sabato 30 maggio 2009

Girarsi indietro

La strada fatta la puoi valutare solo se ti giri indietro; il tragitto compiuto lo puoi analizzare meglio da una certa distanza: mentre cammini infatti la tua consapevolezza ha l’orizzonte del terreno che calpesti. Riflettere sul passato è come, dopo una passeggiata nella neve, “tornare a casa e vedere nelle orme, dalla finestra, il senso che ha avuto il tuo cammino” (A. Tabucchi).

martedì 26 maggio 2009

1950 (1) : Il paese

Sulla strada di scuola non c’era traffico e i bambini, anche i più piccoli, viaggiavano sicuri.
Si incontravano donnette che tornavano da messa, ragazzette che andavano a prendere il latte, massaie che spazzavano davanti all’uscio di casa.
Si incrociavano soprattutto i vecchi della casa di riposo (“il ricovero”) che - per abitudini mai smaltite - si erano levati prima dell’alba abbandonando quei letti troppo comodi e caldi ed erano usciti da quegli stanzoni, estranei come camerate d’ospedale e odorosi di creolina come i cessi pubblici, per immergersi nella loro antica realtà paesana, fatta di familiari odori di nebbia e di fieno. Vagavano smarriti per le strade in cerca di facce note per attaccar bottone, trascinavano passi inutili fingendo di avere una meta, finivano per rientrare per il rancio delle 11, sotto il peso
della nostalgia, …

Rare a quell’ora erano le biciclette.
Gli operai delle fabbriche partivano infatti per la città alle cinque del mattino: d’estate in lunghe file chiassose; d’inverno intabarrati con cappelli e sciarpe, le mani al caldo nelle manopole di pelle di coniglio che coprivano le impugnature del manubrio, infagottati in pesanti maglioni imbottiti di giornali ed in calzoni di fustagno stretti alle caviglie da mollette per evitare che si impigliassero nella catena.
Era più facile incontrare cavalli che automobili.
Passavano carri pieni di letame fumante, grondanti liquame che lasciava una scia putrida sulla strada e uno strascico di sano fetore nell’aria; passavano carri stracarichi di fieno che occupavano la strada per tutta la larghezza e ci costringevano ad addossarci al muro (e tutti - per l’istinto del somaro, come dice Trilussa - ne strappavamo un beneaugurate filo d’erba da ficcare in bocca); passavano carretti carichi di attrezzi e sacchi, col carrettiere appisolato e il cavallo che caracollava da solo, sicuro verso il campo.

Quando era la stagione, passavano carri carichi di uva sgocciolanti mosto e seguiti da nuvole di moscerini. I carrettieri allegri salutavano tutti come se fossero di ritorno dall’Australia ed i passanti fossero tutti parenti. Sul carro c’erano le vendemmiatrici, eccitate per l’abbondanza, arrossate dalla fatica, stanche di canti e di scherzi, infagottate in vecchi vestiti sporchi; alcune, pronte alla pigiatura, andavano con le gonne già annodate in vita esibendo cosce candide e robuste.

Ogni tanto, di giugno, si incrociava la imponente mietitrebbia: il traffico si fermava per darle la precedenza, come per il Santissimo in processione, come per i cortei funebri. Carri e auto cedevano il passo infilandosi in portoni, cancelli, vicoli e anfratti. Tutti si fermavano a contemplarla muti e affascinati.
Si raccontava che non pochi contadini distratti fossero stati inghiottiti dal mostro e restituiti a pezzi, imballati con la paglia. Io, attratto e impaurito, come Fellini in Amarcord sotto il transatlantico Rex, non mi muovevo fino a quando il mastodonte non aveva girato l’angolo con lenta incredibile manovra.

1050 (2): Le stalle

Lungo la strada che portava alla scuola si apriva una fila di innumerevoli basse finestre che davano aria e luce ad una stalla.
Mi fermavo davanti ad ognuna, come alle stazioni di una via crucis, per sbirciare, attraverso le inferriate ed i vapori dei fiati, le placide mucche ruminanti.
Ogni mucca aveva il suo nome, scritto su una lavagnetta appesa sopra la mangiatoia.
Sulla lavagnetta erano segnati con grafia incerta altri appunti per me misteriosi: la data di nascita, quella della fecondazione o quella presunta del parto, il nome di un medicinale somministrato, la quantità di latte munto,…
I nomi spesso erano di ispirazione bucolica come Fiorina, Pasqualina, Margherita o Rosina; oppure definivano una caratteristica fisica o caratteriale come Bianchina, Nerina, Bruna, Macchia, Stella, Mansueta, Nervosa, Matta.
Non poche si fregiavano di nomi altisonanti come Ginevra, Genoveffa e Gertrude; o portavano inconsapevolmente i nomi arcaici di Berta, Amalia, Carolina; o ancora nomi inconsueti come Diomira, Esmeralda, Filomena, Imelda, Aida o Leopolda.
Alcune avevano ereditato nomi introdotti nelle stalle da lontane esperienze militari e portavano nomi come Sentinella, Gorizia, Tripolina.
Altre prendevano il nome dalle più sognate mete degli emigranti e venivano battezzate America, Australia, Argentina.
Altre ancora, a testimonianza ironica di ideali, propensioni o antipatie politiche si chiamavano Speranza, Avvenire, Libertà, Palmira, Alalà.

Mi fermavo davanti ad una finestra meno schermata delle altre, protendevo la mano verso la testa di una mucca dallo sguardo dolcemente triste, la chiamavo sottovoce sperando che allungasse il muso verso di me per poterla accarezzare, sia pur con un certo timore ed un po’ di repulsione per le umide froge.
Il mio trasporto amoroso non era mai ricambiato: la mucca proseguiva a emettere fumo e a ruminare con impassibile indifferenza; nel suo occhio si specchiava deformato il riquadro della finestra con la mia sagoma protesa.
Spesso i compagni che passavano sulla strada si fermavano dietro di me, sbirciavano attraverso la finestra, spaurivano la mucca con un gesto brusco o un verso sguaiato e si allontanavano chiassosi e spavaldi; la bestia abbassava il capo, scuoteva le innocue corna per accomodarsi il collare e tornava al suo rassegnato ruminare.
Sotto l’ultima finestra, in un recinto a parte, barcollavano spesso dei malfermi vitelli senza nome, sgraziati e sporchi, persi e dinoccolati, incapaci di guardare verso la finestra con quei loro occhi acquosi e ottusi.

1950 (3): La nebbia

La nebbia ha nutrito e ingoiato la mia infanzia.
Quella nebbia che attutisce i rumori, soffonde i colori, circoscrive gli spazi, imbozzola il tempo.
Ed i ricordi d’infanzia - o forse i ricordi dei ricordi - persi letteralmente nella nebbia, dalla nebbia riaffiorano e riacquistano il loro contorno, se mi decido ad andar loro incontro con attenta circospezione.
È la nebbia infatti, quella vera, il ricordo più vivo dei primi anni di vita nella mia Bassa, in un paese che ormai non esiste più, inglobato e soffocato dall’espansione edilizia e dalla cintura di villone bifamiliari costruite su pretenziosi montarozzi di terra; reso irriconoscibile dall’asfalto che ha sotterrato i fossi; trasformato in una anonima periferia da capannoni artigianali o industriali; snaturato da sopraelevazioni, mascherato da intonaci in fintorustico, addobbato da improbabili colonne ioniche e da archi in cotto; derubato delle sue aie, dei fienili e delle stalle, degli orti e dei letamai, dei porcili e dei pollai; svuotato da tutti gli animali di stalla e di cortile, mosche comprese.

Negli anni Cinquanta una giornata di nebbia la si percepiva prima dell’alba, perfino prima del risveglio, dal tepore umido del letto, nelle camere resa ancor più nude dal gelo.
Suoni sordi arrivavano nelle stanze galleggiando nell’aria: da dentro casa saliva uno stropicciare di ciabatte, i passi sui gradini di pietra e di legno, il gorgogliare di acqua versata, il tocco di ghisa dello sportello della stufa, lo sfregare di un cassetto, lo strusciare di una sedia accostata; da fuori
entrava il raspare degli zoccoli di un cavallo sull’acciottolato del dosso, il rintocco delle ore, il cigolio della carrucola del pozzo, lo sbattere di una porta, il frusciare di una bicicletta lungo la discesa.
Un barlume impercettibile filtrava nella camera dalle imposte sconnesse della finestra: bastava quello per orientarsi, per percepire il rettangolo buio della porta, per trovare le ciabatte tastando col piede, per instradarsi verso la scala, girare un angolo e scendere a tastoni sicuri verso i chiarori della cucina.
Sulla tavola era pronto, per sciacquarsi la faccia, un catino d’acqua tiepida prelevata dalla caldera incrostata di calcare della stufa-cucina, sulla cui piastra rovente, in un angolo lontano dai cerchi, era messo a intiepidire il pentolino del latte; nel forno biscottava il pane, sul corrimano si scaldavano calze e guanti, sulla raggiera asciugava fumante una maglietta felpata di lana.
I vetri della finestra, decorati dal gelo con disegni di felci di cristallo, lasciavano intravedere un molle lenzuolo grigio.
La scodella della colazione, nelle fredde mattine di nebbia fitta, la si teneva con le due mani, come il santo graal: il dolce latte era denso di panna e coperto di una telarina gustosa, veniva sorbito in un silenzio religioso, riscaldava il corpo e intiepidiva i pensieri. Il pane biscotto veniva consumato lentamente: in silenzio ne studiavo la croccante consistenza, ne decifravo le vene di colore e imparavo a memoria i suoi indefinibili profumi.

La nebbia fuori aspettava, coprendo i tetti e imbottendo gli spazi fra le case, e contagiava tutti, imponendo il silenzio e la lentezza.
Pochi cani osavano abbaiare contro il grigio uniforme.
Il canto isolato di qualche gallo incosciente si strozzava nel fumo umido.
I tocchi degli zoccoli di un cavallo, nitidi sul rumore strascinato delle ruote del carro, sembrava inverosimile.

Qualche volta ricevevo l’incarico antelucano di passare dalla lattaia a prendere un pentolino di latte: uscivo di casa e scendevo verso la piazza, rasentando i muri dei quali conoscevo ogni anfratto, ogni mattone o pietra, ogni chiazza scalcinata. Conoscevo la misura di ogni edificio, la larghezza di ogni cancello o portone, la luce che filtrava da ogni finestra, gli odori che emanavano da ogni porta.
Il latte si comprava sciolto. La latteria era una stanza umida divisa dalla strada da una tenda di palline colorate che tintinnavano ad ogni passaggio.
Il bancone era di legno, verniciato con maldestre pennellate di vernice gialla. Sulla mensola erano allineati i recipienti di diversa capacità in perfetto ordine decrescente. Lungo una parete sostavano schierati i bidoni zincati dei “menalatte”: ritti e coperti quelli pieni, rovesciati a scolare sul pavimento in pendenza quelli vuoti.
Sotto il bancone, nella zona riservata ai clienti, c’era un mastello pieno dal quale la lattaia attingeva pescando sul fondo con un lungo mestolo cilindrico, esperta nel raccoglierne la giusta quantità e nell’evitare le mosche che, nuotando frenetiche, galleggiavano sulla superficie schiumosa, affogando nella sazietà.

1954 - LA SCUOLA (1): l'edificio


La scuola elementare era un semplice edificio umbertino, un parallelepipedo a due piani, che però aveva una sua schematica solennità, sufficiente ad intimorire i figli d’analfabeti che lo frequentavano. Il grande rettangolo della facciata (rosa o color mattone?) era abbellito da inserti di pietra grigia che ne movimentavano l’aspetto tetragono (ma forse non si trattava di pietra grigia, forse erano fasce di povero cemento martellato o strisce colorate col pennello, per me indistinguibili): grigi erano, in orizzontale, l’alto zoccolo alla base, la fascia marcapiano che lo tagliava a metà e la cornice sotto la gronda; ed in verticale, mi sembra di ricordare che ci fossero dei grigi falsi pilastri sui due angoli e forse due lesene al centro della facciata che incorniciavano l’ingresso principale e il soprastante balcone.

Grigie erano anche le tre brevi scale che dal cortile portavano alle aule del piano rialzato: una centrale, che si allargava a colata di lava sul cortile ed era impreziosita da una balaustra di pietra; due laterali, ai due angoli dell’edificio, dritte e protette con semplici ringhiere di ferro.
Sulla facciata erano allineati in perfetta simmetria i vani delle porte e delle finestre: quattro finestre disposte sul piano rialzato a destra e a sinistra del portone; due porte secondarie ai lati; dieci finestre al primo piano, cinque a destra e cinque a sinistra del balcone, rigorosamente corrispondenti alle finestre e alle porte d’accesso laterali del piano sottostante.
Il ricordo di questo edificio mi è rimasto stranamente vivo nella mente - forse enfatizzato dal ricordo e sopravvalutato - perché nel piccolo paese contadino non c’era nessun altro fabbricato, se si esclude la chiesa, che avesse un aspetto così importante; e nessun edificio da me allora frequentato aveva una così ragguardevole apparenza, resa ancor più rilevante dalla funzione per la quale era stato innalzato.
Nemmeno il municipio aveva forme migliori o pregi architettonici più pretenziosi, essendo ospitato in due stanzoni che ai noi villici apparivano importanti, ma non erano altro che esageratamente vasti perchè ricavati da un fienile, per accedere ai quali era stato costruito un ampia scala che alla insolita dimensione affidava l’inutile sforzo di sembrare sontuosa.

Ai tempi in cui i nostri padri erano bambini, la scuola non c’era: i pochi alfabetizzati raccontavano di aver saltuariamente frequentato le lezioni in aule provvisorie ricavate da stanzoni umidi, con porte di legno che si aprivano direttamente sulla strada polverosa e con le finestre che guardavano su portici ingombri di legna e canestri sfondati.
Le loro aule non avevano lavagne e carte geografiche, cattedre e alfabetieri; non avevano nemmeno la dotazioni obbligatoria del ritratto del re. I banchi erano tavolacci traballanti, le sedie erano spaiate e spagliate, residui di traslochi o scarti di quelle famiglie che, uscendo dalla miseria, ostentavano il raggiunto benessere cambiando i mobili del tinello.
Noi utilizzavamo il nuovo edificio - inaugurato pochi anni prima da uno stuolo di monsignori, ispettori e podestà - con una certa diffidenza: troppo diversa era l’aria che si respirava in quelle stanze dai soffitti alti e intonacati, troppo vasti erano quegli spazi in confronto con le nostre buie cucine e fredde camere.
I nostri genitori, quando entravano in quello “stabilimento”, erano assaliti da un certo timore e dallo smarrimento.
Quando venivano a scuola, raramente, per iparlare con il maestri, attendevano nell’atrio la chiamata e si guardavano in giro con apprensione mista a curiosità: alcuni si aggiravano nei corridoi deserti, spiavano nei cessi i lavabi di zinco e i rubinetti, si soffermavano fra i banchi delle aule deserte lisciandone i ripiani con le mani, si affacciavano alle finestre incantati dalla luce.
Altri (io li ricordo tutti vestiti di nero e col cappello in mano) restavano in corridoio e si accostavano con cauta circospezione alle porte delle aule, sbirciando con diffidente curiosità l’altezza dei soffitti senza travi, i pavimenti di graniglia e l’arredamento lucido: non osavano oltrepassare la soglia, per non sporcare il pavimento ma soprattutto per l’inconfessabile timore che incuteva loro quel luogo della cultura nel quale, in quanto analfabeti, si sentivano fuori posto.
Noi bambini avevamo inconsapevolmente assorbito quei timori reverenziali e - pur frequentando quotidianamente quelle aule, quegli androni e quei corridoi - conservavamo dentro di noi l’atavica diffidenza nei confronti della sede e della istituzione.

Il cortile era ampio, chiuso a nord dalla facciata dell’edificio; a ovest dal muro scrostato di una casa che girava ottusamente la schiena alla scuola e al chiasso del cortile (ma - scoprii un giorno - apriva porte, finestre, verande e loggiati fioriti sul lato opposto); a est, di là da una rete completamente nascosta da fitti rampicanti, si intravedevano carri agricoli e si udiva un chiocciare di galline; a sud un muretto sormontato da una grata di cemento ci separava dalla strada; oltre la strada scorreva un fosso e al di là del fosso si stendeva uno sterminato campo circondato da pioppi, platani e gelsi.
In mezzo al cortile due smisurati pini si ergevano imponenti e più alti del tetto a oscurare il cielo, a occultare la simmetria della facciata, a pavimentare coi loro aghi secchi ogni metro di terra, a ombreggiare tutto. Dalle finestre delle aule che davano sul cortile non si poteva veder altro che il loro colore sempreverde (e sempre cupo): solo dalle finestre estreme del piano alto si potevano cogliere triangoli di cielo; e solo la neve riusciva a coprire per brevi giornate l’incubo di queste enormi cappe vegetali.
Nessun uccello vi faceva il nido.
Nessuno di noi li disegnava: erano troppo presenti nelle nostre malinconiche giornate scolastiche per essere considerati amici. Nessuno chiamava alberi quei monumenti che incombevano eterni
sulle nostre brevi stagioni.

Gli alberi veri erano i flessibili pioppi, le spinose robinie, gli enormi platani che sulla corteccia portavano segnate le mappe di isole e deserti. Alberi veri erano le querce ed i castagni del bosco sopra la collina fra i quali rivivevamo le avventure di Tarzan o di Robin Hood, in puntuale sintonia con l’ultima esperienza cinematografica. Alberi veri erano i meli, i pruni, i cachi, i rarissimi peschi e soprattutto i ciliegi: veri e desiderati come l’albero del paradiso, e come quello irraggiungibili al tempo della maturazione dei frutti, quando erano gelosamente piantonati dai proprietari dei broli. Solo i più temerari fra noi sfidavano l’ira dei contadini e la rabbia dei loro cani per conquistare, ostentare e divorare il bottino; i più grandi talvolta organizzavano spedizioni notturne e - dopo la razzia - distribuivano magnanimamente gli avanzi della loro refurtiva; mentre i più pavidi, senza eccessiva vanteria, si esercitavano a rubare la meno sorvegliata frutta acerba, la trascurata frutta marcia e i comunissimi fichi che crescevano incustoditi in fondo a tutti gli orti; oppure razzolavano sotto i noci imponenti che ombreggiavano le rimesse dei carri agricoli o gli accessibili gelsi che sorgevano ai margini di tutti i campi, generosi di dolcissime more, bianche o nere.

Nessuno considerava amici quei colossi che si piantavano saldi nella terra polverosa delle nostre ricreazioni e sfidavano il cielo, indifferenti al fermento dei nostri frenetici scavi fra le radici noccose che artigliavano la terra; nessuno amava quei pachidermi dalla scorza coriacea, insensibile alle incisioni, ai chiodi arrugginiti e alle sassate.
Ogni nostro gioco era condizionato dalla ingombrante presenza di quei tronchi; ogni corsa aveva tragitti obbligati; ogni aereo di carta veniva intercettato; ogni pallone vi trovava rimbalzi imprevedibili; le frecce fatte con acuminate stecche d’ombrello non riuscivano a conficcarsi in quella epidermide tigliosa e cadevano a terra spuntate.

L’interno dell’edificio era squallido e austero.
Della schematica magnificenza dell’esterno ricalcava solo la dimensione: le aule avevano soffitti altissimi, finestre lunghe, porte imponenti, lavagne enormi e pesantissime, stufe torreggianti, cattedre che dall’alto di predelle tribunizie incombevano come pulpiti sui banchi allineati.
Le nostre sedie erano agganciate in un blocco inscindibile al banco, il cui ripiano inclinato faceva da coperchio ad un contenitore nel quale tenevamo libri, quaderni, astucci di legno, indumenti, merende. Tutti noi sfidavano la sorte nascondendovi i più disparati oggetti: temperini, fionde, biglie, figurine, elastici, spilli, chiodi e bulloni. Articoli rigorosamente vietati a scuola e quindi causa di inesorabili requisizioni e di sadiche punizioni.
Il ripiano-sportello era incardinato in alto ad una parte fissa che aveva una scanalatura per la penna e per la matita e un foro per il calamaio.


mercoledì 20 maggio 2009

SESSANTOTTO E DINTORNI (9): la corrida


Il secondo fine settimana non ci schiodammo da Tutela dove, per la grande festa di S. Anna, il cantiere chiudeva per cinque giorni consecutivi.
In tutta la città la festa era ininterrotta: bancarelle e banchetti all’aperto, case aperte, gente per strada.
Furono cinque giorni di fuoco: mangiate pantagrueliche dove capitava, bevute congruenti a tavola e lungo le strade, sotto il sole e sotto le stelle, balli e canti, calore e sudore, corride e encierri.
In tutte le strade e le piazze, giorno e notte, si poteva mangiare e bere a sbafo: bastava far capire che si era stranieri e diventava difficilissimo liberarsi dalla generosissima ospitalità dei navarresi. Bastava avvicinarsi ad un banchetto imbandito o ad un crocchio di festaioli, che per non perdere tempo uscivano di casa portandosi dietro merende e spuntini, e chiedere informazioni sui prodotti gastronomici esposti o imbanditi e si finiva per saziarsi a crepapelle e andarsene con le scorte in un sacchetto.

Assistemmo ad uno scatenatissimo encierro, con i giovanotti delle contrade che, bulli e temerari, fuggivano lungo un percorso transennato inseguiti da una mandria di torelli scatenati.
I tori però correvano tutti più veloci dei ragazzotti e avanzavano in massa travolgendo tutto.
I pazzi incoscienti, una volta raggiunti, dovevano o arrampicarsi come gatti sulle staccionate di legno che delimitavano il percorso (ma non sempre ci riuscivano o ne avevano il tempo), oppure dovevano buttarsi per terra coprendosi la testa con le braccia (sperando di non farsi calpestare) o schivare il torello scatenato (sperando di schivare le corna degli altri diavoli del branco) o farsi incornare sollevando brividi, applausi, ilarità, ovazioni.
Il percorso obbligato finiva nell’arena: lì i torelli impazzivano, aizzati dal brulichio confuso di tutti i ragazzi che erano riusciti ad arrivare nella plaza.
Dall’alto delle gradinate si poteva assistere ad una caotica confusione di tori neri e omini bianchi che correvano all’impazzata sulla sabbia dell’ovale: i primi cercare schiene da incornare, i secondi cercare il rischio e la gloria. Nel caos però era difficile per i nostri eroi evitare di essere travolti: molti si paravano davanti ad un torello per una sfida frontale e, mentre studiavano le intenzioni del bestione prescelto, venivano travolti da un altro che mancava un altro bersaglio e travolgeva a caso chiunque si trovasse sul percorso. Era pazzesco vedere tori che correvano in disordine in mezzo alla folla, frenavano, davano scarti improvvisi, capottavano sulla sabbia, scalciavano; e ragazzi vestiti di bianco che correvano, si muovevano in giro senza meta, saltavano, agitavano le braccia per attirare l’attenzione degli animali, si arrampicavano sulle recinzioni, volavano per aria come burattini scomposti.
La folla in piedi urlava, applaudiva, incitava, acclamava, si sgolava, si agitava. Mi parve che la maggior parte degli spettatori facesse il tifo per i torelli. Non si spiega altrimenti il picco di eccitazione che scattava per ogni ragazzo che finiva incornato.

L’encierro era l’antipasto della corrida vera e propria: una sanguinosa ed orrida mattanza per noi
occidentali, un folle spettacolo eccitante per gli spagnoli.
Quel giorno ammazzarono “cinque tori cinque”.
L’ultimo dei cinque toreri era il leggendari o El Cordobes che non fu all’altezza della sua fama e fu fischiato. Il migliore fu il primo dei toreri, giovane, spavaldo, temerario, che rischiò forte con certe pericolose evoluzioni probabilmente per dare una decisiva accelerata alla sua carriera e per dimostrare, come fu, di essere meglio del Cordobes.
Le evoluzioni dei tori che attaccavano il torero erano accompagnate dal tradizionale “Olè!” urlato dalla folla.
Noi, per variare e distinguerci dalla massa, urlavamo “Alè, Ho Chi Minh!” inneggiando al capo del governo comunista del Vietnam del nord, in guerra contro gli americani.
In un paese governato ancora da Francisco Franco era un azzardo un po’ rischioso.
La gente che ci stava attorno ci guardava sorpresa, e si guardava in giro con circospezione e diffidenza, come per verificare che nessuno si accorgesse della nostra imbecillità.
Alcuni cambiarono di posto, allontanandosi da noi…

Alla fine dello spettacolo ce ne tornammo ai nostri alloggiamento.
Per la strada, lontano dall’arena e dalla folla che defluiva, ci accorgemmo di essere seguiti a distanza da un gruppo di gendarmi della Guardia Civil, col loro buffo cappello lustro.
Non ce ne curammo e proseguimmo sulla nostra strada, ostentatamente euforici.
Il drappello, accelerando impercettibilmente, ci raggiunse: ci fermarono, ci circondarono senza volerlo far sembrare.
Il capo, un tenente mi parve, ci chiese con pacatezza i documenti.
Con qualche fatica fummo identificati, un militare trascrisse i nostri nomi e indirizzi su un notes; il capo ci chiese cosa facevamo a Tudela, dove alloggiavamo, chi era il nostro responsabile, quanto ci saremmo fermati, se avevamo contatti, conoscenze, amicizie in Spagna.
Poi ci raccomandò prudenza (!), ci disse di avere rispetto per la Spagna, di osservarne le leggi e le tradizioni, di non approfittare della tradizionale cortesia degli spagnoli e del loro senso di ospitalità.
Infine ci restituì i documenti.
Il drappello si accomiatò imitando il tenente che ci fece il saluto militare.
Ricambiammo il saluto e tentammo di attraversare la strada, senza badare al semaforo che in quel momento era diventato, per noi pedoni, rosso .
Il tenente ci richiamò, indicò il semaforo, fece un paziente gesto di disapprovazione e sorrise.
Io volli strafare e rispondendo alla sua garbata paternale dissi, ammiccando per la sottile allusione politica, che in Italia noi passavamo col rosso.
Il graduato, sempre giovialmente, mi rispose che in Spagna quelli che attraversavano la strada col rosso e facevano gli spiritosi con le forze dell’ordine venivano portati in guardina per essere guariti dalla voglia di ridere e di prendere in giro.
Non demorsi: risposi che in Italia avremmo potuto farci vanto di aver dormito una notte nelle galere della Spagna Fascista.
Il "civilissimo" ma risoluto tenente mi avvertì che nelle galere del Caudillo non era facile dormire e che le celle erano mal frequentate, piene di spifferi, di rumori, movimenti e confusione …
E così dicendo accarezzava vistosamente il manganello che teneva infilato nella cintura.
Continuai a sorridere, di un sorriso un po' congelato, salutai con deferenza portando la mano alla fronte e girai i tacchi.
Il tenente ci disse: “Buena noche!” e ci osservò mentre ci allontanavamo.
I miei compagni mi seguivano mogi e un po' straniti.

Nella settimana di fiesta incontrammo parecchi studenti nostri coetanei di Tudela.
La nostra insopprimibile passione politica e la curiosità nei confronti dell’ultimo regime fascista d’Europa ci portava a interrogarli, a misurarne il tasso di insofferenza per la dittatura, a fornire informazioni sui movimenti studenteschi in Italia, a raccontare la nostra contestazione e a vantarci delle nostre libertà, a chiedere della censura, delle persecuzioni politiche, dei movimenti clandestini, …
Molti eludevano le domande, altri si allontanavano diffidenti, altri cambiavano discorso.
Alcuni, dopo qualche perplessità, divennero nostri amici.
Passammo ore a parlare di noi, delle nostre somiglianze e delle differenze, delle identiche aspirazioni e delle disuguali condizioni, dei paralleli conflitti amorosi e dei dissimili stili di vita.
Mi parve che le ragazze fossero più disinibite dei maschi, più aperte, più informate, più recettive, più pronte al dopo-Franco.
Una sera fummo ospiti di un gruppetto selezionato di loro e passammo alcune piacevolissime ore a bere Fundador (offerto da noi) in uno scantinato che era stato attrezzato come covo di ribelli ma aveva tutto l'aspetto di un rifugio destinato a scopi non proprio rivoluzionari: frasi generiche alle pareti, inneggianti alla libertà, alla creatività, alla fantasia, all’amore universale; poster di pop star e foto artistiche-simboliche (fiori, cieli azzurri, uccelli in volo, macchie psichedeliche,…); arredamento rimediato, tappeti, cuscini e drappi; radio e giradischi con dischi affastellati e impolverati (pochi dischi inglesi e americani, nessuno italiano).
Fra di loro c’era un ragazzo che tentava di darsi importanza con una scontrosità impermeabile e si illudeva di emanare e incrementare il suo oscuro fascino standosene caparbiamente in silenzio.
C’era una ragazzona espansiva e piena di voglie (di contatti, di affetto, di allegria, di bere, di cantare, di uscire, di restare sveglia, di visitare l’Italia).
C’era anche una ragazzetta magra, con un disarmante sorriso dolce e splendidi occhi neri, mobili e curiosi.
C’era un ragazzo con i capelli lunghi e unti che suonava la chitarra e pareva il leader del gruppo ma forse era semplicemente il padrone della cantina.
E c’era infine una bellissima ragazza alta e magra, dalla pelle scura, con un viso lungo e zigomi pronunciati, capelli neri e lucidi, occhi neri grandissimi; noi la chiamavamo Carmen, ma aveva un altro nome; cantava con voce roca delle dolcissime canzoni d’amore e, con la stessa voce fascinosa, recitava sospirando poesie di Neruda.
Mi persi nel deliquio ad ascoltare alla fioca luce di candela l’Ode alla cipolla, con nelle ossa l’umidità del sotterraneo e nel naso l’odore di polveri antiche e muffe.


SESSANTOTTO E DINTORNI (8): gli ultimi franchisti

L’Escorial mi apparve immenso, quasi irreale, un possente scatolone di granito grigio, con torri sui quattro angoli ad esaltarne il vigore. Spiccava immerso nel verde, nel fresco pulito di rilievi boscosi della sierra di Guadarrama, così diversi dalle mesete brulle della Aragona e dalle sierre di Navarra che non pareva di essere in Spagna.

L’ostello era occupato da una falange intera di ragazzotti appartenenti ad una qualche organizzazione paramilitare franchista. Il cancello era sorvegliato da due sentinelle impalate e da una specie di caporale a cui non pareva vero il ritrovarsi nella condizione di esercitare il suo potere di controllo e interdizione.
Il mio aspetto e l’abbigliamento rivelavano chiaramente che ero straniero e svelavano anche la mia estraneità, la mia lontananza, culturale oltre che geografica, da loro.
Le due sentinelle mi si pararono davanti senza parlare, il caporale, con un fare un po’ troppo brusco e autoritario per i miei gusti, mi chiese chi fossi e dove volessi andare.
Risposi che ero un turista e che cercavo l’ostello della gioventù.
Il caporale, dopo una lunga ed irritante pausa, mi chiese i documenti.
Gli risposi che i miei documenti li avrei mostrati al “papà albergatore” nella reception, nel momento della registrazione.
Vidi un segno di panico nei suoi occhi, seguito da un lampo d’ira: non rientrava fra i suoi schemi mentali la eventualità di essere disobbedito, la possibilità di essere contestato; forse fino a quel momento, almeno in quella divisa e in quel ruolo, nessuno mai aveva osato mancargli di rispetto.
Si contenne e mi disse gelidamente che se non mostravo i documenti non potevo passare.
Gli chiesi altrettanto freddamente quale autorità vantasse per impedirmi il transito.
Mi sciorinò i suoi gradi.
Gli dissi che non conoscevo né riconoscevo la sua organizzazione; che non riconoscevo la sua autorità.
Mandò uno dei due soldatini a chiamare il suo capo.
L’attesa fu breve.
Un adulto vestito da ragazzo, braghe cachi su gambe pelose, si presentò e mi interpellò con la apparente calma dei forti e la ostentata pazienza di chi è abituato ad aver a che fare con degli incolti.
La scenetta recitata col caporale fu replicata con poche varianti.
Il grande capo mi spiegò che l’ostello era interamente occupato dalla sua organizzazione: i graduati riempivano l’ostello e la truppa era acquartierata in una tendopoli nell’immenso parco.
Di nuovo spiegai che la tessera della mia associazione mi dava il diritto di dormire e mangiare nell’ostello, che volevo parlare col responsabile (il “papà albergatore”), che nessuno poteva impedirmi di passare da quel cancello, che se non mi faceva passare avrei chiamato la polizia, avrei denunciato il sopruso alla sede internazionale degli “auberges de la jeunesse”, avrei fatto chiudere l’ostello, avrei denunciato il fatto alla stampa,…
Lo vidi tentennare, incerto fra il cedere alla mia ostinazione e liquidare immediatamente una questione spinosa ed il resistermi alzando il livello dello scontro, se non altro per salvare la faccia di fronte ai suoi sottoposti.
Colsi l’attimo e aggirai il presidio dicendo che, se mi volevano arrestare, avrebbero potuto trovarmi o negli uffici dell’ostello o nella stanza che mi sarebbe stata assegnata.

Il papà albergatore mi accolse con un sorriso preoccupato. Mi chiese i documenti e la tessera degli ostelli, mi domandò da dove venivo, quanto mi fermavo e dove mi sarei diretto, infine mi assegnò un posto letto in una camera da otto che si affacciava su un breve corridoio di fronte alle cucine, al piano terra.
Le altre camere, che si aprivano su un altro corridoio, e tutte le camere del primo piano erano occupate dalla falange di eroi; l'atrio, le scale, gli ingressi erano presidiati da guardie col pugnale alla cintola.

Fino all’imbrunire me ne restai a letto, ascoltando lo scalpiccìo di scarpe chiodate e le chiacchiere ipereccitate di quell’esercito di giovani balilla.
Uno squillo di tromba fece cessare il vociare confuso; lo scarpinare si fece confuso e frenetico e poi, al comando isterico di un caporale, si tramutò in passo cadenzato.
La truppa fece una breve manovra e poi fu di nuovo silenzio.

Avevo fame.
Seguendo le indicazioni raggiunsi la sala da pranzo che trovai deserta.
Il papà albergatore mi disse che il pranzo, considerato il numero elevato degli ospiti, veniva servito nello spiazzo dietro l’ostello.
In quel momento si udì un altro comando urlato a cui seguì un vociare confuso e uno strepito di stoviglie.
Il rancio stava per essere servito.
Mi affacciai sullo spiazzo e mi trovai di fronte ad una spianata di innumerevoli tavole perfettamente allineate come le tende di un accampamento romano e sobriamente imbandite: sulla destra, distaccato dagli altri, c’era il tavolo dei graduati, interamente occupato da uomini di mezza età e dall’aria tutt’altro che marziale; sulla sinistra si allungava un tavolone di servizio coperto da marmittoni e presidiato da cuochi e inservienti.
Dal tavolone si snodava in una lunghissima e disciplinatissima fila l’intero battaglione: le reclute ritiravano la loro spettanza e andavano a sistemarsi, in ordine, ai tavoli, squadra per squadra.
Ignorai gli occhi rivolti su di me e puntai i calderoni alla mia sinistra.
Un cuoco scambiò uno sguardo col responsabile dell’ostello alle mie spalle e mi fece un gesto di invito.
Venni servito immediatamente, non per la cortesia che si riserva agli ospiti ma per togliersi dalla vista un civile che scombinava l’ordine marziale della adunata.
Col mio vassoio (posate, pane, caraffone di acqua e un piatto fondo con un intruglio profumato di patate e carne) mi diressi al tavolo più lontano, attraverso la spianata deserta, mi sedetti sull’angolo da cui potevo tener d’occhio la truppa e gli ammiragli e cominciai a mangiare.

Tutti i tavoli si riempirono gradualmente. Il mio rimase vuoto.
Finii prima degli altri e, in attesa degli eventi, mi accesi la pipa ostentando l’atteggiamento più anarchico che potessi.
Osservando i commensali potevo distinguere i ragazzi in tre categorie: i normali, che mi sbirciavano con curiosità; i dissidenti potenziali, che mi guardavano con malcelata invidia; gli ortodossi, che mi guardavano con superiorità e disprezzo.

Dopo cena assistetti a dei rituali che dovevano essere quotidiani: una squadra addestrata sparecchiò fulmineamente e ripulì i tavoli, i ragazzi si girarono tutti verso una pedana sopraelevata, il brusìo si smorzò, sulla pedana apparve una squadretta di capi, il più alto di grado si avvicinò ad un microfono, ticchettò con un dito sul microfono acceso, si schiarì la voce con un colpetto di tosse, iniziò a parlare con voce pacata, seguito in religioso silenzio; alla fine del discorso - tutti in piedi - fu intonata una preghiera, recitata con militaresca simultaneità di gesti e marziale consonanza di voci; cantarono infine un inno dall’aria energica e vittoriosa, venne ammainata la bandiera nella commozione generale.

Dalla mia postazione d’angolo osservavo e ascoltavo il tutto con le gambe accavallate sulla panca, le scarpe sotto la panca, il cappello in testa, la pipa in bocca, senza scompormi e senza ricompormi, distaccato e assente, sotto lo sguardo ostile di una milizia irritata e impotente di fronte alla mia insolente, arrogante noncuranza.
Finalmente la truppa si ritirò nelle tende.
Fumando la pipa, aspettai che calasse il silenzio.
Aspettai che facesse buio.
Mi sdraiai sulla panca.
Solo allora mi accorsi che sopra di me il cielo era di un blu mai visto, punteggiato da chiarissime stelle.

La visita all’Escorial non riuscì a diradare la rabbia che mi si era depositata dentro nel vedere tutta quella gioventù ottusa e fanatizzata dal franchismo proprio nell’anno in cui in tutto il mondo esplodeva la rivoluzione dei fiori.
Lo sconforto aveva origine soprattutto da una riflessione disarmante e da una constatazione amarissima: la mia generazione, come tutte, non sapeva essere altro che conformista.
Conformisti erano i giovani franchisti intruppati come i balilla fascisti o come la gioventù hitleriana di trent’anni prima; conformisti erano i cinesi che sventolavano libretti e bandiere e propugnavano la rivoluzione proletaria; conformisti erano gli hippyes che infilavano fiori nelle canne dei fucili e predicavano il libero amore; conformisti erano i miei amici che - scimiottando i cinesi, i parigini o gli americani - sfilavano in corteo invocando la fantasia al potere.

SESSANTOTTO E DINTORNI (7): campo di lavoro in Spagna

Il problema delle vacanze estive lo risolsi iscrivendomi all’associazione internazionale dei “Soci Costruttori” che organizzava campi di lavoro in giro per l'Europa.
Nel luglio del sessantotto partii per Tudela, una città di provincia a metà strada fra Saragozza e Bilbao.

Lavoravo in un cantiere edile come manovale: dovevamo sopraelevare di un piano una fila di basse casette popolari allineate lungo una stradina alla periferia della città.
Gli inquilini non avevano abbandonato i loro appartamenti scoperchiati: di notte ci dormivano; all’alba se ne andavano, dopo aver rivestito completamente le stanze a piano terra con teli di fortuna e vecchie lenzuola e dopo aver seppellito i mobili sotto stracci, carte e cartoni; alla sera tornavano a controllare con aria perplessa il procedere dei lavori e si infilavano nei loro letti polverosi sotto le stelle.
Se il cielo si rannuvolava, era necessario stendere sulle travi del solaio dei teli cerati che avrebbero dovuto resistere al vento; di giorno il compito spettava a noi, di notte agli inquilini.
Il contratto prevedeva che si lavorasse trentasei ore la settimana, sei ore per sei giorni, dalle otto alle quattordici. Per aver liberi i pomeriggi ed i fine settimana, avevamo scelto di lavorare otto o nove ore al giorno.
Arrivavamo in cantiere alle prime luci dell’alba e indossavamo la nostra strana divisa: braghe corte, giubbino e cappello di telaccia bianca, grezza e robusta. Col fresco del primo mattino preparavamo la malta, portavamo i mattoni sulle impalcature, predisponevamo gli attrezzi necessari. Sotto di noi gli inquilini si svegliavano, si lavavano e si preparavano per andare al lavoro, muovendosi silenziosamente come cavie sul fondo delle loro stanzette ridotte a scatole scoperchiate: più di una volta ho dovuto allontanarmi, camminando con discrezione sulle assi sospese, per consentire a qualche residente assonnato e pigro d’intestino di trattenersi il tempo necessario nel suo angusto cessetto di mattonelle azzurre.
Quando i muratori spagnoli arrivavano, il lavoro poteva cominciare senza perdite di tempo. Ogni operaio edile aveva a disposizione almeno tre studenti-manovali: per quanto inesperti, consentivamo ai vecchi operai aragonesi di procedere celermente. I più esperti di noi furono iniziati alla nobile professione del mastro muratore e, sotto la stretta sorveglianza dei capimastri, ebbero il permesso di collocare le file dei mattoni.
Il lavoro era faticoso ma estremamente gratificante: imparai a lanciare i mattoni da un piano all’altro o ad afferrarli al volo senza smaraccarmi le dita, a impastare la malta dosando gli ingredienti, ad usare le carrucole, a bilanciare il peso delle carriole, a salire senza protezione sulle impalcature, a camminare in bilico sulle travi e sui muri, ad usare il filo a piombo, ad intonacare, ….
La fatica ci rompeva la schiena, il sole ce la scorticava. Nessuno però si imboscava: eravamo lì per lavorare e lavoravamo; eravamo volontari e ci impegnavamo; non cercavamo soldi e poca fatica, ma gloria e dedizione totale. Nessun muratore ebbe mai occasione di pungolarci.
A metà mattina si faceva una pausa: ci si lavava con l’acqua di un bidone intiepidita al sole, si divoravano pagnotte enormi imbottite di jamon saporito o di salumi piccanti, si beveva zampillando in gola - a bocca aperta - qualche schizzo un vino o sorsate abbondanti di acqua freschissima.
Il vino locale, aspro e forte, era contenuto in strane ampolle di vetro dal lungo becco; l’acqua si conservava fresca in semplici brocche di terracotta tenute costantemente bagnate in un angolo ombroso.
I muratori ci insegnarono, fin dal primo giorno, la tecnica del bevuta a garganella.
Le lezioni teoriche e - soprattutto - le dimostrazioni pratiche del modo ortodosso con cui si doveva impugnare l’ampolla del vino e reggere la brocca dell’acqua portavano via molto tempo. Il liquido doveva zampillare dall’alto e gorgogliare in bocca. Era da imbranati sbrodolarsi la gola o la casacca. Non era permesso avvicinare le labbra ai becchi. Non era permesso arrestare lo zampillo. Bisognava imparare ad deglutire a bocca aperta o annegare.
Particolarmente curioso - e funzionale - era il modo di impugnare la boccia d’acqua, tenuta col pollice e sorretta col gomito piegato, con l’acqua che scaturiva “alzando il gomito”.
Durante le prime lezioni, nelle quali rigorosamente veniva utilizzata l’ampolla piena di vino, era inevitabile mancare la bocca e lavarsi la faccia o farsi andare di traverso lo schizzo e imbrattarsi la canottiera, fra tossi, risate e lacrime. Se per caso uno di noi riusciva nella difficile impresa e superava indenne la prova, riscuoteva i complimenti di tutti, veniva festeggiato e - a tradimento - riceveva il battesimo del vino, ritrovandosi alla fine nelle stesse condizioni dei maldestri.

Un fine settimana lo passai a Madrid.
Partii da Tudela un venerdì a mezzogiorno e trovai immediatamente un passaggio. Viaggiare in autostop in Spagna era una goduria. Non c’erano i tempi di attesa lunghi come in Italia o infiniti come in Germania (dove gli automobilisti diffidavano dei vagabondi). Bastava mettersi sulla strada e alzare il pollice che si trovava immediatamente un passaggio. Sotto il regime di Franco l’autostop era ancora poco praticato, forse vietato. Gli unici sovversivi che osavano mettersi ai margini delle strade col pollice alzato eravamo noi giovani stranieri: per questo, in un paese ancora relativamente chiuso, la curiosità degli indigeni nei nostri confronti e la disponibilità erano enormi. I nostri occasionali tassisti ci caricavano con allegria, si scioglievano in mille cortesie e attenzioni, ci subissavano di domande, curiosi di tutto, …
L’infinito viaggio lo ricordo come una esperienza a sé.
E più che le persone e le chiacchiere, ricordo i silenzi, la luce, i sobbalzi, le lunghe salite e discese, la meseta gialla e brulla, monotona e infinita, fra sierre secche e pelate, i dossi spogli, le enormi sagome nere del toro che pubblicizza un distillato famoso, le coltivazioni, le case isolate, gli alberi, i pascoli, le nuvole, …

Di Madrid ho due ricordi vivi: la dimensione smisurata delle strade e delle piazze e l’emozionante
visita al Prado. In particolare mi restarono impressi i disegni del Goya, il tratto sicuro della matita, la potenza essenziale delle figure, l’energia viva delle espressioni dei visi appena abbozzati, la composizione dinamica, l’efficace uso dei vuoti, …

martedì 19 maggio 2009

SESSANTOTTO E DINTORNI (5): libri, libri, libri

La lettura, soprattutto notturna, continuava ad essere pane dell’anima.

Sono di quegli anni i primi tascabili.
Feci incetta degli Oscar Mondadori, che costavano 350 lire. Me li divoravo uno dietro l’altro, di settimana in settimana. Lessi tutti gli americani (Steinbeck, Dos Passos, Hemingway, Faulkner, Fitzgerald, Miller,… ); molti francesi (Sartre e Camus in particolare, e Proust, De Beauvoir, Beckett, Jonesco, Duras e Yourcenar); nessun tedesco (ho idiosincrasia nei confronti degli autori di lingua tedesca, esclusi alcuni austriaci); lessi tutto Cecov, nella BUR; lessi Kafka; lessi con avidità tutte le opere di Calvino rinvenute in biblioteca, e Pirandello, Svevo, Moravia, Levi, Vittorini, Pavese, Fenoglio, Lajolo, Silone, Sciascia, Tomasi di Lampedusa, Gadda, Manganelli, Pasolini; mi divertii con Piero Chiara e un suo emulo, Gino Pugnetti.
Molti libri li acquistavo sulle bancarelle: è incredibile quali piccoli tesori e quali gustose occasioni si possono trovare sulle bancarelle (dove - immaginavo allora - delle stupide ed ignoranti vedove si liberavano dei troppi, ingombranti ed inutili libri di inutili mariti finalmente defunti; dove gli eredi di eruditi zii avvocati o preti, tentavano di realizzare qualche quattrino).
In biblioteca passavo ore a spulciare i cataloghi, per autore, per argomento.
Parlavo delle mie letture con chi potevo, scambiavo consigli e libri.

Ogni autore provocava un innamoramento, una piccola infatuazione, una passionale cottarella.

Gadda mi conquistò per il suo modo di scrivere, per la complessità stilistica da lui adottata anche per descrivere la più comune delle situazioni, per la commistione di stili e per i dialettismi strampalati ed i gerghi decontestualizzati, per le scelte lessicali eterogenee e l’uso di termini bislacchi o di parole mutuate da linguaggi specialistici, per le metafore estreme ed i giudizi icastici, freddi e lapidari.
Lessi di seguito L’Adalgisa, più acida del Giorno di Parini nei confronti di certa milanesità; lessi d’un fiato, anche se con qualche fatica di decodificazione, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, ferocissimo ritratto - sotto forma di romanzo poliziesco - della spregevole società, ipocrita in superficie e fetente nel profondo; lessi il più ostico La cognizione del dolore, storia della feroce ribellione di un uomo dilaniato dalla sofferenza e vittima rabbiosa dell’ingiustizia.
Mi parve, mi pare, che Gadda volesse dire cose estreme ma camuffasse con l’ironia e l’autoironia l’urgenza di gridare la sua rabbiosa analisi; che avesse bisogno di ribaltare in riso il pathos, di contenere l’orrore con lo sberleffo, di filosofeggiare sul banale e banalizzare la filosofia, di sconcertare il lettore per tenerlo a distanza, e sveglio, di spiazzare chi si adagiava sulle righe, di scompigliare l’ordine, di guastare la giornata.

Calvino fu un amore assoluto. Lo scoprii leggendo la trilogia de Il visconte dimezzato, Il barone rampante e Il cavaliere inesistente, tre apologhi che sanno essere comici, rigorosi ma anche semplici, profondi come vangeli ed esilaranti come farse, graffianti e nello stesso tempo eleganti, perfetti meccanismi ispirati da una severa eticità ma anche da una commiserazione sottile per le debolezze umane, pamphlet allegorici intrisi di impegno non moralista e di divertimento non superficiale, inconsistente, d’evasione.
Esilarante nell’impianto generale e negli originali spunti appare la storia del visconte che colpito da una cannonata si spacca a metà come una mela con le due mezze parti che sopravvivono, una totalmente malvagia da cui tutti fuggono, una esageratamente retta che tutti evitano per il suo esasperante buonismo.
Spiazzante è la storia del barone che per un capriccio infantile sale su un albero e - sfidando chi ha detto “lasciatelo perdere che prima o poi scenderà” - vive tutta la vita fra i rami, ribelle perpetuo, caparbio, coerente.
Angosciante il personaggio puro del cavaliere che eleva la sua obbedienza ascetica ad un livello di alienazione così alto da … non esistere, agendo solo con la forza della fede e della purezza dell’ideale cavalleresco.
Lessi poi tutti i Racconti, Marcovaldo, Le fiabe italiane, La giornata di uno scrutatore, Le cosmicomiche e Ti con zero (fantascienza dei primordi, giochi di funambolismo spaziotemporale).

Camus mi conquistò con Lo straniero. Dalla prima riga mi turbò per la inquietante lucidità con cui accettava il dolore e l’assurdità dell’esistenza. Scoprii in seguito - leggendo La peste, La caduta, Il mito di Sisifo, i racconti e le piece teatrali - anche la sua passione per la vita e la libertà, coltivate pur nella consapevolezza della inutilità di ogni rivolta. Mi piacque di lui la scelta, simile alla mia, di essere un ribelle e di coltivare una rivolta interiore vivendo la immodificabile quotidianità. Come lui ero moderatamente soddisfatto di essere ateo, non potendo credere in un dio che consente la assurda morte, ma di esserlo senza accanimento e senza rabbia; di considerare la religione e la rivoluzione due forme di inganno, oppio dei popoli l’una non meno dell’altra; di praticare la solidarietà non per le classi sfruttate ma per gli individui, spesso sacrificati dalle logiche politiche di chi li vuol salvare…
Così io leggevo, capivo e amavo Camus, il mio inquieto padre spirituale, morto nel 1960, a 47 anni, in un incidente d’auto.

Non così intensamente amai Sarte, del quale non capivo e non mi sforzavo di capire le teorie esistenzialiste. Del vecchio filosofo mi piaceva comunque la suggestione della scrittura e, soprattutto, apprezzai l’impegno politico di un comunista che con una invidiabile autonomia di pensiero si schierava contro l’Unione Sovietica che invadeva Ungheria e Cecoslovacchia, contro il suo governo che attuava repressioni spietate in Algeria, contro gli USA nella guerra del Vietnam. Mi era simpatico quel vecchio impenitente, compagno oltretutto della Simone De Beauvoir, che era per la rivoluzione di Castro, che nel ‘64 rifiutava il premio Nobel per la letteratura, che nel ’68 si schierava con gli studenti del maggio parigino.

Kafka, lo sconvolgente Kafla, fu - e resta - uno degli autori da me più intimamente amati, col suo essere “kafkiano” in ogni riga, con la sua assurdità angosciante, incontrollabile.
Alcune sue riflessioni, glaciali di desolante disperazione e di nichilismo metafisico, erano per me accecanti, tanto rispecchiavano la mia tristezza e la mia metafisica e poetica propensione alla malinconia:
“Dormito, destato, dormito, destato: vita miserabile” (Diari, 19 luglio 1910);
“Stamane per la prima volta dopo lungo tempo di nuovo la gioia di immaginare un coltello girato nel mio cuore” (Diari, 2 novembre 1911);
“Sono disfatto… Un vaso vuoto ancora intero e già fra cocci oppure già coccio e ancora fra gli interi. Tutto menzogna, odio e invidia. Inetto, sciocco, duro di comprendonio. Tutto pigrizia, debolezza e incapacità di difesa. All’età di trentun’anni” (Diari, 6 agosto 1914);
“Un’immagine della mia esistenza sarebbe una pertica inutile, incrostata di brina e di neve, infilata obliquamente nel terreno, in un campo profondamente sconvolto, al margine d’una grande pianura, in una buia notte invernale” (Diari, 5 dicembre 1914).
“È come se uno fosse prigioniero e volesse non soltanto fuggire, il che forse sarebbe possibile, ma anche trasformare la sua prigione in un meraviglioso castello” (Lettera al padre).
Lessi tutte le sue opere - romanzi, diari, racconti, frammenti di manoscritti - in fretta, come affamato, ricavandone una sensazione di disagio, di sgradevole imbarazzo. Gli avvenimenti nelle trame di Kafka sono irragionevoli, incontrollabili, incongruenti; sono l’espressione esasperata della mancanza di significato. Le situazioni appaiono incomprensibili, incoerenti, assurde, paradossali (il paradosso, lessi allora da qualche parte, è la verità capovolta per attirare l’attenzione). I personaggi si muovono passivi, degradati alla condizione di spettatori della loro storia; subiscono tutto drammaticamente, senza comprendere il senso di quel che accade, senza chiederne ragione, in un universo che gira nel suo irragionevole silenzio senza significato e senza razionalità.
Se non trovi che la vita abbia senso, vivila e non cercare altro. Se il vuoto ti sembra inaccettabile riempilo di un qualunque assurdo simulacro, di un artificio, di un fantoccio; e difenditi come puoi dall’angoscia che ti assale.
L’impresa più difficile dell’esistenza è proprio quella di dare un senso all’esistenza. Quando non si
trovano risposte è meglio non farsi domande.
“Un tempo non capivo perché non ricevessi risposta alla mia domanda, oggi non capisco come potessi illudermi di poter far domande. Ma non è che m’illudessi, interrogavo soltanto” (Quaderni in ottavo).

Anche Svevo - come Kafka, come Camus, come Pirandello - mi rappresentava con spietata lucidità.
Leggevo le pagine di Una vita ricordando l’adolescenza repressa in cui avevo sperimentato, in piena coscienza, l’amarezza della inettitudine, l’inganno delle velleità.
Leggevo Senilità e si rinnovava la sofferenza data della impotenza consapevole, dalla vecchiaia morale, dalla inadeguatezza esistenziale.
La coscienza di Zeno fotografava con fredda efficacia la crisi e la disperazione di chi si nutre di ambizioni e vive rassegnato nello squallore, di chi coltiva sogni eroici solo per sopravvivere alla miseria quotidiana.
Non c’è niente di più devastante che tenersi calda una illusione con la consapevolezza di non poterla realizzare. Non c’è condizione più amara di chi sorride con ironico distacco della propria deriva. Non c’è nessuno più infelice di chi, non avendo speranze, non si dispera.
La desolazione sperimentata nel passato e lo sconforto rivissuto nelle pagine di Svevo lasciavano comunque il segno, graffiavano l’anima, inquinavano le giornate, condizionavano lo stato d’animo, contaminavano il presente e si riverberavano sul futuro. Questo sfacelo produce la coscienza dello scarto che esiste fra illusione e realtà.

Di Pirandello lessi o rilessi le Novelle per un anno poi Il fu Mattia Pascal e qualche commedia, superando la riluttanza che avevo ed ho nel leggere piece teatrali.
Anche Pirandello toccava alcune corde sensibili, anche Pirandello sembrava aver scritto certe pagine per me: sull’angoscia ineliminabile, sulla fuga come unica soluzione (Il fu Mattia Pascal), sulla verità mai unica e sull’ambivalenza (Sei personaggi in cerca d’autore, Così è (se vi pare), Pensaci Giacomino, Piacere dell’onestà, Giuoco delle parti,…), sulla frammentazione della personalità e sulla follia estremo rifugio (Berretto a sonagli, Enrico IV).
In particolare mi colpì una novella che mi sembra fosse intitolata Il treno ha fischiato e raccontava la squallida esistenza di un vecchio e grigio impiegato, forse un copista, che sgobbava per uno stipendio da pezzente e portava del lavoro straordinario a casa dove viveva in condizioni pietose, forse con una moglie acida, forse con dei familiari malati e vecchi, tutti comunque aridi e irriconoscenti. Una notte d’estate il vento portò attraverso le finestre aperte il fischio di un treno che passava in lontananza. Il travet sognò di essere su quel treno, di andare lontano, di essere atteso da qualche parte, di avere una vita,… e impazzì. Lasciò il lavoro, precipitò nell’inedia, si isolò, si abbrutì. Fissava senza vedere e ripeteva in continuazione una sola frase: “Il treno ha fischiato”.

I falliti, in definitiva, attiravano la mia attenzione.
Quelli di Svevo (Alfonso Nitti in Una vita, Brentani in Senilità, Zeno in La coscienza di Zeno); quelli di Pirandello, alla ricerca di un’identità; quelli di Proust, alla ricerca del tempo perduto; gli indifferenti di Moravia; gli uomini senza qualità di Musil; i nauseati di Sartre (’38); gli stranieri apatici di Camus; gli assurdi pessimisti di Beckett; quelli stralunati di Ionesco.

Pavese mi attirò per questo, forse. Il suo suicidio lo leggevo come un gesto di rifiuto del senso di fallimento che accompagna la ordinata vita “produttiva” (scrivere, pubblicare, guadagnare, trattare con gli editori, fare i conti col mercato, coi recensori, con il gusto dei lettori,…), diversa dalla fase di vita “creativa” (macerarsi nell’inedia, nella malinconia senza rimedio, nella rabbia impotente, sentir crescere dentro la voglia di scuotere l’universo, scrivere per sfogarsi, …).

Di Pasolini amai prima di tutto la straordinaria ambiguità, l’incredibile sdoppiamento di un uomo anfibio che viveva una vita pubblica da intellettuale impegnato (poeta, saggista, romanziere, sceneggiatore, regista, … amico di tutti i più noti nomi della cultura) e una vita privata da disperato insaziabile libidinoso erotomane, cercando - di giorno e di notte - situazioni estreme: il massimo della raffinatezza nel coltivare l’ingegno, il massimo della dissolutezza nel praticare il sesso.
Mi piaceva l’inconsueta rappresentazione di questa doppiezza che traspirava dai suoi libri sugli emarginati di periferia (Ragazzi di vita del ’55 e Una vita violenta del ’59), libri che presentano un impianto narrativo sofisticato ma sono farciti da contenuti crudamente e chiaramente autobiografici.
Mi sconcertavano i suoi film (Accattone del ’61, Mamma Roma del ’62, La ricotta del ’63, Vangelo secondo Matteo del ’64, Uccellacci e uccellini del ‘66,…) nei quali rivela un raffinato “mestiere” ma fa trapelare nello stesso tempo una fattura apparentemente ingenua e usa attori pateticamente incapaci, grezzi, rozzi, brutti, sporchi e cattivi, impacciati, evidentemente reclutati sulla strada, quasi certamente conosciuti e reclutati nelle sue inquiete scorribande notturne.
Più tardi questa ambivalenza avrebbe trovato, prima della tragica ed emblematica soluzione, un suo equilibrio, una ragione d’essere data dalla dolorosa convinzione che la poesia non salva la vita, che la cultura non redime, che la letteratura non ha funzioni liberatorie e non è separabile dalla vita, che la privata mostruosità è la stessa mostruosità che consuma la cultura borghese, che l’intellettuale parla a vuoto ingannando se stesso e chi lo ascolta oppure urla utopie che nessuno sente e capisce, che i migliori maestri non credono in quello che dicono e sono consapevoli della propria inutilità, che i peggiori maestri sono quelli che predicano le virtù e consumano le anime.
Unica parentesi serena in questo tragico percorso sarà data dai film tratti dalle narrazioni popolane del Decamerone, dei Racconti di Canterbury e da Il fiore delle Mille e una notte, una trilogia fantastica che esalta la genuinità dei rapporti immediati - fisiologici - di persone spontanee in ambienti da favola, in tempi remoti, in mondi lontani.

Ritornai ancora su Pavese, Fenoglio, Laiolo, Ada Gobetti, Levi, Meneghello. E mille altri storici della Resistenza: Zangrandi (Il lungo viaggio attraverso il fascismo, in due volumi), Chabod, Ciano (I diari).

Giuseppe Berto mi affascinò col suo terribile libro di introspezione psicologica (Il male oscuro, del ’64) che cattura e trascina lungo le sue infinite righe senza punteggiatura, che incanta e trasporta nell’angoscia, e isola nella bolla onirica dell’inquietudine, e rinchiude nei pensieri neri; le sue elucubrazioni infinite risvegliavano in me i sensi di colpa rimossi, mi abbattevano nella desolazione della anaffettività, sollevando il rammarico di parole non dette, l’amarezza di conforti non dati, la disperazione per disperazioni non capite.

Lessi - parlo ora di poesia - i russi: la dolce, sensibile, trepida Achmatova; il chiassoso, agitato, epico Majakovskij; la tragica Cvetaeva e il vanesio Evtušenko; e Pasternak, ritrovato dopo la pubblicazione de Il dottor Živago; e altri autori scoperti in una bella raccolta di poesia russa del Novecento curata da A. M. Ripellino.
Lessi i poeti di lingua spagnola: il vivissimo e fantasmagorico Lorca, e Rafael Alberti e Neruda.
Lessi soprattutto, per scelta culturale, gli americani della beat generation (Corso, Ferlinghetti, Kerouac,…).

I bambini vogliono una fiaba prima di entrare nella notte; i giovani fiorentini nel Decamerone si raccontano novelle mentre fuori imperversa la peste; Sherazade per vivere si aggrappa ad una trama infinita.
La letteratura forse non salva la vita, ma aiuta a sopravvivere.


SESSANTOTTO E DINTORNI (4): gli amici del bar

Altre sere le passavamo in paese, nella “Gelateria”, il bar dei “giovani” che si affacciava sulla piazza; non nell’altro bar, detto il “Caffè”, dove si trovavano gli “uomini”, e cioè tutti quelli che - strana frattura generazionale - avevano anche solo due o tre anni più di noi.
Si giocava a biliardo o a “cicera”, un gioco di carte simile alla scopa che però prevedeva la distribuzione di tutte 52 le carte: 4 in tavola e 12 a ciascuno dei quattro giocatori.
A “cicera” ero un campione: in coppia con un mio amico bottegaio mi ritenevo quasi imbattibile. Tutti ci ritenevamo imbattibili, ricordando le vittorie e dimenticando le sconfitte.
Il trucco del gioco stava tutto nello sparigliare le carte o nel riparigliarle se si faceva il mazzo. Il gusto era nell’ostentare disinvolta sicurezza, nell’affinare un fortissimo intuito che ci faceva capire le strategie degli avversari e ci faceva trovare il modo di metterli in difficoltà, nel prevenire le mosse e uscire da situazioni complesse. Quando il gioco prendeva il suo verso scivolavamo verso la conclusione della mano con irritante allegria, canzonando i nostri rassegnati rivali.
Ogni tanto si giocava a scala, e mi difendevo bene. A poker ero una schiappa: troppo sincero, troppo ottimista, troppo temerario nell’azzardo.
A biliardo ero un mediocre giocatore: giocavo di potenza, d’intuito, di fantasia, ma ero poco preciso e poco calcolatore, non amavo i giri complicati, non sopportavo i tiri con effetto, non concepivo che si potesse giocare per mettere in difficoltà l’avversario. Tiravo a fare punti, e andasse come doveva andare. Se il mio avversario mi lasciava le biglie coperte e lo faceva con un tiro leggero, intenzionale, calcolato, freddo, … mi innervosivo e tiravo steccate devastanti solo per uscire dallo stallo.
Il gruppo era variamente composito: c’erano pochi studenti (non più di due o tre), alcuni artigiani, alcuni commercianti (o meglio, figli di commercianti che affiancavano i genitori con maggiore o minore senso del mestiere), molti operai. L’eterogeneità non creava ostacoli e non suscitava diffidenze: gli studenti, mosche bianche, appartenevano a famiglie operaie o a artigiane, avevano fratelli che lavoravano, zii appartenenti alle diverse corporazioni.
Nei confronti degli operai, in particolare, c’era un senso di stima e rispetto quasi religioso.
I nostri giovani amici parlavano della “Fabbrica” con devozione, amavano il loro lavoro, si impegnavano per specializzarsi su torni, frese o presse, celebravano con una considerazione che sfiorava lavenerazione l’operaio “specializzato” al quale erano stati affiancati per imparare il mestiere. Se il genio della fresa, quello che sapeva “fare le unghie ad una mosca”, era del paese ce lo indicavano da lontano (e spesso a me pareva un omuncolo insignificante), salutandolo – sempre da lontano - con un cenno del capo, e non osavano, fuori dallo stabilimento, rivolgergli la parola.
I nostri operai andavano tutti a lavorare in città, nelle grandi fabbriche, ora tutte chiuse, “dislocate” o demolite (Pietra, Tempini, ATB, Idra, Berardi,…). Il fratello di un nostro amico, poco più che ventenne, all’ATB ci lasciò la vita, schiacciato da un enorme tubo sganciatosi dalla gru.
Quando poco fuori dal paese venne aperta una fabbrica, il giovane imprenditore (mi sembra che si dicesse in giro con una punta di invidia mista ad orgoglio di classe che era un ex-operaio) tentò di accaparrarsi i migliori operai del paese sottraendoli alle altre aziende: alcuni “vecchi” non si lasciarono sedurre né dalla comodità, né da uno stipendio più vantaggioso, né da premi d’ingaggio; restarono fedeli al loro stabilimento, alle loro macchine, ai loro compagni e forse anche ai loro “padroni”.
Alcuni giovani, più ambiziosi, si lasciarono convincere e fecero effettivamente un salto di qualità e di carriera che la staticità dei ruoli nelle vecchie fabbriche avrebbe reso più difficile e lontano.
Ogni tanto si organizzava una incursione nei paesi vicini per bere un bicchiere di vino esotico, per fare una camminata su strade forestiere, per rompere la monotonia.
Qualche volta la spedizione veniva compiuta a piedi: si tornava verso il paese a notte fonda, lungo strade buie o male illuminate, camminando in fila indiana per evitare il fastidio di spostarsi al sopraggiungere delle rare auto. Si parlava tranquilli, ad alta voce per farsi sentire da tutti, dall’aprifila al chiudifila. Se il discorso ci infervorava, ci si fermava in crocchio per favorire la controversia. E se la discussione si rivelava più lunga del tragitto si tornava indietro per recuperare tempo e proseguire la disputa.
Ogni volta si ripeteva il rito della pisciata in compagnia. C’era sempre, fra tanti, uno che ad un certo punto si accostava al ciglio e annunciava al popolo il suo proposito: i discorsi si interrompevano e tutti si affrettavano a sbottonarsi la patta, schierandosi come fanti in trincea. Calava il silenzio. Ci si concentrava cercando ispirazione nei refoli di aria e si procedeva, rivolti verso il campo avvolto nella notte nera, sotto il cielo stellato, a sfida contro l’ignoto.
Dopo, a volte, non si riprendevano subito le dispute filosofiche sospese ma ci si lasciava prendere da una forma strana di malinconia, come se la vescica piena avesse influenza sulla tensione speculativa o come se il ritrovarsi fra le mani l’emblema della concretezza ci richiamasse alla realtà.
Spesso la meta era una delle vecchie osterie che sopravvivevano fra i vigneti sulla collina: ci andavamo a mangiare una salamella ai ferri, un pezzo di pollo, un panino imbottito, un pezzo di formaggio, un piatto di fagioli; giusto quel tanto che servisse ad accompagnare ed a giustificare una ciotola di “clinto”, il vinaccio fuorilegge fatto con uva selvatica, dal sapore corposo e robusto, dal colore denso e fosco che lasciava traccia sulle pareti della scodella.
Dalle osterie si usciva allegri e si tornava verso il paese cantando in coro. Amavamo cantare le canzoni di chiesa: Salve Regina, Dies irae, Mira il tuo popolo,… D’inverno imperversavano i canti di Natale.
Ogni tanto qualcuno intonava un pezzo lirico: ci scatenavamo allora in improvvisazioni in stile operistico che non finivano mai. Per tutto il tragitto si levava una tenzone scombinata fra bassi, baritoni, soprani e tenori che si scambiavano battute e contrasti, insulti e invocazioni, villanie e preghiere, dichiarazioni d’amore e improperi, in un melodramma infinito ed esilarante.
Il canto si innalzava libero fra valloni e vigneti sotto le stelle. Per chilometri non c’era anima viva che dormisse nel suo letto: in giro su quelle “caedagne” c’erano solo giovani sguaiati buontemponi e vecchi ubriaconi, malfermi, solitari e silenziosi.
Nessuno ci zittiva. Solo qualche cane in lontananza osava comunicarci la sua rabbiosa disapprovazione. E noi interrompevamo l’opera per rispondere con abbaiamenti più convincenti e furiosi di quelli veri, e nasceva fra noi e il cane in una gara di latrati e guaiti - con intrusione di miagolii - che ci vedeva sempre vincitori.
In piazza ci si univa in coro per intonare, per noi e per il paese intero, l’ultimo potente, accorato, passionale “Miei prodi sodali, addioooooo” che ci lasciava senza fiato.

domenica 17 maggio 2009

SESSANTOTTO E DINTORNI (3): solidarietà

Quando da qualche parte capitava una catastrofe - alluvione, frana o terremoto - una nutrita squadra di studenti partiva a portare aiuto.
Pur non sapendo chi fossero i promotori e non conoscendo chi curasse l’organizzazione, i trasferimenti e la logistica, mi accodavo sempre ai volontari, ovunque fossero diretti. La precarietà delle mie occupazioni e la elasticità del mio programma di studio lo permettevano.
Nello zaino militare ficcavo un sacco a pelo, quattro stracci, un paio di scarponi e mi presentavo all’ora convenuta nel cortile dell’università.
Portammo aiuti nel Friuli, in Piemonte, in Macedonia.

Nel vercellese mi spaccai la schiena in una fabbrica costruita sul greto di un torrente e sommersa da una piena.
Bisognava disseppellire dal fango le macchine tessili, lavarle con acqua e pennelli per consentire i tecnici di controllare i guasti, ripararli, sostituire pezzi; poi dovevamo ingrassarle per renderle operative il più in fretta possibile per restituire il lavoro alle operaie e il profitto ai padroni.

Nel veneto mi ritrovai a spalare detriti da una scuola semidiroccata.
Si sgobbava dall’alba al tramonto fra badili e secchi, picconi e carriole. Nonostante i guanti le mani si riempirono di vesciche fin dal primo giorno. Per non perdere tempo si mangiava sul posto e in fretta, pane e mortadella, tonno e fagioli, carne in scatola. E per vincere il gelo si tracannava dal fiasco.
Solo a sera le nostre ragazze con il contributo essenziale delle donne del paese ci preparavano una marmitta di pasta asciutta, sempre stracotta, sempre gradita. Si dormiva per terra, le ragazze nel municipio, i maschi in parrocchia.
Nonostante la stanchezza, prima di dormire, ci si aggregava da qualche parte attorno ad un fuoco, come scout fuori corso, a parlare di massime questioni e minimi problemi, di princìpi primi e fini ultimi, di passioni accese e di speranze spente, di poesia e prosa, di miseria e nobiltà, di amore e disincanto, di sostanza e trascendenza.
Qualche volta si cantava: senza contrasti si dava spazio a cori di montagna e a canzonette, al gregoriano e a Celentano.
C’era sempre qualcuno con la chitarra che sussurrava le prime ballate di De André o tentava di riproporci le arie di Battisti, suggestive ma impossibili da cantare.
Ci si addormentava stravolti dalla stanchezza, traboccanti di compassione, ubriachi di malinconia. E all’alba era sempre duro aprire gli occhi su una realtà cruda che noi, con scarsa efficacia e con tenue speranza, tentavamo di modificare.

Dopo il terremoto del ‘66, partimmo in cinquanta per la Macedonia su un pullman che precedeva tre camion carichi di vestiario e di generi alimentari.
Il viaggio fu massacrante, la permanenza allucinante, l’esperienza indimenticabile.
All’andata non ci furono soste: accompagnati dalla variegata colonna sonora e dai concomitanti fetori delle gite scolastiche, si mangiava e si dormiva sul pullman che, giorno e notte, correva su strade dissestate, attraversando città e foreste, superando fiumi e colline, sotto il sole o sotto la pioggia.
Lo spettacolo tristissimo che si presentò ai nostri occhi dopo aver superato Priština modificò l’atmosfera vacanziera che regnava sul pullman e ci ammutolì: le povere case ai margini della strada dissestata si presentavano ridotte a mucchi di calcinacci, brandelli di muri, tronconi di travi; la gente si muoveva attorno alle macerie con la desolazione nei gesti e la rassegnazione negli occhi.
Ci pareva di vedere, attraverso l’inquadratura dei finestrini, un film neorealista in bianco e nero, un documentario muto sugli effetti di un bombardamento.
Fra noi, protetti nella nostra rassicurante corriera, e quei poveri sopravvissuti alla catastrofe c’era la stessa distanza che separa lo spettatore dai fantasmi dello schermo.
Come al cinema, vivevamo una condizione onirica di impotenza: le immagini scorrevano e noi non potevamo che lasciarle scorrere; ci ferivano gli occhi e noi non potevamo che guardarle con le facce incollate ai vetri; ci provocavano angoscia e noi non riuscivano a schiodarci dai nostri sedili.
La panoramica fluiva, il quadro variava, i ruderi si allontanavano. E arrivavano altre macerie più imponenti, quelle della periferia di Skopje, e altre devastazioni, altri sconvolgimenti.

Attraversando la Serbia nei giorni precedenti, ci era sembrato simpatico e allegro mostrarci e salutare dai finestrini ogni figura in movimento: uomini, donne, bambini e capre; ora nessuno si muoveva, nessuno fiatava, e avremmo voluto essere invisibili.
Guardavamo fuori, in un silenzio irreale, quel mondo irreale, ascoltando il rumore sordo del motore e il sibilo dell’aria fra gli spiragli. E la gente che si allineava ai margini della strada si fermava a guardare smarrita noi che sotto i loro occhi transitavamo irreali dietro i cristalli del pullman per svanire inutilmente all’orizzonte.

Non ci fermammo a Skopje, dove erano già arrivati aiuti da ogni parte, ma ci inerpicammo lungo le valli che portavano a Debar, sul confine albanese.
Sui tornanti dopo Gostivar non si incontrava anima viva. Solo di rado, attorno a casupole di legno in bilico fra la strada e il torrente o su ritagli di prato, si scorgevano piccole figure di vecchi, donne infagottate in abbondanti calzoni, bambini sudici senza allegria, animali nel fango.
Se, scorgendo uno zampillo d’acqua, ci fermavamo a riempire le borracce e a mangiare qualcosa, come dal nulla sbucavano donne, vecchi e bambini a spiarci, a circondarci, a guardarci in silenzio, curiosi e indecisi. Utilizzavamo i bambini per rompere il ghiaccio, offrivamo pane, caramelle, aranciata. L’anello dei curiosi rompeva gli indugi e anche gli adulti mendicavano senza falsi pudori. I bambini facevano la scarpetta nelle nostre scatolette di carne vuote; gli adulti osservavano con bonaria accondiscendenza la scena e poi requisivano le lattine da riutilizzare come gamelle.

A Debar trovammo solo rovine.
Il paese era stato abbandonato, il centro era un unico ammasso di macerie che non consentiva di individuare il tracciato delle strade e lo scheletro degli edifici.
Tutto intorno erano sorte tendopoli disordinate nelle quali i colori mimetici delle sbrindellate ed immense tende militari erano sommersi dai colori sgargianti dei panni stesi.
L’aria era irrespirabile a causa del fumo dei fornelli improvvisati e della polvere sollevata dai volontari che rimuovevano le macerie per sgomberare le strade ma anche, si diceva, in cerca di corpi da seppellire.
Parcheggiammo i nostri mezzi davanti al campo sportivo dove sorgevano le tende dei notabili ce si incaricavano dello smistamento degli aiuti.
Da non so dove si levò il nenioso e possente invito alla preghiera di un muezzin.
Il vociare ed il movimento si arrestarono.
Tutti si volsero verso di noi e si inginocchiarono.
Ci disperdemmo in un attimo, imbarazzati nel trovarci sulla traiettoria delle preghiere rituali.
Fra noi, qualcuno abbassò il capo, altri si fecero il segno della croce, altri si inginocchiarono per solidarietà, tutti girati verso La Mecca.

Sul terrapieno che circondava il campo di calcio erano allineate bancarelle con povere mercanzie.
Consumai tutti i miei quattrini per acquistare un colbacco dell’esercito di Tito, una stella rossa, decorazioni militari, monetine locali, un’ocarina bucolica e uno splendido fez bianco dall’inconfondibile (e ineliminabile) fetore pecorino.

giovedì 14 maggio 2009

SESSANTOTTO E DINTORNI (2): l'ultima festa della matricola a Brescia

Era previsto un pomeriggio per le strade del centro, con sfilata in costume; una sfida a singolar tenzone fra un guerriero Cenomane e guerrieri rappresentanti di tutti i paesi affacciati sul Mare Nostrum; una partita al pallone fra Galli transalpini e cisalpini e Romani; una serata danzante nel salone all’ultimo piano dell’Hotel Ambasciatori.

Nel primo pomeriggio il centro città e Piazza della Loggia erano a nostra disposizione, con tanto di permesso del Sindaco e del Questore.
Sfilammo, partendo dall’università lungo via Trieste. In testa al corteo avanzavano i Decurioni, io fra loro: c’era il Decurione Tridentino, quello Veronese, quello del Benaco, quello dell’Eridio, quello del Padus e il Camuno,…
Avevamo un mantello azzurro bordato d’oro e portavamo i nostri cappelli a punta ricoperti di medaglie, spille e gingilli vari.
Subito si accodò a noi un secondo corteo - meno folto, meno colorato, meno chiassoso - composto da una ventina di ragazzi, non tutti universitari, con cartelli che contestavano la sfilata, la festa della matricola e la goliardia in generale (“Gli studenti a Milano sono in galera, quelli di Brescia sono in piazza a fare i buffoni”, “I goliardi sono amici del rettore e del questore”, “Tasse + 50%: viva la festa!”, “La goliardia è morta”, …).
Sfilammo per via Mazzini, corso Zanardelli, via X Giornate, cantando le nostre canzoni, applauditi dalla folla che assiepava i portici, dalle commesse e dagli sfaccendati.
In coda al nostro corteo i sovversivi camminavano in silenzio, guardandosi attorno un po’ incerti, studiando le reazioni dei passanti che, in un primo momento, non distinguevano gli uni dagli altri.
Fra i due gruppi non ci fu contatto: molti goliardi in testa al corteo non sapevano della appendice; quelli al centro seguivano indifferenti la processione chiacchierando e godendosi la giornata di sole, la folla, i canti; i goliardi che erano in coda, a contatto con i contestatori, erano più curiosi della inattesa contestazione che della festa.
Le forze dell’ordine non sapevano cosa fare: forse per loro un corteo valeva l’altro, l’autorizzazione c’era, non si profilavano disordini, non c’erano scontri, bastava tenere sotto controllo la situazione.
Noi Decurioni, promotori della festa, fummo avvertirti di quel che succedeva alle nostre spalle quando il corteo stava sfilando nella stretta di via X Giornate. Mi liberai degli orpelli goliardici e uscii dal corteo. Dal marciapiede lasciai sfilare la parata scattando qualche fotografia. Quando arrivarono alla mia altezza i quattro gatti che manifestavano con compostezza il loro dissenso, provai per loro una immediata simpatia. Fra loro c’era un amico che era stato con me in un campo di lavoro in Belgio. Lo salutai, mi sorrise. Fotografai la sparuta schiera ed i cartelli inalberati. Poi tornai in testa al corteo che nel frattempo aveva deviato in piazza Duomo per un giro trionfale e stava tornando in via X Giornate per risalirla e sfociare in piazza Loggia.

La piazza era già piena di studenti che si erano disposti tutti attorno ad un grande rettangolo centrale transennato e sgombro. I Decurioni entrarono nella piazza e si disposero come in vetrina davanti alla Torre dell’Orologio.
I venti o trenta contestatori ci sfilarono accanto e andarono a sedersi in mezzo allo spiazzo libero davanti al portico del Monte di Pietà, ammucchiandosi stretti e circondandosi dei loro cartelli come scudi disposti a testuggine.
Noi “capi” ci raggruppammo a consulto per decidere il da farsi.
I due crocchi facevano macchia sul lastricato chiaro e assolato: il nostro colorato di manti e pennacchi, il loro grigio transennato di cartelli. Intorno la folla attendeva.
Alcuni Decurioni, in particolare un gruppo di veronesi guidati da un loro leader notoriamente fascista, volevano sgomberare il campo senza tante remore oppure farlo sgomberare dalla polizia che ai margini, dietro il pubblico, teneva d'occhio con discrezione la situazione; altri proponevano di lasciar perdere i poliziotti ma di parlamentare con gli anarchici e invitarli a spostarsi in modo da non impicciare i duelli e la partita; altri ancora - io fra loro - considerato che la protesta era composta, pacifica e legittima e visto che lo sparuto gruppo non impicciava più di tanto, proponemmo di lasciare i compagni al loro posto, di non scatenare casini, di evitare l’intervento della polizia, di non modificare il programma della festa e continuare come se niente fosse.
In fin dei conti la protesta era fatta anche nel nostro interesse (l’aumento delle tasse stava sul gozzo a tutti); molti di noi ne condividevano le ragioni; molti nei mesi passati avevano espresso in maniera più vivace, e inutile, le loro rimostranze. Non potevamo disapprovare quel gruppo isolato solo perché aveva avuto l' idea, malaugurata per l'organizzazione ma geniale dal punto di vista mediatico, di protestare il giorno della festa (“c’è un tempo per protestare e un tempo per festeggiare,…); non potevamo non ammirare il loro coraggio, anche se quell’ardimento veniva a compromettere una stupida partita al pallone (voluta dai trentini e dai veronesi, più che altro).
E poi, porca miseria, in piazza c’era posto per tutti, e non era il caso di far precipitare le cose.

La manifestazione, quella goliardica, riprese.
Un gigantesco guerriero Cenomane, una specie di Golia, con un forcone in mano occupò il centro della piazza e, agitandosi e urlando come un forsennato, sfidò gli astanti a duello. Si fecero avanti diversi guerrieri, bardati nei modi più bislacchi e uno dopo l’altro, come gli Orazi, vennero sconfitti.
Raccolsi anch’io la sfida, come da copione. Indossai un colapasta con infisse sulla calotta due corna di mucca; poi, avanzando lentamente nell’arena verso il gigante Cenomane, mi tolsi il mantello, i calzoni, la camicia, le scarpe e rimasi con un paio di mutandoni lunghi di lana dalla patta appariscente, una maglia della salute dalle maniche lunghe, una pancera sopra la maglia, le calze di lana al polpaccio e gli occhiali vistosi sotto l’elmo bovino. Lo spogliarello e la lenta avanzata erano accompagnati dalle urla, dalle risate, dagli incitamenti della folla. Estraendola dai mutandoni, sguainai una corta daga romana, mi tolsi gli occhiali e mi preparai al duello.
Il Cenomane si muoveva con grande spettacolarità, io giravo a vuoto strizzando gli occhi da miope e cercandolo a tentoni, sempre nella direzione sbagliata. Urtai qualche volta il mio nemico senza mai inquadrarlo. Girammo anche attorno al sit-in. La folla in piazza era aumentata, gli incitamenti pure. La gag durò qualche minuto, finché, per chiudere, ci affrontammo: il Cenomane lanciò un urlo disumano, io lanciai un urlo di terrore, arretrai di qualche passo, girai i tacchi e fuggii a precipizio perdendo la spada e coprendomi con l’elmo il fondoschiena.
Gli anarchici ci guardavano dalla loro posizione privilegiata, schifati per il misero spettacolo da oratorio. Qualcuno però ridacchiava.

Cominciò la partita del pallone.
Mi rivestii, recuperai la macchina fotografica e tornai in campo a fare il mio doppio reportage.
Qualche pallonata colpì il mucchio dei contestatori; qualche giocatore intollerante lanciò insulti; fra il pubblico qualcuno cominciò a fischiare; ci furono movimenti fra la folla; io mi ero avvicinato al gruppo per scattare le foto “soggettive”, dal punto di vista dei oppositori pacifisti, quando un gruppo di poliziotti oltrepassò le transenne e si mosse nella nostra direzione.
Fotografai anche i poliziotti che avanzavano. Uno, con l’aria autorevole e la faccia seria, mi disse di scostarmi.
Circondarono gli anarchici e iniziarono lo sgombero: a due a due afferravano i ragazzi per le spalle e i piedi, li sollevavano e li trasportavano oltre le transenne, sotto il portico del Monte di Pietà. Alcuni requisirono e cartelli e li ammucchiarono contro un muro.
I ragazzi espulsi, mentre ancora durava l’operazione, si alzavano, andavano a riprendersi i cartelli e tornavano in piazza, a riformare il mucchio cinque metri più in là.
Ci fu un attimo di incertezza.
I poliziotti si fecero attorno a un loro capo.
Passò un minuto.

Entrarono nella piazza due gazzelle, un camion militare e un furgone cellulare.
Un poliziotto si avvicinò ai ragazzi, strappò di mano i cartelli in malo modo e con rabbia si mise a stracciarli, ad accartocciarli e a pestarli sotto gli scarponi.
Gli altri attorniarono i recidivi.
Mi avvicinai con una macchina fotografica.
Altri si avvicinarono.
Il crocchio degli anarchici era circondato dai poliziotti, i poliziotti erano circondati dalla folla.
I poliziotti, a due a due, ricominciarono il trasloco: uno prendeva il ragazzo per i piedi, l’altro lo afferrava per i capelli, lo portavano al camion, lo scaricavano sul cassone come un sacco di granoturco, tornavano al mucchio; altri poliziotti trascinavano i recalcitranti tirandoli per i piedi, davano strattoni a quelli che si avvinghiavano per resistere, prendevano a calci quelli che non mollavano, calci nei fianchi, nelle gambe, nella schiena.
I ragazzi facevano resistenza passiva, non reagivano, si divincolavano solamente, si riparavano la testa, si tenevano i capelli, si rannicchiavano per evitare calci in pancia, incassavano in silenzio.

Tutta la piazza era nel silenzio.
Si sentiva solo il rumore degli anfibi della Celere sul selciato.
Si sentiva il rumore delle pedate e dei pugni.
Si sentiva il respiro affannato dei militari e quello ansante dei ragazzi.
Qualcuno fra gli astanti protestò.
Davanti a qualche colpo violento alcune ragazze cominciarono a dire “Basta. Smettetela!”.
Io mi misi a scattare fotografie del pestaggio.
Un graduato si rivolse minaccioso verso di noi, fissò quelli delle prime file che protestavano, allungò lo sfollagente verso quelli che cominciavano a farsi sotto e a stringere e li invitò con iroso sarcasmo a decidersi da che parte stare: “Chi è dalla loro parte - disse - si stenda a terra. Sul camion c’è posto per tutti. Un passaggio in caserma non costa niente. Una notte in guardina rinfresca le idee e calma i bollori. Via. Sgomberare. Lo spettacolo è finito!”.
“Sgomberare!” dicevano altri poliziotti spintonando la folla per aprire il varco ai loro colleghi verso il cellulare.
I facchini picchiatori continuavano il lavoro, con soddisfazione, mi parve.
Dissi a quello che pareva il capo: “Sono uno degli organizzatori della festa. Vengo in questura per la deposizione…”.
Ripetei più volte la proposta senza ottenere la sua attenzione.
Sembrava che non mi sentisse.
Continuava il suo lavoro di coordinamento sudato, stizzito, concentrato.
Comandava i colleghi con cenni ed occhiate senza parlare.
“Non ce n’è bisogno - rispose infine uno in borghese dietro di me - abbiamo quel che ci serve, grazie!”, e scomparve dietro la calca assiepata.
La piazza fu sgomberata in fretta e definitivamente.
Quattro imbecilli applaudirono la polizia che partiva coi lampeggianti accesi, senza sirene.
La folla si sciolse lentamente.

Alcuni dietro le nostre spalle cominciarono a dare calci al pallone e a farsi dei passaggi.
L’arbitro fischiò per attirare l’attenzione. Alcuni giocatori si disposero per riprendere la partita.
Altri si infrattarono fra la gente che sembrava non voler lasciare la piazza e sparirono.
La partita riprese, a ranghi ridotti, mestamente: i giocatori rimasti recuperarono in breve l’entusiasmo della sfida e lo slancio sportivo.
Ma la foga agonistica in quella piazza, dopo quello che era successo, era fuori luogo.
Era penosa.
Irritante.
Me ne andai amareggiato.
Avviandomi verso il parcheggio riattraversai le strade del centro, quelle festosamente e fastosamente percorse in corteo, col mio tabarro azzurro sotto il braccio, l’incongruo scolapasta in mano e la macchina fotografica a tracolla.
La gente che incontravo si girava a guardarmi con curiosità.
Me ne vergognavo, come se invece delle corna di vacca sull’elmo avessi le orecchie d’asino in testa.


SESSANTOTTO E DINTORNI (1): la rivolta a Brescia

Il mio ’68 è cominciato nel novembre del 1967.
Era appena iniziato il terzo anno accademico. Le matricole si stavano acclimatando. Noi “vecchi”, rivestiti i panni dei goliardi vissuti, ci accingevamo a far da balie ai nuovi arrivi, incerti fra l’istinto naturale di protezione e quello di prevaricazione consentito, anzi quasi imposto, dalla tradizione. Giunse da Milano la notizia che, per noi della Cattolica, le tasse di frequenza erano aumentate del 50%. La sorpresa ci fece passare la voglia di festa: noi pellegrinanti di Via Trieste provenivamo quasi tutti da modeste famiglie di operai, artigiani, piccoli commercianti, impiegati dello stato, insegnanti. Ci stringeva il cuore, ci disorientava e ci faceva montare la rabbia il pensiero di tornare a casa con una notizia che avrebbe fatto vacillare l’economia familiare e avrebbe soprattutto messo in crisi la voglia di riscatto che spingeva molti dei nostri genitori a svenarsi per vedere un figlio laureato. Consideravamo inoltre vergognosamente immorale, poco evangelico, un provvedimento che faceva della Cattolica l’università più cara d’Italia, e la più elitaria, la più esclusiva, la più classista. Sempre da Milano giunse la notizia che alcune centinaia di studenti, dopo una assemblea incandescente, avevano deciso di “trattenersi” in università; e che il rettore, dopo un estenuante ed inutile trattativa, sconfitto nel confronto oratorio, aveva chiamato la polizia; e gli studenti, nella notte del 17 novembre, erano stati, di peso, portati fuori dall’ateneo. Gli espulsi, con migliaia di studenti di tutte le università e di molte scuole superiori, avevano immediatamente formato cortei di protesta, erano confluiti in piazza Duomo, l’avevano occupata e avevano fatto il pieno di gioia di esserci e di propositi di rivincita. La consapevolezza di stare dalla parte della ragione e il senso di potenza dato dal numero avrebbero reso inarrestabile la voglia di giustizia di quella massa, ancora disunita ed eterogenea, disorientata e disorganizzata, più goliardica che politicizzata. Nelle brumose mattine che seguirono ci trovavamo nell’atrio della nostra facoltà, un po' col complesso di inferiorità dei provinciali, a commentare i fatti, a rammaricarci di non essere a Milano e a discutere sul da farsi. Fermavamo tutti quelli che entravano per informarli di quanto stava accadendo. Si creò un incerto assembramento. Suonò una campanella e dall’alto delle scale due bidelli ci invitarono a salire nelle aule per l’inizio delle lezioni. Il loro tono tranquillo, il loro richiamo fastidiosamente uguale a quello degli altri giorni ci parve provocatorio. Qualcuno suggerì che sarebbe stato meglio non muoversi dall’atrio, che era necessario esprimere in qualche modo il nostro disappunto per gli avvenimenti di Milano e la nostra solidarietà per le vittime pacifiche della brutalità della polizia; un altro lanciò l'idea che avremmo dovuto intercettare i professori per chiedere chiarimenti e cercare la loro comprensione; una ragazza disse che forse potevamo scrivere al rettore, stendere un documento di protesta da mandare al sindaco, ai partiti, ai giornali. La folla si addensava, il brusio aumentava. Dalla sala di studio, dalla biblioteca e dalle aule arrivarono altri studenti. Un secondo suono di campana provocò un incerto sommovimento; un secondo invito dei bidelli fece crescere il brusio indistinto. Quando il bidello più anziano, che comandava più di un prefetto, ci urlò con voce alterata per sovrastare la confusione di tornare nelle aule o di andarcene a spasso, qualcuno protetto dall’anonimato osò rispondergli “Vai a cagare!”. Ci furono risate e applausi. I bidelli ripiegarono indispettiti. Così, con questa concretezza padana, si espresse il primo movimento di rivolta; così cominciò la mobilitazione a Brescia, mentre a Milano gli studenti occupavano la piazza, sei mesi prima del maggio francese. Quella sera incontrai fuori dal portone due reporter de La Notte, popolare giornale di Milano che usciva nel tardo pomeriggio. Il cronista intervistava gli studenti di passaggio raccogliendo in un modo un po’ arruffato notizie, impressioni, dichiarazioni, propositi e sentenze; il fotografo fotografava con accurata professionalità gli intervistati, con un occhio di preferenza per le belle ragazze. Rilasciai una sconsolata dichiarazione di denuncia contro la selezione classista operata nell’ateneo in cui, tradendo lo spirito evangelico, il reddito contava più del merito e il contenuto delle tasche aveva maggior considerazione di quello della scatola cranica. La sera dopo sulla pagina dedicata a Brescia apparve un articolo a sei colonne, sormontato da un titolo infuocato e accompagnato da sei foto “segnaletiche” fra le quali, al bar del paese, con grande stupore e conseguente clamore, riconobbero la mia. Decidemmo di stilare un documento nel quale riassumevamo in maniera sintetica le nostre proteste. La stesura del nostro primo proclama fu laboriosa. Il gruppo di volontari-delegati non riusciva a mettersi d’accordo su niente: erano in discussione i destinatari della missiva, i contenuti, la forma, la lunghezza del documento, il tono, il logo, i firmatari. Per quanto riguarda i destinatari, dopo averne steso una lista infinita, da tutti ritenuta eccessiva, non si trovava l’accordo su chi escludere fra il rettore e il preside di facoltà (“non madiamogliela: se la leggano sui giornali!”), i professori, il sindaco, il prefetto, gli assessori alla pubblica istruzione, il provveditore agli studi, i sindacati, i partiti, i giornali locali e nazionali, il vescovo (trattandosi di Cattolica). Alla fine prevalse l’opinione di chi proponeva che la nota dovesse essere indirizzata esclusivamente al rettore, senza l’appellativo di “Magnifico”, purché fosse aperta, come quella del prete Milani ai cappellani militari che avevano definiti vili gli obiettori di coscienza (quella che sosteneva che “l'obbedienza non è più una virtù...”). E fu deciso di distribuirla sul portone dell’università, all’uscita di tutte le scuole superiori, fuori dalle fabbriche, davanti alla stazione dei treni e degli autobus, sul corso. Per quanto riguardava il contenuto e la lunghezza del documento, la discussione era fra chi voleva predisporre venti righe, affrontando il problema concreto delle tasse, e chi invece voleva espandersi ed elencare le disfunzioni, lamentare inadeguatezze, stigmatizzare il sadismo dei professori, rappresentare i disagi dei lavoratori-studenti, infarcendo il tutto con le necessarie considerazioni politiche (“Il problema non è meramente economico, … l’hic et nunc preclude una visione globale,… apriamoci a considerazioni meno grette,… non sprechiamo l’occasione,…”). Quanto al tono, si discuteva se dovesse essere freddo e formale, o perentorio e intransigente, o ironico e sprezzante, o cortese e interlocutorio, o perorante e ossequioso. All'intestazione e al logo rinunciammo dopo una breve disputa, anche perchè lo sfiancamento delle discussioni precedenti e la euforia dataci dal clima di rivolta ci avevano portato a partorire simboli assurdi, slogan inconcepibili e denominazioni grottesche (fra le altre, in sintonia con l’invito rivolto al bidello quel pomeriggio, avevo proposto goliardicamente la creazione del C.U.L.O. inteso come Comitato degli Universitari della Lombardia Orientale). Come firma in calce alla lettera, dopo un ritorno di fiamma della verve polemica dei convenuti, fu messo un sintetico e onnicomprensivo “Gli studenti di Brescia”. Uno dei presenti che non era quasi mai intervenuto nelle discussioni prese il foglio con la stesura finale del documento e ci chiese quante copie doveva farne. Decidemmo per “mille”, sembrandoci beneaugurate quel numero simbolico, garibaldino, immenso come la nostra voglia di muoverci e di assumere un ruolo di protagonisti dopo tanta obbedienza. L’amico se ne andò lasciandoci perplessi con un “Ci penso io” che lasciava intendere agganci segreti e importanti collegamenti. Il giorno dopo arrivarono non mille ma duemila volantini che però, con nostra grande delusione, formavano due pacchi non più ingombranti di una scatola di scarpe e ben rappresentavano la nostra inesperienza di rivoluzionari, la confusa incapacità organizzativa, la modesta efficacia del nostro spirito di rivolta. Ce ne contendemmo un mazzetto striminzito a testa e, a coppie, partimmo per il volantinaggio, incerti sui percorsi. Dalle autorità accademiche comunque non vennero risposte. Questo indispettì quelli che si erano illusi, esasperò gli impazienti, ringalluzzì chi aveva sostenuto la lotta dura. Da Milano arrivarono notizie più particolareggiate dei duelli verbali intercorsi fra il rettore e un certo Mario Capanna, studente cattolico del movimento studentesco; si raccontava che all’assemblea nell’aula Gemelli avevano partecipato più di mille studenti; che all’irruzione era stata opposta una comicissima resistenza passiva; che il rettore aveva disposto, con la serrata dell’ateneo, la chiusura del giornale degli studenti. A Brescia ci fu requisito il ciclostile che era stato messo a nostra disposizione per la stampa di un giornaletto goliardico (“I Cenomani”) e col quale avevamo invece stampato pochi fogli di protesta in cui chiedevamo - in cambio delle esose tasse versate - aule più spaziose, orari meno scomodi, una biblioteca più fornita e accessibile, dispense e libri meno cari, un bar interno ... e l’abolizione dell’obbligo per le femmine di indossare il mortificante grembiule nero. Per continuare la pubblicazione dei nostri documenti di protesta e di solidarietà con i milanesi, fummo costretti a ricorrere a ciclostili messi a nostra disposizione dai sindacati o da qualche partito o da associazione di sinistra, oppure a stampare i nostri fogli - clandestinamente - in qualche scuola o a ricorrere, saltuariamente, al nostro amico – quello dei duemila volantini – figlio di un tipografo. La sospensione delle lezioni a Natale determinò l’arresto dei tumulti, pacificò le rivolte e ammansì gli animi, non tanto per l’azione rasserenante della atmosfera natalizia quanto per la fisiologica sedimentazione della protesta che si determina con lo scioglimento degli assembramenti. Il rientro, difatti, fu tranquillo. Ci ritrovammo, felici di ritrovarsi. La ruotine delle lezioni riprese. Le lezioni a frequenza obbligatoria erano affollate, quelle facoltative erano in ogni caso seguita da un numero consistente di studenti. C’erano esami da preparare, passioni da seguire, amici da frequentare, amori da coltivare. A metà gennaio si sparse la notizia della espulsione di alcuni studenti dalla Cattolica di Milano. Le proteste ripresero immediatamente fiato, incandescenti a Milano, tiepide a Brescia, per la ridotta dimensione della sede, il numero esiguo dei frequentanti, la vicinanza degli interlocutori istituzionali e la loro sostanziale irrilevanza che li rendeva incolpevoli, non responsabili comunque delle decisioni che venivano prese in Largo Gemelli. Nei nostri documenti di protesta attaccavamo ferocemente gli inquisitori di Milano che rispolveravano processi e scomuniche, ma ignoravamo i nostri piccoli funzionari, riservando loro il disprezzo muto che si assegna ai servi. Fui incaricato di recuperare il ciclostile requisito che giaceva in un angolo dell'economato. Raccolsi un piccolo drappello di amici, reclutai qualche bella ragazza per dare al dissequestro una connotazione gentile, mi presentai davanti alla porta dell'ufficio della più alta carica della nostra sede staccata e bussai. Si affacciò il temutissimo economo in persona, lo stesso che ogni tanto si piazzava sul portone per respingere le ragazze che non allacciavano il grembiule per mostrare le ginocchia sotto delle gonne sempre troppo corte. Gli spiegai il motivo della visita. Mi rispose che non era autorizzato a riconsegnare il ciclostile. Gli dissi che non avevo bisogno di nessuna autorizzazione per riprendere una cosa nostra. Mi disse che aveva l'ordine di impedirci di rientrare in possesso del macchinario. Gli dissi che noi volevamo trasgredire quell'ordine e intendevamo recuperere il “nostro” ciclostile ad ogni costo e con ogni mezzo. Protestò per il sopruso. Gli dissi che aveva ragione di protestare e, scostando l'economo con gentile determinazione, mi infilai nello studio, feci sfilare il mio plotone sotto gli occhi esterefatti del funzionario, ordinai ai maschi di caricare il ciclostile impacchettato e alle femmine di non dimenticare le risme di carta ed i tubi di inchiostro. Al funzionario allibito dissi che, se voleva, poteva riferire che era stato sopraffatto da una masnada di studenti inferociti. Gli dissi anche che, se lo preferive, ero disposto a rilasciargli un verbale di dissequestro, una ricevuta, una dichiarazione, ... Non mi parve che apprezzasse la buona volontà, o la bonaria ironia, o la candida intenzione di liberarlo da grane gerarchiche. Il suo sguardo livido mi diceva che era incazzato più per i modi da presa per il culo che per il fatto. Intanto nelle altre università d’Italia la protesta montava e assumeva toni sempre più aspri: il 31 gennaio i fiorentino occuparono piazza S Marco; il 2 febbraio a Roma venne occupata “La Sapienza. Le richieste degli studenti erano concretissime, quasi corporative: si domandava la revisione delle modalità di conduzione degli esami, la calendarizzazione più ravvicinata e frequente delle sessioni, la possibilità di rifare un esame nella stessa sessione, di proporre un argomento scelto dal candidato, di discutere il voto. Sempre a Roma, gli studenti cacciati dalla loro facoltà spostarono la loro protesta in città e, a Valle Giulia, per la prima volta, non attuarono con la polizia la solita resistenza passiva ma si opposero e attaccarono i celerini. Il 7 marzo esplose la rivolta a Torino; il 15 Pisa; il 22 di nuovo Milano (dove la polizia sgombrò la Statale); tra il 25 ed il 30 ancora Milano (dove gli studenti della Statale si unirono a quelli della Cattolica che chiedevano le dimissioni del Rettore e del Consiglio di Amministrazione, tentarono di riaprire i portoni sbarrati, vennero attaccati con lacrimogeni e dispersi, si ricompattarono, organizzarono un sit-in con quattromila partecipanti in piazza Duomo, proclamarono scioperi della fame, bloccarono il traffico in centro, si scontrarono ripetutamente con la polizia...). Le notizie rimbalzavano di ateneo in ateneo e ci riempivano di orgoglio e di solidarietà di classe. A dare colore politico alla rivolta furono alcuni avvenimenti concomitanti che portarono i ragazzi di sinistra a prendere il controllo della protesta, fino a quel momento sostanzialmente interclassista. Il principale slittamento a sinistra fu provocato da gruppi di fascisti che organizzano spedizioni punitive contro i volantinaggi, si misero in testa di presidiare alcuni punti strategici delle città e, in qualche caso, si accodarono alla polizia nel disperdere crocchi di dimostranti. A dare coesione universale alla protesta contribuì l’offensiva del Tet, coi Vietcong che riuscirono a mettere in crisi il potentissimo esercito americano, attirandosi le simpatie dei pacifisti di tutto il mondo, studenti americani compresi. A rendere radicale e antisistema la ribellione fu la posizione assunta dalla magistratura che avvallando le decisioni dei rettori (serrate, espulsioni, denunce, …) e giustificando i pesanti interventi della Celere ci convinse che la giustizia non era di questo mondo e che dai padri, traditori della resistenza, non ci si poteva aspettare nulla. La protesta studentesca divenne lotta politica eversiva, pacifista, internazionalista, antiamericana e antimperialista. Diventammo tutti rossi, come i sovietici che contrastavano l’America in tutto il mondo, come i cinesi che aiutavano i poveri vietnamiti, come i rivoluzionari sudamericani che si facevano ammazzare dai sergenti addestrati dalla CIA e obbedienti a flaccidi generali golpisti. Diventammo tutti rossi, marxisti senza conoscere Marx o maoisti pur senza aver mai letto una riga di storia cinese; diventammo tutti internazionalisti. I comunisti italiani erano revisionisti, i socialisti erano controrivoluzionari, i democristiani erano fascisti, i fascisti erano semplicemente maiali. Tutti, più o meno, coltivavamo per istinto, e indipendentemente dai fatti che accadevano intorno a noi, una certa propensione romantica per la reazione radicale e la contestazione globale, spinti da ragioni anagrafiche e dalla naturale inclinazione alla controdipendenza più che da motivi storici o ideologici. La nostra voglia endemica di rivolta la ammantavamo con le più disparate argomentazioni suggeriteci dalla condizione sociale, dall’educazione, dal temperamento, dall’umore esistenziale, dalla consapevolezza, dall’orientamento politico, dall’inclinazione, dalla disposizione d’animo; influenzati nelle scelte dagli amici o dagli amori del momento, dagli occasionali modelli, eletti per alchemiche ragioni, da situazioni accidentali, da incontri fortuiti. C’era chi si ispirava vagamente al nichilismo anarchico e che era sedotto dal fascino dei coloratissimi hippy (che oltretutto praticavano la rivoluzione sessuale), chi si lasciava tentare da teorie rivoluzionarie (marxiste, leniniste, maoiste o castriste) e chi cedeva agli incantevoli richiami delle mistiche orientali e chi semplicemente riscopriva la genuinità degli utopismi evangelici. I singoli contestatori si ispiravano alle più strane filosofie, facevano riferimento a modelli eterogenei, avevano caratteri diversi e formazioni diverse, mettevano insieme una spropositata eterogeneità di riferimenti culturali. Ma trovavano la loro coesione nell’antiautoritarismo, nel mettersi cioè contro la Famiglia, la Patria e Dio; si riconoscevano nell’unità di intenti che era la voglia di uscire dal guscio, casa, paese e provincia; avevano comune il bisogno di affrancarsi dalla dipendenza, non solo economica, della famiglia e - per sicurezza - di dare una spallata anche alla società borghese. Sentivano tutti l’urgenza di chiudere con la religione dei padri (che era soprattutto quella delle madri); di cancellare e riscrivere la propria storia individuale ed un po’ anche la Storia; di buttare all’aria le carte e di stravolgere le vecchie strutture; di cambiare il modo di vestirsi e le abitudini quotidiane ma anche di disincrostare il sistema, di creare il mondo impossibile, di fondare La Città del Sole.