una certa teatralità fra i tavolini del bar; in certi tratti mi parevano proprio sincere, genuine, dettate dal cuore, perfino troppo sincere, troppo dettate dal cuore, e anche un po’ cariche di emotività, appassionate, focose, enfatiche, sproporzionate, quasi isteriche. Sospettai uno scherzo, mi immaginai che la lettera fosse frutto di una congiura collettiva e l’inizio di un tormentone estivo giocato sul filo della più ridanciana goliardia. Ma alcuni segnali avvertiti la sera prima al momento della buonanotte e la chiusura della lettera, particolarmente intensa e carica, mi fecero sospettare e temere la “cotta calda”, l’inizio impulsivo di un innamoramento esaltato e sfrenato. Sperai che fossero in parte il frutto dell’insonnia che deforma la realtà; sperai di poterle rintuzzare, nonostante la loro eccitata perentorietà.
La sera arrivai al bar con la solita aria vagamente svagata che costituiva la mia maschera stagionale, salutai tutti con la consueta cordialità, risposi ai lazzi salaci (tra noi usavamo, come segno di profonda amicizia, scarnificarci con battute acide), stuzzicai Marisa con nonchalance, mi intromisi con una arguzia più eccitata del solito nella discussione in corso.
Marisa se ne stava in disparte taciturna e imbronciata; la conversazione andava per le lunghe; era troppo tardi per andare al cinema; decidemmo di fare una passeggiata fino al ponte sul torrente, attraversando le strade del centro, strette e male illuminate. Mi trovai Marisa alle calcagna, adorante e indagatrice. Io mi facevo vigliaccamente scudo del folto della comitiva.
Per due sere la scena si ripeté quasi identica, con le variazioni che mi suggeriva la fantasia. Per due sere Marisa fece vistosamente trapelare il suo desolato sconcerto ma non trovò il coraggio di chiedermi o parlarmi della lettera. Per due sere io mi comportai come se la lettera non fosse arrivata.
Marisa non seppe né affrontare il discorso, né farmi capire in altri modi la sua esondante passione. Mi sentivo un verme quando, passeggiando lungo il corso, me la vedevo camminare davanti nei suoi troppo attillati calzoni, forse ancora piena di rammarico per un amore mai nato, forse pentita della sua precipitosa, improvvida e fatua infatuazione.

lunedì 25 gennaio 2010

IL GIORNO DELLA MEMORIA

Nel giorno della memoria non voglio pensare a quei poveri ebrei ammazzati che nella primavera del ’45 – alla fine di tutto – hanno ricevuto la pietà di qualcuno.
Non voglio pensare a quelli che, massacrati, non sono stati comunque completamente cancellati dalla memoria del mondo ma sono vissuti per qualche tempo nel ricordo di fratelli o sorelle, figli o genitori, coniugi o fidanzate, amici o vicini di casa, compagni di scuola o di lavoro.
Non voglio ricordare le vittime che per un po’ di tempo, tanto o poco, hanno avuto in qualche modo chi ha potuto parlare di loro, leggere le loro lettere o i loro diari, guardare le loro fotografie, riordinare i loro oggetti e ricordare la loro infanzia oltre che la loro disumana fine. E non voglio nemmeno ricordare, infine, quelli che per qualche ragione erano noti prima di essere internati e sono stati poi commemorati, onorati, pubblicati, celebrati, beatificati.

Voglio invece ricordare quelli che sono stati inghiottiti dal nulla, quelli che sono scomparsi insieme a tutte le persone che li amavano, quelli cancellati dalla terra insieme alla loro casa e al loro villaggio, quelli che nessuno ha pianto mai perché chi li poteva piangere è stato con loro eliminato.
Voglio ricordare i vecchi soli, i calzolai senza moglie e figli, i contadini eliminati con tutta la loro famiglia, gli insegnanti che non hanno lasciato una riga scritta, gli studenti spariti insieme ai loro privati diari, gli orologiai o i fabbri senza nome, gli zingari ed i falegnami senza patria, gli operai dei quali non è rimasta traccia, le donne morte in silenzio e nel silenzio dissolte, gli omosessuali svaniti nella vergogna, i ladri e le puttane emarginati e cancellati dalla terra prima di essere annientati nei forni.
Sol chi non lascia eredità d’affetti poca pace ha dell’urna.
Io riservo il mio pensiero e la mia commiserazione a chi ha avuto illacrimata sepoltura. E ricordo e piango oggi quel povero cristo che, vedendosi morire, sapeva già che nessuno mai lo avrebbe pianto o ricordato.

domenica 24 gennaio 2010

Lettere da Ivo Jima di Clint Eastwood (2006)

Film asciutto, efficace, pulito, essenziale: ancora una volta Eastwood si dimostra capace di raccontare la guerra senza retoriche, di celebrare la pace senza proclami antimilitaristi e senza appelli alla fratellanza, di trattare emozioni evitando banalità, di mandare messaggi forti con voce sommessa.
Particolare e coraggiosa è prima di tutto l’idea di porsi dal punto di vista del “nemico” e di rimarcare questa prospettiva facendo recitare gli attori in giapponese, coi sottotitoli.
Straordinario poi è l’equilibrio che Eastwood mette nel descrivere con uguale compassione il furore del fanatico e la paura del disertore, lo spirito di “immolazione” e l’istinto di sopravvivenza; e straordinario è il senso della misura che gli consente, senza incoerenza, di assegnare uguale dignità al senso dell’onore e all’orrore, di rappresentare con pari efficacia la voglia di morire e quella di vivere; di alternare scene di ferocia cruda con scene di struggente tenerezza; di trovare efficacia nel suscitare pietà senza cadere nel pietismo. Eastwood abbraccia con identico affetto e con sincerità le certezze del grande generale e le incertezze del piccolo fornaio, rispetta la scelta di morire del primo e la tenace voglia di tornare a casa del secondo.
Ci dice che la dignità, come del resto la stupidità, non ha bandiere; che è “onorevole” fare quello che detta la coscienza o il cuore, con tutte le sue contraddizioni; che negli occhi di un nemico è possibile specchiarsi; che le donne sanno veder più vicino ma anche più lontano …
La sceneggiatura è scarna, la regia è accurata ma non invadente, i colori denaturati creano atmosfere livide, l’ambientazione è angosciante, gli esterni (sull’arida isola) sono inquietanti, gli interni (nelle caverne e nei camminamenti) sono oppressivi e claustrofobici ed evocano nello stesso tempo la sepoltura e, nella loro provvisoria sicurezza, la protezione del ventre materno.
L’orgoglio nipponico in quegli antri è compresso, dolente, soffocato, tragico. Nulla è più desolante e disperato del “banzai” che vi echeggia, l’urlo di guerra e di morte che i soldati – morti che camminano – lanciano prima di morire, dopo aver ripiegato nello zaino la loro ultima lettera a casa, piena di nostalgia, di tenerezza e di rimpianti.

venerdì 22 gennaio 2010

1960-1963: MICROCOSMI (4) – La giornata di uno scrutatore

La mia giornata era scandita da una routine monotona: sveglia alle sei e mezzo, corriera, giretto in città in attesa delle otto, lezioni, ritorno a casa, pranzo, mezz’oretta al bar, studio in camera, cena, un’oretta al bar, notte.
La scuola e lo studio occupavano gran parte della giornata, ma non erano le occupazioni più importanti. Erano semplicemente le cose che dovevano essere fatte; erano il compito da espletare sistematicamente, giorno per giorno, con l’impegno al quale ero stato addestrato, con il senso etico che mi era stato inculcato.
Più importanti per me erano invece le attività che potevo liberamente fare nei momenti marginali, nei ritagli di tempo, nelle ore che accantonavo per me dopo il dovere. Attività che realizzavano in pieno il sogno di evasione, che rispondevano alla mia esplosa voglia di fuga e allontanamento e si concretizzavano sostanzialmente in due azioni estremamente e felicemente dispersive: il girovagare senza meta e il leggere disordinatamente.
Il girovagare ed il leggere erano il contrappeso ed il compenso alla costrizione fisica e alla coercizione psicologica della vita di studente. Andando a zonzo liberavo il corpo; leggendo alla rinfusa tutti i libri che attiravano anche per un solo istante la mia curiosità liberavo la mente.
Le mie giornate erano fin troppo, prima di allora, regolate da orari e campanelle, scandite da ritmi sempre uguali, disciplinate da ordini, totalmente occupate da obblighi e doveri; per troppo tempo la mia vita era stata regolamentata e standardizzata, uniformata a quella di chi mi circondava.
Per troppo tempo i libri a mia disposizione erano stati selezionati e limitati, la mia fantasia era stata incanalata, la mia immaginazione era stata nutrita da miscele preconfezionate e la mia testa era stata imbottita da una combinazione di dottrine esemplari e nobili ideali, concetti dogmatici e modelli edificanti, pensieri santi e archetipi di perfezione.
Avevo vissuto in un bacino artificiale senza sbocchi e senza correnti, incanalato, normalizzato, arginato.
Ora, ed era l’età giusta, potevo uscire senza chiedere permessi, andare a zonzo senza limitazioni, improvvisare tragitti senza una destinazione definita; potevo percorrere strade, attraversare piazze, tornare sui miei passi, svoltare agli incroci, perlustrare isolati, entrare nei portoni aperti ed ispezionare cortili, sedermi sotto tutti gli alberi, bere a tutte le fontane.
Potevo andare in biblioteca, esplorare i cataloghi per autori o per titoli di opere o per argomenti e lasciarmi attrarre da un nome, consultare decine di opere, prendere in visione dei libri solo per sbirciarli e restituirli, prendere in prestito tre volumi per volta, portarmeli a casa, leggerne alcune pagine sparse alla ricerca di non so che o divorarli dalla prima all’ultima pagina.
Potevo con pochi soldi acquistare i piccoli libretti della BUR o permettermi l’acquisto dei primi Oscar Mondatori a 350 lire, dei primi tascabili Bompiani, dei primi Feltrinelli.
Potevo prendere un autobus, arrivare al capolinea, gironzolare a vuoto fra gli ultimi palazzi della periferia, percorrendo la linea di demarcazione fra il cemento ed il verde, esplorando gli orti che ancora resistevano all’avanzata delle scavatrici.
Potevo andare a rovistare sulle bancarelle dei libri usati e, in mezzo a cascami dell’editoria e a carrettate di squallide pubblicazioni, scovare a poche lire dei testi curiosi, romanzi introvabili, prime edizioni di libri famosi. Il libraio mi lasciava svuotare gli scatoloni pieni di libri. (Li recuperava – mo disse – sgombrando cantine e solai o acquistando intere biblioteche da vedove illetterate di professionisti, da avvocati in disarmo o da professori in pensione, da discendenti lontani di casate nobili in via di estinzione, da nipoti analfabeti di vecchi parroci, da irriconoscenti eredi di stimati studiosi,...).
Nei miei giri di esplorazione scoprivo palazzi grandiosi affacciati su vicoli lerci e trasformati in alveari con microabitazioni ricavate da saloni affrescati; scale nobili ingombre di masserizie, giardini barocchi occupati da casotti utilizzati come garage o come depositi di materiale edile, osterie incassate sotto il livello stradale con volte sostenute da colonne scanalate, affreschi trecenteschi martellati e male intonacati sotto portici puzzolenti, stamberghe che conservavano i segni labili della loro eleganza originaria, chiesette romaniche occupate da falegnamerie,…
Nelle mie perlustrazioni letterarie incontrai ed amai con disordinata passione Dostoevskij, Camus, Kerouac, Nietzsche, Balzac, Svevo, Pirandello, Brecht, Kafka, Calvino e Pavese, Hemingway, Ionesco e Bekett, Genet, Vittorini e Buzzati, Arpino, Céline, Borges, Faulkner, Llosa, Proust, Bulgakov e Pasternak, Sciascia e Gadda, Mailer, Levi, Fenoglio, Morante e Moravia, Pasolini e Pratolini, Dos Passos, Malerba, Gramsci, Steinbeck, Mauriac, Tolstoj, Silone, Sartre, Tomasi di Lampedusa, Bassani e Cassola, Natalia Ginzburg, Chiara, Flaubert, Manganelli, De Foe, Bacchelli, Nabokov, Queneau, Jarry e Artaud, Feuerbach, Breton, Malraux, Majakovskij, Musil, Dickens, Melville, Marquez.
Girovagavo di giorno, condotto dalla casualità, dalla improvvisazione, dall’estro momentaneo: qualche volta mi incamminavo dietro una bella ragazza e la seguivo a debita distanza, senza secondi fini, per vedere dove mi conduceva; altre volte, con la stessa curiosità, seguivo il carretto di un fruttivendolo o il passo strascicato di un vecchio.
Leggevo di notte, dopo essermi preparato tre o quattro libri sul comodino: qualche volta il libro che aprivo mi assorbiva totalmente e mi impregnava la notte; altre volte nessuno dei libri preparati aveva la capacità di prendermi e di portarmi da qualche parte: li sfogliavo allora, alternandoli casualmente, saltando le pagine alla ricerca dell’amo giusto, leggendo qua e là nella speranza di trovare fra le righe il boccone che mi ingolosisse.
Di giorno osservavo la gente con la stessa curiosità con cui contemplavo i libri esposti nelle librerie. Fra gli scaffali mi lasciavo sedurre da alcuni libri che più di altri sapevano lanciarmi irresistibili ed indecifrabili richiami con il titolo, la forma, il colore, la grafica. Per strada mi lasciavo incuriosire da “esemplari” che più di altri sapevano stregarmi con i segnali più vari che potevano scaturire dall’andatura, dall’abbigliamento, dallo sguardo.
Avrei voluto sfogliare alcune di queste persone con la stessa facilità con cui sfogliavo i libri. Seguendo una delle mie casuali prede, permettevo che si affollassero nella mia mente le mille domande di una improbabile intervista. E con la fantasia facevo seguire all’intervista una serrata indagine che ricostruisse nei dettagli l’intera personalità del soggetto: la storia presente e quella passata, l’infanzia e gli amori, il lavoro e le amicizie, i sogni e le delusioni.
Di notte trovavo nei libri le storie che non avevo potuto estrarre dalla realtà.

giovedì 21 gennaio 2010

L'amore è più freddo della morte di Fassbinder (1969)

La trama è imprecisa e incoerente, lo sviluppo degli eventi è confuso e sconnesso, il tratteggio dei personaggi è abbozzato ed approssimativo, alcuni passaggi appaiono incomprensibili, la recitazione è grezza ed innaturale, le espressioni sono fisse e atone, la gestualità sembra più teatrale (nel senso pessimo del termine) che cinematografica, il colore è scialbo (con sfocature e sovraesposizioni), la tecnica di ripresa è dilettantesca (con movimenti di macchina traballanti e disorientanti).
Ma a Fassbinder non interessa né la coerenza narrativa né la cura formale. Vuole solo ricreare con la massima efficacia possibile il senso di vuoto e di inutilità, la disperazione, la passività, l’ansia, l’indifferenza, l’angoscia, l’incomunicabilità, il senso di oppressione, il pessimismo, l’estraneità, il disorientamento.
E l’apparente dilettantismo serve proprio a questo. La trama pasticciata aumenta lo smarrimento, la recitazione inespressiva determina una sensazione di sgradevolezza, la sovresposizione è agghiacciante, le inquadrature e i movimenti di macchina disorientano.
Il film è pervaso dal gelo: tutto, non solo l’amore, è più freddo della morte.
L’attore Fassbinder compie gesti di morte e abbozza gesti d’amore con la stessa amara indifferenza. Il regista Fassbinder con la stessa amara indifferenza costruisce il suo film.

mercoledì 20 gennaio 2010

1960-1963: MICROCOSMI (3) – La scrittura

Sui banchi nacque il gusto per la scrittura.
Tenevo un diario quasi quotidiano (rigorosamente segreto): uno zibaldone pieno di dissonanti sfoghi, considerazioni, idee, spunti, brani, pezzi poetici, bozze, lettere non spedite, riflessioni, frammenti, pensieri, meditazioni, parodie, … Riempivo quaderni interi di citazioni memorabili, proverbi, aforismi, recensioni, considerazioni di critica letteraria, novelle scopiazzate, racconti umoristici, poesie petrarcheggianti o leopardiane
Le uniche occasioni per farmi leggere erano quelle canoniche, date dai temi ; gli unici miei lettori erano i professori. Incoraggiato dalle lusinghiere valutazioni assegnate ai miei componimenti di letteratura, cominciai a sbilanciarmi anche su altri temi. Se i titoli proposti non erano abbastanza stuzzicanti, ricorrevo a piccole forzature. Il professore annotava: “fuori tema, ma la lettura piacevole, la fantasia dimostrata, la correttezza ortografica e sintattica, rendono lo svolgimento più che sufficiente” e mi dava un otto.
Dovendo raccontare di “Una situazione comica” mi inventai una novella in cui raccontavo la veglia funebre per un vecchio ubriacone: il cadavere, ritrovato stecchito lungo una strada di campagna, era seduto e non era stato possibile raddrizzarlo più di tanto: nella bara avevano messo dei pesi sotto le ascelle per evitare che il morto facesse capolino oltre l’orlo della bara; la vecchia figlia, prima che si sigillasse la cassa, davanti al prete, ai parenti, agli amici, alle beghine e agli addetti alle pompe funebri, si era avvicinata per dare l’ultimo bacio al povero vecchio e aveva inavvertitamente appoggiato la mano sulle ginocchia del padre: il corpo piegato - facendo leva - si era sollevato dalla parte della testa e …
In un’altra occasione, invitato a descrivere delle “Atmosfere d’autunno”, decisi di evitare le solite descrizioni “en plein air” degli alberi spogli, delle foglie ingiallite e delle nuvole grigie. Raccontai del tempo trascorso in un salottino d’attesa di un dentista: ero solo, il tempo passava, faceva buio, nessuno accendeva la luce, bagliori dalla strada, ombre sui muri, il dentista probabilmente si era dimenticato di me, rumori di passi nelle altre stanze, mobili smossi, sentore di legno antico e di muffe, scricchiolii, tremolio di vetri, frusciare di tende, colpi di tosse, odori di minestra, rintocchi attutiti di una pendola, …

Fra le prime poesie ne ricordo una molto dannunziana.
Iniziava così:

Piove.
Una gocciola
cade leggera,
si ferma sui vetri,
tentenna,
scivola e va.
Un’altra più grave
di sopra
tentenna,
s’arrotola,
scende,
investe
la goccia leggera,
l’ingoia,
s’ingrossa,
s’arresta…

Quel che verrà

Quel che verrà verrà da questa pena.
(Mario Luzi, Versi d'ottobre in Onore del vero)

giovedì 14 gennaio 2010

1960-1963: MICROCOSMI (2) - Evasioni

La vita era scandita da ritmi rigorosi ed io ero, con tutti, incanalato in attività rigidamente programmate e monotone. Eppure in questa condizione di sistematica coercizione avevo individuato preziosissime occasioni di evasione. Le lezioni scolastiche più interessanti assorbivano l’attenzione e alimentavano la voglia di conoscere, quelle meno attraenti favorivano le fughe più diverse, quelle che tutti gli studenti annoiati conoscono (decifrare le crepe di un muro, studiare una fila di formiche, guardare le nuvole, ...). Ma dopo aver svolto i compiti e studiato l’indispensabile, dedicavo tutto il mio tempo alla lettura e alla scrittura.
Per la lettura avevo a disposizione i numerosissimi libri di narrativa e saggistica della biblioteca: era mia tutta la letteratura italiana e i classici di tutte le letterature fino alla fine dell’ottocento.
È inimmaginabile quanto possa essere gustosa, per chi ha fame, la vita che pulsa nelle tragedie di Alfieri o nelle novelle di Maupassant; e quanto possa essere liberatoria l’evasione che offre il Decamerone, l’inquietudine che suscita Mattia Pascal, la trepidazione che accende Lucia Mondella, l’avventura vicaria che offrono Virgilio, Cervantes, Ariosto, Dumas.

In biblioteca scoprii autori che non rientravano in nessun programma scolastico: Shakespeare, Comte e Hugo, Feuerbach e Nietzsche, Gogol, Puškin e - soprattutto - Dostoevskij: quest’ultimo fu una folgorazione.
Mi immersi nella lettura di Umiliati e offesi, Memorie del sottosuolo, Delitto e castigo, L’idiota, I demoni, L’adolescente, I fratelli Karamazov. Rubavo il tempo allo studio e al sonno. Non sentivo le campanelle, non percepivo i rumori, i movimenti, la luce, il caldo o il freddo. Levavo gli occhi dalle pagine e non riconoscevo i luoghi, perdevo la cognizione del tempo, smarrivo la consapevolezza della realtà. Scosso dal candore potente di Miškin, dalla contorta idealità di Raskolnikov, dalla fragilità di Arkadij o dagli angosciosi contrasti fra i quattro figli di Fëdor Karamazov. La mente era arata dalla tragedia, sconvolta dal parossismo, scompigliata dal groviglio di sentimenti, occupata da amori irrefrenabili e da odi potenti, conquistata da desideri distruttivi, invasa da angosce intense, devastata da sogni convulsi e da fantasie sublimi.
Nel Periodo Russo attraversavo le giornate come uno zombie, vegetavo senza partecipazione, mi spostavo seguendo la corrente, attento a non rompere l’incantesimo della vita vera che era quella che bolliva nella mente, desideroso solo di tornare a reimmergermi nella lettura. Nel riprendere in mano il libro, la scena abbandonata si rianimava, i personaggi nei quali mi identificavo - che avevo lasciato congelati in un gesto potevano continuare l’azione, quelli che avevo perduto nel mezzo di una frase potevano riprendere il discorso.
Le sfiancanti descrizioni ottocentesche, le presentazioni minuziose dei personaggi, i dialoghi vacui - oggi insopportabili per chi è abituato a vivere in modi convulsi la giornata e i rapporti - servivano da acclimatazione: riga dopo riga respiravo l’aria di Mosca, percepivo il clima, sentivo gli odori di cipria o di stalla, coglievo gli incerti sentimenti, gli umori inespressi, avvertivo le diffidenze e la insincerità.
Poi, seguendo un esile bandolo, mi ritrovavo inzuppato in un mondo tangibile, infradiciato di concrete relazioni, immerso in un groviglio di sensazioni, sprofondato e rapito da un’ineludibile fantasmatica realtà, disorientato, quasi allucinato.

Fuori, nel mondo reale, Coppi moriva di malaria, Fellini girava La dolce vita, gli stati africani - uno dopo l’altro - proclamavano la loro indipendenza, Hemingway si suicidava con un colpo di fucile, le due Germanie si dividevano e cominciava la costruzione del muro di Berlino, nasceva il secondo canale Rai, cominciava la guerra nel Vietnam, usciva il primo singolo dei Beatles, iniziava il Concilio Vaticano II, Martin Luther King teneva il suo famoso discorso (“I have a dream”), a Longarone morivano quasi 2000 persone travolte dalla frana che fa tracimare una diga, Kennedy veniva assassinato, Leone girava Per un pugno di dollari,…

martedì 12 gennaio 2010

Il nastro bianco di Michael Haneke (2009)

Siamo nel 1913. In un villaggio di campagna sperduto nel nord della Germania accadono inspiegabili eventi: la caduta da cavallo del medico provocata da una corda tesa, la morte di una donna per un apparente incidente sul lavoro, i maltrattamenti inferti come per un rituale punitivo ad un bambino, un suicidio, le sevizie ad un piccolo disabile. Nella piccola comunità, rigorosamente retta dalla ferrea disciplina della fede e dai principi morali della tradizione, nascono sospetti, affiorano acredini, si manifestano atteggiamenti di implacabile disumanità, aleggia un livore amaro e penetrante; preme e trova sfoghi imprevedibili la violenza che nasce dalla repressione, dalle inibizioni, dai complessi di colpa, dal patologico bisogno di espiazione.
Il bianco e nero dai contrasti taglienti, quasi espressionista, ha un fascino spietato e restituisce spazi sospesi e freddi, interni da incubo, figure esangui ed irreali; il silenzio agghiacciante è appesantito dalle rare musiche di Schubert e dai canti sacri che aggiungono cupezza diabolica; la recitazione è asciutta fino allo spasimo: perfino la festa di fine raccolto è intrisa di inquietudine e angoscianti presagi; la regia è spezzata, distaccata, da entomologo che descrive ma non offre interpretazioni: la verità infatti non è mai rivelata, anche se la si può percepire negli interstizi, la si può cogliere nei silenzi. Modi, temi e andamento ricordano Murnau, Lang, Dreyer, il primo Bergman…
Il film non racconta – come tutti dicono – l’incubazione del Male che esploderà poi con la guerra ed il nazismo, ma mostra il male che agisce e si dispiega come in un incubo: il male malcelato sotto la zimarra del pastore fanatico e repressivo, riconoscibile dietro la camicia candida del dottore misogino e violento, evidente perfino nei giochi dei bambini, manichini sadici e malvagi. I “cattivi”, padri e figli, sono qui presenti ed in azione, tutti disumanizzati, tutti vittime e tutti carnefici.
E non ci consoli il pensiero che questa sia l’istantanea di un popolo e di un paese in un’epoca storica circoscritta: l’angoscia che ci assale nel vedere il dispiegarsi di tanta fredda violenza è data dalla consapevolezza che, anche se le circostanze sono mutate, le condizioni che hanno originato quel male – il fanatismo, la violenza, la morale repressiva – sono ancora presenti e stanno ancora distillando veleni e generando mostri.

Dieci inverni di Valerio Mieli (2009)

Per ben dieci inverni Camilla e Silvestro, diciottenni alla data del primo incontro, si cercano ma non si trovano, si guardano ma non si vedono, si incrociano ma non si incontrano tra Venezia e Mosca: nelle brume della laguna, malinconiche come la loro non-storia, e nel freddo di Mosca, rigido come la loro difficoltà a sciogliersi. Si annusano e indugiano titubanti, si sbirciano inibiti, si provocano esitanti, si stuzzicano irresoluti e non riescono a fare “quel piccolo gesto” che innescherebbe gli automatismi dell’amore. Quando uno dei due cerca di rompere il diaframma di carta che li separa, l’altro non capisce, tentenna, non riesce ad incoraggiare, resiste per orgoglio o nicchia per pigrizia o fugge per insicurezza. Fra i due c’è sempre comunque una sfasatura, una diacronia, una disarmonia, una asimmetria, uno squilibrio.
Per sostenere l’assioma dell’incomunicabilità però la storia appare, qua e là, un po’ forzata e non sempre convincente; a tratti diventa irritante e comunque risulta troppo lunga (ma forse uno degli intenti del regista è proprio quello di “infastidire” ed esasperare). Anche il finale appare, purtroppo, poco convincente. Una storia antiromantica che così bene illustra l’indeterminatezza dei sentimenti e la difficoltà a lasciarsi andare senza pudore non dovrebbe assolutamente avere il lieto fine. Il film sarebbe stato perfetto se fossero comparsi i titoli di coda sul mancato incontro nella grande e desolante piazza di Venezia, su quella splendida inquadratura dall’alto dell’abside (campo lungo geniale!) con lo sfondo musicale dello stridente e struggente Capossela.

lunedì 4 gennaio 2010

Questa merita proprio una lettura!!!

http://tostiluigi.blogspot.com/2009/12/abbandonato-in-una-stalla-del-bresciano.html

sabato 2 gennaio 2010

1960-1963 : MICROCOSMI (1) – La scuola

La scuola occupava metà della giornata; lo studio, forzato, l’altra metà.
A distanza mi pare di capire che lo scopo del “sistema” era quello accrescere le conoscenze e “infondere” il sapere, non quello di sviluppare competenze e ampliare la “cultura”.
Prevaleva il nozionismo sfrenato, la ripetizione di regole grammaticali e sintattiche, di declinazioni e coniugazioni, di verbi regolari e irregolari, di date e dinastie, di guerre e trattati, di diete e congressi, di spedizioni e invasioni, incoronazioni e decapitazioni. Si imparavano a macchinetta tutti i nomi degli architetti, degli scultori e dei pittori con l’elenco cronologico delle loro opere. Si snocciolavano a richiesta tutti i teoremi di tutti i matematici da Euclide in poi, tutte le leggi di fisica, tutte le formule chimiche, tutta la nomenclatura delle scienze biologiche, botaniche, anatomiche.
Superando la nausea derivante dalla condizione coatta e per dare un senso a tutto quel tempo, cominciai ad accorgermi che anche la storia della letteratura, pur facendo parte del “loro” programma, poteva dirmi qualcosa.
Scoprii che Dante era potente e immenso; che Petrarca in certi momenti si rivelava tenero e dolcissimo; che Boccaccio aveva pagine esilaranti ma sapeva anche essere inverosimilmente amaro o feroce; che Tasso era struggente e quasi femmineo; che Alfieri, dopo la faticosa lettura delle prime quattro tragedie, ti catturava in un crescendo elettrizzante con le altre quindici e ti scaldava fini all’esaltazione. Perfino Foscolo e Monti potevano agguantarmi e trascinarmi in un mondo separato; e Manzoni, il bigotto, aveva guizzi di arguzia sorprendenti; e Verga, raccontando la vita che si sgroviglia fuori dagli impermeabili confini del mio piccolo mondo, svelava universi sorprendenti e dolori cosmici.
Cominciai a capire che dietro il frastuono delle guerre e sotto la crosta della storia narrata scorreva una storia vera, fatta di sangue e lacrime, di sudore e ribellione, di rassegnazione mai contenibile, di rabbiosa voglia di libertà, fraternità, uguaglianza.
Cominciai a capire che gli artisti, anche quelli che lavoravano al soldo dei potenti e assecondavano i desideri del committente, riuscivano a dire qualcosa di vigorosamente reale, sapevano essere ferocemente eversivi, mettevano nelle loro opere dei segnali che - decifrati - davano senso ai capolavori e dicevano di sé, dei coevi e della loro epoca qualcosa di autentico, qualcosa che gli annali ufficiali non sapevano dirci. Scoprii che Caravaggio nei nitidi quadri di soggetto sacro parlava di cose profane e della sua disperazione; che Bosch, celebrando le virtù e condannando i vizi, ci raccontava le sue ossessioni ed i tormenti; che Michelangelo dava la più potente rappresentazione di sé negli abbozzati Prigioni o nella dissestata Pietà Rondinini, non nella lucida Pietà di Roma o nel David inverecondo (a cui potevamo, grazie alla incensurabile Arte, sbirciare il piselletto e utilizzarlo come confortante parametro di raffronto, l’unico per noi adolescenti pudichi e repressi).

Gli insegnanti tentavano di rendere afoni i nostri scrittori, ma le potenti pagine della saporosa antologia avevano il sopravvento sulla loro soporosa esegesi. Pareva quasi che volessero evitare che coltivassimo delle curiosità e ci formassimo uno spirito critico, che ci avrebbe portato a rifiutare l’obbedienza.
Molti miei compagni - conformisti - studiavano la storia della letteratura senza leggere un brano (“quel giorno più non vi leggemmo avante”!) o studiavano sui vietati Bignami; alcuni - conformisti e pigri - si accontentavano di leggere gli appunti delle lezioni e apprendevano tutto quel che serviva per passare dignitosamente le interrogazioni. C’erano perfino alcuni insegnanti che, per insegnare la sintesi, “dettavano” gli appunti che si presentavano come piatti unici, confezionati e precotti: la mediocre “recita” di queste sintesi evitava superflue fatiche e inutili rischi, e garantiva una sufficienza.
Io leggevo, “per diletto” innanzitutto, ma anche per anticonformismo; ero alla puntigliosa ricerca di elementi per verificare ed eventualmente smentire gli storici, di ragioni per smascherare i bigini, di appigli per contraddire i professori.
Nei miei temi di letteratura - mai meno di venti pagine - scioglievo i controlli nei quali ero costretto durante le interrogazioni e mi scatenavo, scardinando le piccole certezze dei miei professori - non tutti stupidi - basate su canoni fissi, costruite su tracce tramandate di anno in anno, congegnate su riassunti schematici, composte di nozioni fitte e condite con aneddoti curiosi.
Per puro spirito di contraddizione presentai una volta un tema di cinquanta pagine nel quale dimostravo - con puntigliose e precise citazioni testuali - che Ariosto, sotto la vena comica, nascondeva una disperata tristezza più devastante della compiaciuta malinconia del Tasso.
Era la lotta dell’autentico contro l’inautentico. Una difficile zuffa, fatta di opposizioni e attrazioni, di ansimi e aneliti, di dissensi e desideri, considerato che i miei “viaggi” partivano tutti e comunque dalle sollecitazioni che mi venivano offerte su quei banchi.

SESSANTOTTO E DINTORNI (23): Rose Rosetta

Nell’estate del 1969, qualche giorno dopo l’allunaggio di Armstrong e Aldrin, decisi di fare un viaggio solitario in autostop e di lasciar perdere i campi di lavoro, che mi procuravano è vero un viaggio gratuito d’andata e di ritorno per un paese straniero ma, in definitiva, mi lasciavano poco tempo per visitarlo. L’esperienza mi aveva insegnato che con pochi soldi e poche pretese era possibile andare in capo al mondo; che in nessuna occasione si correva il rischio di morire di fame; che nelle notti d’estate era possibile dormire ovunque; che le strade erano piene di gente simpatica; che nel mese di luglio le strade d’Europa brulicavano di autostoppisti,…
Riuscii a racimolare qualche lira vendendo ad un bancarellista un pacco di libri, acquistai al mercatino di via Milano uno zaino militare usato e sformato, un sacco a pelo nuovo e una borraccia di alluminio foderata di iuta, infilai nello zaino quattro stracci, due mappe, un coltello a serramanico e partii.
Ero incerto su quale direzione prendere. Perciò mi misi sulla strada di accesso ai caselli autostradali di Brescia ovest e decisi di lasciar decidere al fato e andare dove mi avrebbe portato il primo automobilista gentile. Si fermò un camion diretto a Udine: decisi che la mia prima meta sarebbe stata Venezia.

Verso sera arrivai stravolto dal caldo e dalla stanchezza al graziosissimo ostello sulla Giudecca.
Doccia, cena alla mensa, passeggiata breve fuori dall’uscio, quattro chiacchiere con un gruppo di ragazzi di Caserta.
Nel cortile alcuni ospiti si erano seduti in cerchio attorno a due che suonavano la chitarra. Mi accodai restando a discreta distanza, un po’ defilato. I chitarristi dovevano essere inglesi o americani. La chitarra passando di mano arrivò ad una ragazza di Roma che strimpellò qualche motivetto nazionale, accompagnata dal gruppo di italiani e applaudita da tutti. Poi fu la volta di una coppia francese. Poi di alcuni nordici, olandesi o tedeschi.
Poiché la stanchezza si faceva sentire tentai di sdraiarmi sul fresco lastricato e andai a sbattere con la testa sulle ginocchia di una ragazza che, silenziosa, si era seduta dietro di me. Mi scostai confuso. Mi sorrise e mi invitò, a segni, a non farmi problemi, ad appoggiarmi tranquillamente. A segni le dissi no grazie. A segni insistette. Rifiutai decisamente. Sorrise. Sorrisi. Ci presentammo. Si chiamava Rose. Cominciammo a chiacchierare. In francese.
Era una canadese del Quebec, era a Venezia con i suoi genitori che alloggiavano in un albergo. Lei dormiva all’ostello per risparmiare. Mi raccontò del suo viaggio, poi dei suoi studi, poi della sua vita e dei suoi passatempi, delle sue letture e delle sue musiche, degli amici e della sua città, …
Io le raccontai dei miei viaggi più modesti (ma ascoltò incantata il racconto delle mie esperienze nei campi di lavoro), poi dei miei studi, poi della mia vita e dei miei passatempi, delle mie letture, degli amici,…
Volle sapere il mio programma per il giorno dopo. Dissi che non avevo programmi. Mi chiese se potevamo concordare qualcosa, insieme, qualsiasi cosa, perché lei - mi disse - non aveva voglia di passare due giorni a Venezia in compagnia dei suoi genitori. Le dissi scherzando che non mi andava di essere usato come ripiego per due giornate noiose. Mi disse che voleva stare con me perché le piaceva l’idea di visitare Venezia in compagnia di un italiano. Le dissi scherzando che non mi andava di essere sfruttato come guida senza ricompense. Mi disse che voleva stare con me perché mi aveva osservato da dietro per una mezz’ora e le piaceva la mia riservatezza, il mio starmene in disparte, la mia malinconia, simile alla sua. Le dissi che, per quelle ragioni, potevo sacrificarmi, a condizione che, per equità, si lasciasse osservare da dietro per mezz’ora. Così come lei aveva spiato me. Ci scambiammo di posto, si sedette davanti a me, e si girò a guardarmi con un’aria perplessa.
Le sorrisi e la invitai, a segni, a non farsi problemi, a sdraiarsi, ad appoggiare tranquillamente la sua testa sulle mie ginocchia. A segni lei disse no grazie. A segni insistetti. Rifiutò decisamente. Sorrise. Sorrisi. Si sdraiò. Mi sbirciò dal basso. Le diedi un buffetto sul naso. Mi scostò la mano ma la trattenne nella sua. Fra le mani passò un fremito leggero. Con l’altra mano con un dito, le accarezzai delicatamente la fronte ed i capelli.
Quella sera fummo gli ultimi a lasciare la sala comune.
La mattina dopo fummo i primi a presentarci a colazione.
La giornata era splendida: mettemmo in programma l’itinerario più banale, quello che seguono i turisti che per la prima volta visitano Venezia. Mi seguiva come un cagnolino, felice di quel che le mostravo, felice delle mie dotte annotazioni, felice di tutto. Io la guidavo felice della sua felicità.
Verso le tre del pomeriggio la condussi per calli e ponticelli in un Campo fuori degli itinerari turistici, acquistai pane da un fornaio, mortadella da un salumiere e uva bianca da un fruttivendolo. Mangiammo con gusto sul gradino di un pozzo, bevemmo acqua insipida da una fontana, finimmo il pranzo con un bicchiere di rosso fuori da una superstite osteria.
Poi, mano nella mano, caldi del vino e della reciproca attrazione, girovagammo senza meta e senza orientamento in un labirinto di viuzze quasi deserte, godendo del sole, del contatto, delle vecchie pietre, dell’incanto, dell’acqua, della solitudine, degli odori, della sintonia, delle voci, del nostro smarrimento.
La chiamavo Rosetta, e lei era felice.
Ritornammo al nostro ostello per l’ora di cena, cenammo insieme, uno di fronte all’altra per guardarci in faccia, scambiammo assaggi delle nostre diverse portate, tornammo nella sala comune e ci sedemmo nel nostro angolo, stavolta affiancati, ancora ad ascoltare canzoni ed a sentire il confuso chiacchiericcio, babele di lingue, di ragazzi e ragazze evidentemente stanchi, evidentemente appagati. Comunicando fra noi con poche parole bisbigliate, con molti sguardi e sorrisi, col tenerci le mani, assaporando la dolcezza che impregna i rari momenti magici della vita.

Il giorno dopo ci imbarcammo per Murano. Sul battello, attraversando la laguna, ci mettemmo a prua: si aggrappò al parapetto, chiuse gli occhi e li tenne chiusi, quasi dimenticandosi di non esser sola, quasi ignorandomi: la osservai a lungo mentre con il viso proteso ascoltava il calore del sole, respirava la brezza leggera e annusava la salsedine; muoveva leggermente la bocca, come per bisbigliare parole, come per recitare preghiere o poesie. Svolgeva nella mente un lungo discorso indecifrabile e lo portava a fior di labbra, senza pause; seguiva e traduceva un ragionamento felice, che affiorava in un’espressione beata e sorridente. Senza aprire gli occhi mi cercò la mano, bisbigliò il mio nome e proseguì nel suo sussurro magico. Se avessi baciato, come desiderai, quelle piccole labbra che mormoravano pensieri soavi, avrei rotto un incantesimo.
La visita agli artigiani del vetro fu deliziosa. Rose Rosetta Rosette era piena di meraviglia e non voleva più distaccarsi dal bancone del piccolo laboratorio dietro cui due vetrai si esibivano per i turisti: il primo, un anziano, costruendo boccette panciute col soffio e l’altro, un ragazzetto spiritoso, modellando la pasta di vetro coi movimenti spavaldi di una pinzetta di ferro per ricavarne dei bizzarri cavallini rampanti.
Fuori c’era un bel sole abbacinante. Passeggiammo lungo una via piena di botteghe artigiane, negozietti, bazar. Per staccare Rose dalle vetrinette strapiene di gingilli di vetro e per uscire dalla folla ci infilammo in un vicolo ombroso, stretto fra alti muri su cui si affacciavano piccole porte chiuse e finestrelle. In fondo si vedeva un bagliore forte e riverberi di acque chiare. Il percorso era ingombro di cassette di frutta, secchi di immondizia, ceste, reti, detriti, catini e remi. Il vicolo finiva in una piccola cala: la riva era letteralmente coperta di frammenti di vetro colorato, schegge di cristallo, cocci lucidi, frantumi di soprammobili, statuette mutilate, cannucce e palline di vetro, tazze rotte, paralumi scassati, torciglioni multicolori, pomoli incrinati, vasi screpolati, pezzi variopinti di maniglie, posacenere, cofanetti, pressacarte, pendenti, scacchiere, bomboniere,…
Camminando con circospezione sui detriti arrivammo sulla battigia. I caleidoscopici rifiuti ricoprivano anche il fondo del mare. Eravamo casualmente capitati nella discarica degli artigiani del vetro.
“È così fino a Ravenna” dissi. E Rose assentì convinta. “Siamo nella Baia dei Cristalli” dissi. E Rose annuì. Poi si accucciò e cominciò a scegliere con incertezza i suoi piccoli souvenir. La imitai. Come due bambini ci mostravamo i reciproci reperti in un susseguirsi di sorprese, esclamazioni, stupori. Riempimmo due borse di piccole, preziosissime meraviglie. Non riuscivamo a distaccarci da quell’Eldorado abbandonato.
Tornammo sui nostri passi, attraverso il vicolo maleodorante, e rientrammo nel flusso dei turisti. Ripassammo davanti alle vetrinette sbirciando i piccoli oggetti che non avevamo potuto acquistare, stringendo i sacchetti pieni dei nostri tesori nascosti.
Sul battello rifacemmo l’inventario.
Tra i miei frammenti trovai un piccolo corno a torciglione, dorato, che doveva essere l’attributo magico di un liocorno. Lo regalai a Rosetta, dicendole che il liocorno o unicorno era un cavallo bianco con un corno in fronte e la coda da leone; che era un animale mitologico e magico, dotato di virtù taumaturgiche; che era simbolo di saggezza e poteva essere ammansito solo da una vergine, simbolo di purezza (Rosetta sorrise); le raccontai che nella tradizione medioevale il corno a spirale aveva la capacità di neutralizzare i veleni. Le dissi di tenerlo come portafortuna, in mio ricordo. Prese il piccolo corno, lo rimirò, lo annusò, lo baciò e se lo mise in tasca, separato dagli altri reperti. Poi frugò nella sua borsa, ne trasse titubante una goccia sfaccettata di cristallo, la strofinò sulla maglietta fino a farla brillare, me la mise in mano e mi disse di tenerla cara come la nostra limpidissima amicizia.

Eravamo a San Marco, s’era fatto tardi. Rosetta aveva un appuntamento in albergo coi genitori: dovevano partire per Firenze col treno della notte. Era ora di salutarci. Lei prendeva il vaporetto per S. Lucia, io - dallo stesso imbarcadero - me ne tornavo a Giudecca. Era ora di salutarci. Arrivò il suo vaporetto, fummo presi dal panico. Decise di aspettare quello successivo. Era ora di salutarci. Nel frattempo arrivò il mio. "Prendo il prossimo" dissi; io non avevo fretta. Ci guardavamo e non sapevamo cosa dirci. Negli occhi avevamo pensieri teneri, ma non c’erano parole per dirli. Gli addii hanno sempre in sé qualcosa di patetico: i discorsi che li esprimono hanno sempre qualcosa di sbagliato. Era ora di salutarci, non c’era rimedio. Arrivò il suo vaporetto, poi il mio, poi il suo. Nessuno di noi voleva lasciare l’altro: lei spingeva me, e poi mi tratteneva; io spingevo lei, e poi la trattenevo. Non volevo proprio vederla partire, restandomene sulla riva a sventolare la mano. Non volevo vederla restare a terra, allontanandomi io sull’acqua. Era in ritardo ma non si risolveva. Decidemmo che sarebbe stato definitivo, mio o suo, il primo vaporetto che fosse passato dopo le sette. Ci restavano quattro minuti: insufficienti per contenere le nostre vorticose emozioni, troppi per contenere le nostre convulse pene.