mercoledì 11 gennaio 2017

È solo la fine del mondo (2016), di Xavier Dolan


Dolan, maturo ventisettenne, ci rovescia addosso per l’ennesima volta le sue ossessioni; e per l’ennesima volta ci travolge.
Il suo nuovo film t'inghiotte, denso di emozioni dalle quali emergi a fatica. E hai bisogno, una volta fuori, di andartene in silenzio per lasciare che l’ingorgo si disciolga lento e il groviglio delle inquietudini si stemperi.

La trama è esile e racconta di Louis, un giovane scrittore che dopo 12 anni di distacco torna a casa per cercare di comunicare ai suoi – mamma, sorella, fratello, cognata – che sta per morire.
Louis aveva scelto di allontanarsi da casa (e da tutti loro) forse solo per vivere liberamente la sua omosessualità, per tuffarsi in una quotidianità “altra” sciolta dai legami col passato (quello dell’infanzia radiosa e quello della torbida adolescenza); convinto, a ragione, che le scelte difficili hanno bisogno di tagli drastici; e che il dispatrio – direbbe Meneghello – è la cosa più importante della vita adulta perché non fa perdere il filo della propria identità, ma costringe a cominciare una nuova vita.
Ma tornare non è semplice, e non è facile affrontare l’improrogabile discorso, chiudere un cerchio e ristabilire un equilibrio compromesso. I dodici anni di assenza sono diventati un macigno.
Louis ha riluttanze insormontabili. Gli altri, che non hanno mai accettato la sua fuga (e tanto meno le ragioni che l’hanno determinata), non sanno far altro che fingere un’assurda normalità. E al suo arrivo assalgono il frastornato figliol prodigo con tutti i loro scompensi affettivi: la sorella più giovane (Léa Seydoux) lo sommerge con ammirata curiosità e appassionate attenzioni; la madre (Nathalie Baye) gli manda cauti segnali di premura e comprensione; il fratello (Vincent Cassel) cerca l’antico cameratismo fraterno con brusca acrimonia maschile, controbilanciata dall’ansiosa affettuosità della cognata (la splendida Marion Cotillard).

Louis deve trovare il modo di bypassare l’ostacolo. È venuto per parlare e deve farlo. Deve assolutamente dire quel che ha dentro prima che il tempo scada.  
Gli altri invece, più o meno inconsapevolmente, cercano il modo per fermarlo, come a volersi difendersi da lui: forse perché, ormai abituati a galleggiare sull’inautenticità, non vogliono essere fagocitati dalla realtà per trovarsi di nuovo sospesi nel vuoto o sbilanciati dopo aver guadagnato un loro difficile equilibrio. E per salvarsi da Louis parlano, esasperatamente loquaci, chiacchierano fino a renderlo afasico: riempiono i tempi di reminiscenze e recriminazioni, brindisi e gelosie, abbracci e risentimenti, confidenze e tensioni, baci e lacrime, sopraffazioni e frustrazioni. Psicodrammi da kammerspiel, insomma, tipo Carnage di Polanski.
Mentre il protagonista tace, annuisce remissivo, qualche volta bisbiglia (e i suoi pensieri li sentiamo sussurrati dalla voce fuoricampo).

Siamo di fronte ad un paradosso (frequente anche nella vita) per cui l’ipertrofia delle chiacchiere provoca l’atrofia della comunicazione e il vaniloquio nasconde/rivela l’incapacità di relazionarsi.
Se è vero che le rare parole sincere aprono l’anima, il diluvio di quelle insincere la avvolge; la logorrea è riluttanza al dialogo; le chiacchiere vacue sono la maschera più vigliacca ed efficace dietro cui si nasconde chi non ha più nulla da dire.

In mezzo a questa bufera delle futilità, però, la verità mostruosa preme come il magma sotterraneo: lo si intuisce dalle sbirciate smarrite e angosciate della sorella, dagli occhi morbidamente amorevoli della cognata, dai silenzi schivi e avvolgenti della madre, dalle sfuriate terribili, isteriche, del fratello. Dove le parole non affiorano, insomma, avanzano controcorrente gli sguardi.
Per questo Dolan gira tutto in interni e insiste ossessivamente coi primi piani che catturano l’anima e ne rivelano la solitudine (l’unica scena in esterna, quella del tragitto in macchina dei due fratelli, è la più angosciante e claustrofobica di tutto il film).

Louis, arrivato per preannunciare la morte e chiudere una partita rimasta aperta, resta avviluppato nella angoscia che lo ha condotto lì.
E impara che non serve voltarsi indietro, come Orfeo, o cercare il tempo perduto.

All’inizio del film, la sequenza degli sguardi fra Louis e la cognata seduti sul divano, mentre tutti nella stanza parlano, è una delle più struggenti scene di tenerezza mai rappresentate.















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La stoffa dei sogni (2016) di Gianfranco Cabiddu



Il film inizia con una tempesta in mare e l’affondamento di un barcone che trasporta alcuni detenuti in trasferta, oltre che una scalcinata piccola compagnia di teatro itinerante.
I naufraghi trovano scampo su un’isoletta (l’Asinara), sede di colonia penale, sono soccorsi dalle guardie carcerarie e trovano ospitalità provvisoria nei locali del carcere.
I camorristi, che durante la tempesta in mare erano riusciti a liberarsi delle catene, costringono il capocomico (Sergio Rubini) a sostenere che tutti gli scampati fanno parte della troupe; ma il diffidente direttore del carcere (Ennio Fantastichini), per riuscire a individuare e smascherare i finti attori, propone-impone l’allestimento de La Tempesta di Shakespeare.

La sapientissima sceneggiatura (del regista, con Ugo Chiti e Salvatore De Mola) congegna un copione stratificato, combinando tre canovacci e contaminando i testi di questa strana storia con quelli della tragedia scespiriana e con quelli dell’Arte della commedia di Eduardo De Filippo (dove si parla del valore politico del teatro e dell’ottusità del potere, ma si gioca anche, pirandellianamente, sull’impossibilità – o inutilità – della distinzione fra finzione e realtà).
In questo intreccio complesso ogni personaggio si presenta ambiguo, scisso, doppio se non triplo, e costretto a funamboliche menzogne: i camorristi fingono di essere attori, il capocomico e i guitti sono forzati ad assecondarli, il direttore del carcere finge di adeguarsi in attesa di scoprire la verità.
Alla dissimulazione triangolare se ne aggiungono altre: Miranda, la figlia adolescente del responsabile del carcere, nasconde un giovane camorrista, figlio del boss, rimasto alla macchia, se ne innamora ed elude la sorveglianza per frequentarlo; lui, Ferdinando, desidera dimenticare il proprio nome e la propria natura per affrancarsi dal padre, redimersi e far durare la sua storia d’amore nell’Eden selvaggio e autentico dell’isola; sempre il direttore, che ha scelto l’isola per coltivarvi il senso di solitudine dopo che la moglie l’ha abbandonato, è scisso fra l’istinto paterno di proteggere la figlia adolescente e la necessità lasciarla volare.
Tutti scoprono il proprio doppio, un risvolto nascosto della propria anima, un altro sé intimamente vero;  tutti si accorgono che la faccia che portano in giro, scantonando per finzione dalla propria identità, è una maschera imposta dalle circostanze; tutti scoprono che sotto il travestimento che indossano per necessità contingenti vive uno spirito più integro, affiora un sogno trattenuto, gorgogliano desideri rappresi.
E tutti si ritrovano a braccare la propria autenticità, quella che – si presume – costituiva il nucleo primitivo dell’esistere, svanita con l’avvento del compromesso originale.

È inevitabile provare empatia per questa disparata comitiva di anime disorientate che brancolano alla ricerca di sé e si scontrano senza riconoscersi. Nella loro eterogeneità, tutti i personaggi di questo film si affannano alla ricerca della felicità (o almeno della serenità). Come noi, del resto, più o meno convinti, più o meno consapevoli. Tutti, fra miseria e nobiltà, sopportano la quotidianità nel tentativo di sopravvivere; e tutti indossano armature e maschere che aiutano ad attraversare le foreste e i labirinti della vita; e si affidano ai sogni, la cui trama è costituita, come ognuno sa, dai desideri inconsci (primordiali, insoddisfatti).
L’attraversamento della tempesta ha segnato una svolta.
Lo sfondo irreale e incontaminato dell’isola crea condizioni irripetibili.
Le finzioni del palcoscenico, degli scenari, delle luci e dei suoni proiettano in un universo parallelo e rendono possibile tutto, anche lo spiccare il volo di libertà dal cortile di un carcere.
Sì, perché il teatro, come il cinema o la poesia, è spesso la descrizione di quel che siamo, ma sempre vuole essere la rappresentazione dei sogni, la narrazione di come potrebbe essere la nostra vita “se …”.
Tutti i personaggi – i camorristi e gli attori spaventati, i carcerati e i carcerieri, il direttore del carcere e sua figlia – colgono la capacità del teatro di rappresentare la realtà di ciascuno, di interpretare le emozioni e di esaltare le passioni. Tutti, perfino l’omerico pastore Antioco (un sublime Fiorenzo Mattu), primitivo e analfabeta, percepiscono emotivamente la possibilità che possiede l’arte di trasfigurare la realtà, sublimare i desideri e reinventare una vita possibile.

Solo in film onesti come questo accade il miracolo per cui la simulazione è sinonimo di verità.




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