mercoledì 10 giugno 2009

Fuga

Apro l’atlante a caso
e punto dove capita il mio dito:
e lì,
planando con circospezione,
in quel preciso posto,
vorrei depositarmi.

domenica 7 giugno 2009

La prigione

“Ora che, passati gli anni, ho smesso d’arrovellarmi sulla catena d’infamie e di fatalità che ha provocato la mia detenzione, una cosa ho compreso: che l’unico modo di sfuggire alla condizione di prigioniero è capire come è fatta la prigione”.

Italo Calvino, Il Conte di Montecristo, in Romanzi e racconti, II, Mondatori, Milano 2005

sabato 6 giugno 2009

L’urlo di Munch

Di fronte al male assurdo
l’impotenza disperata ti devasta
almeno quanto il male stesso.
L’urlo si perde muto
nell’aria ferma e rarefatta
e implode sotto il cielo chiuso.
Unico rimedio resta la follia
che vuota gli occhi,
congela la bestemmia
e asciuga con l’anima la rabbia.

Tracce

Moquette, ceramica bella,
tappeto, grès, mattonella,
marmo, graniglia, parquet,
ghiaia, asfalto, pavè,
ciottoli lisci o piastrelle,
pietra serena, formelle,
cotto, assito, cemento,
sabbia spazzata dal vento…

Per quanto corra,
qualunque cosa faccia,
dei miei percorsi non rimane traccia.

giovedì 4 giugno 2009

Reticenze

Nella dolcezza sembri galleggiare,
in certi momenti,
e quasi mi inviti
a mollare la mia reticenza.

Ma un diaframma sottile
di confuse paure
ti tiene,
mi tiene.

Non potrò mai uscire
da questi pacifici giorni
di merda.

Senza titolo

E’ già sera,
ma ci si vede abbastanza per scrivere

(Anna Frank, Diario)

Boh!

Io invece mi preoccupo, m'assillo! Sto sempre teso, alla ricerca di non so che! Io vorrei, vorrei... tu capisci, come quando ... Una gran voglia insomma, come spiegarti? Quando senti che devi fare per forza qualcosa, che è importante. Ma poi ti blocchi e, e precipiti, ecco! Ti isoli e quasi tenti, un po' dentro di te e un po' fuori, di, di riprendere il filo. Ma ti accorgi che è troppo tardi. Chissà perchè e sempre troppo tardi!
...
Quante volte pensi che stai per farcela, dici "Finalmente adesso ci siamo!" e invece non ci siamo per niente e tutto quello che hai fatto, poi non l'hai fatto... cioè sei andato da un'altra parte e, e ti ritrovi come prima, senza sapere che cavolo... insomma non ti basta mai niente, hai voglia a dire, a spaccarti il cervello! Vai, vai, cammini, ti sembra che tutto va bene, poi quando sei arrivato dici: "Ma dove sto? chi mi ha portato qui?". Boh!

(Vincenzo Cerami, Tutti cattivi, Oscar Mondadori , Milano 2007)

lunedì 1 giugno 2009

1955 - I GIOCHI (parte 5): cavallina, mosca cieca, fazzoletto,...

Non amavo quella variante del gioco della cavallina in cui, invece che correre e scavalcarsi a vicenda all’infinito con fugaci e multipli contatti, alcuni giocatori si mettevano in fila incurvati, agganciati fra loro a formare come un lungo bruco la cui testa si puntellava contro un albero o contro un muro e, così avvinghiati, subivano l’assalto di altri giocatori che, presa la rincorsa, saltavano impetuosamente sulle groppe curve cercando di ammucchiarsi impietosamente sull’anello più debole della catena per farlo cedere.
Ricordo ancora con fastidio il peso insopportabile di un mucchio di selvaggi puzzolenti, la fatica di reggerli, la resistenza fino allo stremo, le urla di incitamento, i movimenti bruschi e violenti degli assalitori, i fiati sul collo, i vestiti strappati, le ginocchiate sulle orecchie, il sudore, i calci nei fianchi, gli strilli e le risate,…

Mosca cieca era un gioco che si vedeva giocato solo sui libri illustrati da bambine ricche, coi vestiti lunghi a pieghe, fiocco sui boccoli biondi, scarpe di vernice.
Qualche volta, a cinque o sei anni, ci avevo giocato anch’io accettando il pressante invito di tre amichette vicine di casa, dopo essermi accertato che nei paraggi non ci fossero indiscreti e beffardi testimoni maschi. Mi sembra che sia stato proprio nel corso di questo gioco o di altri analoghi inventati dalle bambine che sperimentai le prime confuse curiosità, le prime sensazioni provocate da piccole mani indagatrici, i primi indecifrabili fremiti accesi da una guancia liscia e arrossata, i primi brividi suscitati da unrespiro vicino, caldo e leggero.

Ma non amavo nemmeno i giochi troppo delicati e da femminucce come quello delle belle statuine o un altro, buffo e infantile, chiamato regina-reginella.

Il gioco del fazzoletto, troppo bambinesco, veniva giocato solo a scuola, su proposta e sotto sorveglianza delle maestre che vietavano il calcio. Lo si subiva come un ripiego, utile se non altro a prolungare l’intervallo fra le lezioni. Speso le maestre, perse nelle loro chiacchiere, affidavano il fazzoletto e il potere di chiamare i numeri a uno di noi: questa delega provocava immediatamente l’insoddisfazione generale (per la scelta dell’insegnante che ricadeva sempre sul soggetto meno idoneo a prendere in mano le redini del gioco) e generava nel corso del gioco occasioni furibonde di scontro.
Ancora oggi mi sorprende pensare a quanti pretesti di rissa offrisse un gioco così elementare: ricordo comunque che le contese erano generate esclusivamente dalla insofferenza generale verso l’estrema discrezionalità affidata al conduttore che indispettiva sia per il favoritismo delle sue chiamate, sia per la faziosità dell’arbitraggio.
Non so poi se da questo si debbano trarre deduzioni generali sulla nostra propensione politica che ci faceva considerare preferibile la dittatura alla delega, il potere indiscusso del capo all’arbitrio per procura del primus inter pares.

All’oratorio femminile, dove si andava ogni tanto per partecipare a non ricordo quali cerimonie religiose, mentre aspettavamo sotto un portico, ci facevano giocare ai quattro cantoni, un gioco indisponente che insegna l’astuzia e il tradimento.

Durante i nostri giochi, gli adulti per noi non esistevano; la nostra frenesia ci proiettava in un universo parallelo a quello dei grandi; li incrociavamo nei nostri spostamenti ma li ignoravamo come se fossero trasparenti.
Le ore passavano infinite e fulminee; veniva sera; la compagnia improvvisamente si scioglieva; il tragitto verso casa diventava un graduale ritorno alla realtà.













1955 - I GIOCHI (parte 4): le armi e le guerre

Amavo invece in modo del tutto particolare giocare con cerbottane, fucili ad elastico, archi e frecce, lance, spade e pugnali, fionde.

LE CERBOTTANE

Le cerbottane le ricavavamo da canne delle più disparate provenienze (tubi idraulici, bacchette di lampadari, condutture del gas, fusti di bambù, bastoni per le tende, canne di alluminio, rami di sambuco svuotati dal loro morbido midollo); le migliori erano quelle di metallo cromato dei bastoni che reggevano le grucce appendiabiti negli armadi.
I proiettili erano scelti a seconda del calibro della canna e della sua lunghezza: per le piccole cannucce ci si doveva accontentare di palline di carta, secche per gli scherzi frettolosi o umide (masticate e ridotte in poltiglia) nelle gare di precisione, quando il proiettile, a dimostrazione della mira, non doveva rimbalzare e perdersi ma restare incollato al bersaglio.
Anche le palline di mollica di pane erano perfette, ma era difficile procurarsi la materia prima a causa della stretta sorveglianza che i genitori esercitavano sul pane che, per tabù ancestrali, non doveva andar sprecato.
Con le canne di maggior calibro si costruivano proiettili fatti con coni di carta: c’era sempre qualcuno che faceva i coni più belli dei miei, lunghi, dritti, asciutti, affusolati, resistenti, perfetti.
I miei venivano un po’ tozzi, sfiatati, stropicciati, umidi di saliva. Se li volevo efficienti dovevo prepararmeli a casa con la colla o riutilizzare gli scarti dei miei compagni più abili.
I nostri tiri erano potenti e precisi: la mira era il risultato di mille esercitazioni; la potenza era dovuta a proiettili di calibro esatto (inseriti per pochi millimetri nella canna per non bagnarli e appesantirlo con la saliva) e al soffio deciso, breve e secco.
Qualcuno di noi aveva introdotto i “coni armati”, con uno spillo fissati in punta: erano proiettili temutissimi e micidiali (ma vietati) sulle chiappe, che si rivelavano inefficaci sugli usci perché lo spillo, comunque lo si bloccasse, rincagnava invariabilmente invece che infiggersi nel legno.

I FUCILI AD ELASTICO

I fucili ad elastico erano la mia specialità.
L’aspetto estetico e la funzionalità tecnica dei miei fucili non temevano concorrenza.
Sceglievo un asse, la intagliavo a forma di fucile, la cartavetravo con accuratezza e la lucidavo, dando al calcio quelle sinuosità ergonomiche che caratterizzavano i veri fucili; qualche volta incidevo sui lati le iniziali o vi inchiodavo targhette di latta o medagliette decorative; poi fissavo in punta una catena di elastici leggeri e flessibili di gomma chiara (la “para”), migliore di quella fatta con anelli neri ricavati da vecchi copertoni di bicicletta che, all’atto pratico, si rivelavano poco elastici, deformabili, facili ad ingarbugliarsi e fragili.
Il cane era costituito da una molletta per la biancheria fissata alla cassa con altri elastici che servivano come ricambi.
Oltre ai fucili semplici si costruivano anche fucili “a mitraglia” con due o tre colpi.
I fucili a tre colpi erano infidi per l’avversario che, nella concitazione della battaglia, dopo aver ricevuto il primo colpo, si avvicinava credendoti “scarico” e si beccava due micidiali colpi a distanza ravvicinata. Ma erano infidi e traditori anche per il proprietario che spesso si feriva da solo per una molletta un po’ allentata che si scaricava a tradimento sulla nuda caviglia.

Poco diffusi erano i fucili corti “a canne mozze”, più frequenti le pistole, strepitose come forza di tiro ma poco precise: ognuno di noi ne aveva almeno due infilate nella cintura dei calzoni.

Si partiva per i campi di battaglia armati fino ai denti e con le tasche piene di chicchi di granoturco o, quando il conflitto si inaspriva, di sassolini che andavamo a raccogliere sul greto del fiume.
Le battaglie fra squadre avvenivano nel bosco che si prestava bene sia alla guerra di posizione che a quella di movimento, luogo ideale per combattere e morire, per escogitare accerchiamenti e pianificare assedi, per garantirsi la fuga e disporre ripiegamenti, per preparare agguati e tendere imboscate, per preordinare ritirate strategiche e contenere le disfatte, per ripararsi dietro ai tronchi e per fare, da sopra gli alberi, da sentinella o da cecchino.

ARCHI E FRECCE

Gli archi e le frecce imperversavano quando all’oratorio si proiettavano film di Robin Hood.
Una regola imposta dagli adulti e condivisa da tutti vietava l’uso dell’arco per la guerra.
Era sulla bocca di tutti la storia di un bambino che aveva perso un occhio per colpa di una freccia mal indirizzata: il pensiero di un ragazzino con l’orbita cucita nascosta da una pezza piratesca era un deterrente assolutamente efficace per tutti.
L’arco, come nei tornei a Nottingham, veniva usato solo per le gare di tiro.
Forse per questa ragione il semplice arco di legno di salice subì una veloce evoluzione e fu presto sostituito da archi vigorosi e robusti fatti con grossi rami di legno di castano, poco flessibili ma potentissimi; e le frecce di legno sottile, decorate con pinne direzionali fatte con penne di gallina, furono rinforzate in punta con chiodi appuntiti o sostituite con dardi fatti con stecche d’ombrello acuminate.
L’allenamento avveniva contro gli alberi nei campi.
Per le gare invece si usava un’asse di legno con disegnato il bersaglio a cerchi concentrici.
Le gare erano organizzate per eliminazione o per punteggio: nelle gare per punteggio facevano fede i punti segnati sul bersaglio; nelle gare ad eliminazione usciva dalla competizione chi falliva il bersaglio; e vinceva l’ultimo rimasto in gara.
Divertentissimo era poi, più che il tiro al bersaglio sull’asse di legno, il tiro a segno contro barattoli di latta: era impagabile la soddisfazione di veder saltare le scatole di pomodoro messe in fila su un muretto; ed era un’estasi ritrovarle nell’erba infilzate da parte a parte.

LE SPADE

Le spade venivano sfoderate nella stagione del film di Zorro (Il segno di Zorro, con Tyrone Power, del 1940, arrivato da noi qualche annetto dopo) o in quella de I tre moschettieri (del 1948, con Gene Kelly e Lana Turner) e si incurvavano diventando sciabole poco maneggevoli quando venivano proiettati all’oratorio i film dei pirati e dei bucanieri.
Spade, fioretti e sciabole erano sempre accompagnate dai pugnali che vivevano brevi stagioni da protagonisti con le diverse uscite dei film di Tarzan interpretati da Johnny Weissmuller, grande ex-campione olimpionico di nuoto, grande attore dall’ugola potente che già in quegli anni mostrava incipiente calvizie e malcelata adipe.
Con le spade ingaggiavamo dei sofisticatissimi duelli, imitando i Moschettieri nelle movenze, nei passi, nelle finte, negli scarti, nelle stoccate e negli affondo.
I pugnali li portavamo infilati nella cintura e li usavamo, con prudenza, nella lotta corpo a corpo. Negli assalti all’arma bianca qualcuno di noi li teneva stretti fra i denti: la moda non prese piede perché, se l’immagine aveva un suo effetto romantico, la realtà - come sempre - appariva molto pedestre: un pugnale fra i denti infatti provocava un aumento fastidioso della salivazione e impediva di urlare: e non è né efficace, né dignitoso effettuare una carica sbavando in un silenzio imbarazzante e ridicolo.

LA FIONDA

La fionda, da noi chiamata tiraprede, era l’arma preferita in assoluto: nessuno la considerava un giocattolo, nessuno di noi ne era sprovvisto, tutti sapevamo costruircela, a nostra immagine e somiglianza, più o meno bella, più o meno efficiente.
Era lo strumento essenziale, l’appendice imprescindibile, il corollario immancabile.
E per averla non aspettavamo ispirazione dagli eroi di celluloide.
Era il dettaglio che ci connotava, come la pistola per i cow-boy, la daga per i legionari di Cesare, la lancia per i watussi, il boomerang per gli aborigeni; e come la tonaca per i preti o la cuffia per le suore, il cappellino a cono per i cinesi o la pelliccia per gli esquimesi, le penne per i
pellerossa e la bombetta per gli inglesi.

Il tirasassi era costituito da tre elementi: la forcella, gli elastici e la tasca.

La forcella idonea per la fionda perfetta non esisteva in natura: bisognava costruirsela, come avevano fatto gli uomini primitivi con l’ascia di selce, trasformando un pezzo di legno in un in manufatto semplice e geniale. Per prima cosa era necessario individuare l’albero adatto (e non era scelta di poco conto); poi bisognava cercare pazientemente una biforcazione che avesse i due rami di giusta proporzione, simmetrici ed uguali; si tagliava quindi il ramo a valle della biforcazione, lo si sfrondava accuratamente, si tagliavano i due rami gemelli e poi si scortecciava il tutto. Per dare la giusta forma - che era quella del calice dal fondo a semisfera, non a cono - si
infilava nella biforcazione un barattolo dalla dimensione adatta e si legavano fra loro i due rami verdi, stringendoli attorno al cilindro. Poi si attendeva che il legno seccasse.
Molti di noi sperimentavano tecniche di essiccazione fantasiose per dare alla forcella la giusta rigidità e la necessaria resistenza: c’era chi la appendeva al sole e chi la lasciava asciugare all’ombra, chi la metteva in forno e chi la sotterrava nella sabbia; alcuni facevano bollire il pezzo di legno prima di metterlo in forma e poi lo asciugavano alla fiamma: effettivamente il legno bollito acquisiva una straordinaria flessibilità e l’essiccazione alla fiamma lo pietrificava.

L’elastico giusto era difficilissimo da trovare: non era assolutamente idonea la tagliatella di gomma ricavata dalla camera d’aria delle biciclette, anche perché i tubolari a nostra disposizione erano quelli irrecuperabili che, dopo mille rappezzature, venivano scartati perché si presentavano stracotti, screpolati, deformati, pieni di bolle e coperti di toppe.
Andavano un po’ meglio le strisce tratte dai pneumatici delle moto o delle auto, che spesso
però conservavano la curvatura poco funzionale della ruota originaria.
Qualcuno aveva provato ad usare gli elastici bianchi da sartoria, ma subito aveva dovuto pentirsi della stravagante scelta e sorbirsi le più umilianti derisioni: a nessuno interessava la funzionalità di quei ridicoli elastici buoni per le mutande della nonna.
I tiranti migliori erano quelli di gomma gialla, quella che noi chiamavamo para, oggetto del desiderio di una intera generazione, invidiatissimi, rarissimi, ricercatissimi. Per noi comuni mortali era anche impossibile averli: si favoleggiava che non fossero ricavati da altri prodotti ma
che fossero fabbricati appositamente per le fionde e che si potessero trovare belli nuovi, confezionati a coppie, in un negozio a Brescia che aveva l’esclusiva per tutta la provincia. Nessuno di noi ha mai saputo dove fosse quel negozio e quali generi trattasse, se vendesse oltre agli elastici articoli sportivi, o scarpe, o prodotti per caccia e pesca, o materiale idraulico, abbigliamento o altro.

La tasca doveva essere rigorosamente di pelle: quelle fatte con pezze di tela sovrapposte si sfilacciavano e si rompevano, quelle ricavate dai copertoni delle biciclette erano troppo rigide. La pelle - morbida, sottile e robusta - consentiva una presa sicura, permetteva di “sentire” se il sasso era alloggiato nel modo giusto e, quando si rilasciavano gli elastici per far partire il colpo, si infilava nella forcella senza intoppi.

Le tecniche di tiro erano sostanzialmente due, quella del calcolatore e quella dell’improvvisatore: il calcolatore prima di ogni tiro sceglieva il sasso, caricava la tasca della fionda, mirava tendendo la fionda lungo una linea ideale che andava dall’occhio al bersaglio passando attraverso la forcella, tendeva l’elastico, riaggiustava la mira, fermava il tremore dovuto alla tensione, mollava la presa e sbagliava il colpo, sempre per un pelo; l’improvvisatore disinvolto, tenendo la fionda bassa a livello della vita, metteva in tensione l’elastico senza prendere la mira e mollava immediatamente la presa centrando, nove volte su dieci, il bersaglio.

ECHI DI GUERRA

I nostri giochi di guerra si ispiravano esclusivamente ai film d’avventura (esploratori, pirati e moschettieri), ai romanzi di Salgari o di Molnar, ai primi fumetti popolari, non alle guerre vere, per noi irreali, lontane nel tempo e nello spazio.

La seconda guerra mondiale, finita da pochissimi anni, non aveva lasciato tracce nella nostra infantile quotidianità.
In tutte le famiglie c’erano reduci dalla Russia, dall’Africa, dall’Albania o dalla Grecia; in alcune case si portava ancora il lutto per dei morti o si tenevano infilate sul vetro della credenza le foto di dispersi.
Ma a noi bambini nessuno raccontava nulla.
La nostra fame di storia avrebbe scatenato la curiosità; la nostra sete di storie ci avrebbe indotto a chiedere troppi particolari; il nostro desiderio di conoscere vicende belliche, situazioni, paesi e nemici avrebbe scoperchiato troppe sofferenze, avrebbe sollevato troppi imbarazzi.
Capita spesso che una dolorosa vicenda non riesca a sedimentare per trasformarsi in mito, non si assesti al punto di poter essere ripresa per diventare alimento per l’immaginario collettivo.
Perfino la lotta partigiana, nel corso della quale molti di noi erano nati o erano stati concepiti, aveva subito un processo di sospensione.

In casa sentivo raccontare strane storie di squadre di buontemponi che, negli anni venti, con alcuni miei zii scavezzacolli organizzavano spedizioni nei paesi vicini per andare ad azzuffarsi - di notte - con altri scioperati (o scioperanti, non si capiva bene) e tornavano esaltati dalla missione compiuta e dalle legnate date e prese.

Mio padre - con minor enfasi - mi raccontava il suo Otto Settembre, quando un capitano, fino a quel giorno stimatissimo e amatissimo, gli aveva chiesto in prestito una bicicletta ed era sparito dalla circolazione; e lui aveva dovuto svignarsela all’ultimo momento, prima che i tedeschi occupassero la caserma, ed era stato costretto a farsi a piedi tutta la strada da Piacenza a Brescia, attraverso i campi, nascondendosi di giorno e camminando di notte.
E raccontava anche di quando, reclutato a forza dai tedeschi nella Todt, era stato impiegato in squadre di lavoro per ricostruire le massicciate e riparare i binari dei treni danneggiati dai bombardamenti americani; e di quella volta che aveva rischiato la vita sotto il mitragliamento degli aerei inglesi.

In casa si favoleggiava di un mitico aereo inglese - sempre quello - guidato da un aviatore che si chiamava Pippo, infallibile e micidiale, perfido e imprevedibile, che arrivava nelle notti più buie a bombardare le case da cui filtrava il più sottilissimo luce attraverso gli infissi non perfettissimamente oscurati.

Mia sorella - a quei tempi impiegata comunale - ricordava con un certo orgoglio di quella volta che aveva salvato uno giovane zingaro dalla deportazione e, sicuramente, dalla morte: raccontava che, una domenica d’estate, mentre stava chiacchierando con una giostraia davanti ad in tiro a segno, era arrivata una pattuglia tedesca in cerca di renitenti e disertori; il giovane figlio della giostraia si era nascosto in una cassapanca; il capitano tedesco aveva ordinato ai suoi soldati di controllare i documenti di tutti i presenti; conoscendo mia sorella come dipendente del Podestà, l’aveva salutata con cordialità e le aveva chiesto - sotto gli occhi terrorizzati della zingara - se avesse visto in giro uomini in età di leva; mia sorella aveva risposto al capitano con un sorriso un po' tirato che - purtroppo - di uomini in giro non ce n’era nemmeno uno; disse anche, ammiccante, che se ne avesse trovato uno l’avrebbe sequestrato volentieri per sé e non l’avrebbe sicuramente consegnato ai tedeschi; e il capitano se n’era andato ridacchiando.

Mio padre riferiva anche, non riuscendo a nascondere il suo disappunto, la prepotenza commessa nei suoi confronti da un partigiano che gli aveva requisito una radio, sostenendo che con quella si poteva ascoltare Radio Londra.

Mia madre raccontava di quando, dopo il 25 Aprile, si era presentata in municipio al posto di mia
sorella, convocata dal Comitato di Liberazione per essere rapata in quanto amica della figlia di un notabile fascista.

La storia che si studiava a scuola si fermava al 1918. Dopo la Grande Guerra, quella di Cesare Battisti, di Enrico Toti e di Fabio Filzi, non era accaduto nulla. Mentre noi costituivamo bande e plotoni per attaccare i nemici in agguati fulminei dopo appostamenti estenuanti, in Corea, in Cina e non so dove ancora si combattevano guerre vere.
Ma noi non ne sapevamo nulla, a scuola non se ne parlava, in famiglia nemmeno, la televisione non c’era, i giornali non li leggeva nessuno.

1955 - I GIOCHI (parte 3): tòpoli (nascondino)

Un altro gioco che raccoglieva l’entusiasmo collettivo era il nascondino che si giocava soprattutto all’imbrunire, nelle miti sere di maggio.

Non mi piaceva “stare sotto”, uno contro tutti.
E non mi piaceva gareggiare nella corsa indiavolata con un incontenibile avversario pronto a travolgermi pur di arrivare prima di me alla tana.
Per questo preferivo nascondermi in un improbabile posto vicinissimo alla tana: rannicchiato in uno spazio spesso impossibile, mi raggomitolavo come un riccio o mi appiattivo come una sogliola, nascondevo la testa e chiudevo gli occhi convinto, come uno struzzo del luogo comune, di diventare invisibile; e dal mio buco ascoltavo quel che succedeva intorno, senza cedere alla tentazione di sbirciare, come facevano i miei amici impazienti, che per la loro insopprimibile curiosità si facevano immancabilmente beccare come tordi.

Sentivo la conta cadenzata e frettolosa (“dés-vint-trenta, …), le grida di chi correva a nascondersi, i richiami soffocati di chi dal nascondiglio chiamava gli indecisi, il silenzio sospeso dei primi momenti della caccia, il rumore lieve dei passi incerti del cercatore, quelli improvvisi e veloci del primo che si liberava correndo come un forsennato verso la tana; e poi sentivo i nomi gridati dei “tanati”, le corse, le urla di protesta per irregolarità o imbrogli, i ruzzoloni dei più frenetici, il vociare confuso, gli strepiti di chi sperava nel “libera tutti” dell’ultimo giocatore ancora nascosto.

Qualche volta la mia condizione di invisibilità era tale che i miei compagni concludevano la partita e ne ricominciavano un’altra dimenticandosi di me.
Ed io restavo accucciato nel mio nascondiglio, ad ascoltare smarrito la nuova conta, incerto se compiacermi per la mia astuta capacità mimetica o avvilirmi per la mia anonima superfluità.

1955 - I GIOCHI (parte 2) : il ciàncol

Il ciàncol, così noi chiamavamo la toscana lippa, era l’altro gioco di squadra che, quando improvvisamente cominciava, contagiava in pochi giorni tutto il paese e durava settimane.

Se non venivano scovate le mazze dell’anno prima - belle, stagionate e perfettamente bilanciate, leggere e maneggevoli, lucide dalla parte del manico e spelacchiate in punta - si partiva alla ricerca del ramo giusto per farne di nuove.
Il legno adatto lo trovavamo abbondante lungo le rive dei fossi fra i campi. La maggioranza di noi preferiva però il legno di castano che trovavamo nel fitto bosco che copriva la ripida pendice del colle dietro la chiesa.
Arrivavamo in gruppo al limitare del bosco e poi, dopo uno sguardo panoramico sul fronte degli alberi, cercavamo i varchi fra i rovi e ci sparpagliavamo nel fitto della macchia.

La ricerca del ramo giusto era, per me come per tutti, un rito che doveva essere consumato in solitudine.
Ricordo ancora il silenzio rotto appena dal crepitare dei passi, dal frullare di qualche uccello, dallo stormire dei rami; e la luce che filtrava tra i rami, il tremolare delle ombre, le chiazze di sole sulle foglie secche, le mille sfumature cromatiche; e l’aria ferma come il tempo.
Cercavo il mio ramo interrogando il bosco, indagatore indeciso, esploratore perso, rabdomante disarmato.
Il ramo perfetto era lì in attesa di essere scoperto e mi sentiva arrivare e mi vedeva passare e mi chiamava senza voce.
Non dovevo sbagliare, non potevo tradirlo.
Prima lo percepivo e poi lo avvistavo improvvisamente davanti a me, bello, dritto, delle dimensione giusta per la mia mano, con un settore di perfetta misura senza diramazioni e nodi nascosti, con la sua scorza bruna e lucida.
Mi avvicinavo, lo esaminavo in silenzio, ne saggiavo la consistenza e la rigidità e poi, col temperino a serramanico, cominciavo ad segnare il punto di taglio sulla corteccia e a incidere tutto intorno il legno per spezzare il ramo senza guastarne l’integrità.
Una legge interiore ci vietava di tagliare più di un ramo.
Sfrondavo subito il mio ramo e lo sezionavo di giusta misura, ritagliando almeno due pezzi corti per le lippe ed uno più lungo per la mazza.
Lasciavo gli scarti - un gran frascame di fronde, ramoscelli e foglie - ai piedi dell’albero, come dovuto risarcimento alle mutilazioni.
Poi, accoccolato all’ombra, smussavo e acuminavo accuratamente le due estremità dei pezzi corti, badando che le punte non fossero né troppo corte, difficili da colpire, né troppo lunghe, fragili alle mazzate; e rifinivo il bastone, spelandolo per bene e lasciando sulla impugnatura la corteccia che poi veniva decorata con intagli geometrici per ragioni estetiche e funzionali.

Alla fine ci si riuniva ai margini del bosco, in attesa che emergessero dal folto tutti gli amici.
Ci si mostrava a vicenda il prodotto e ci si avviava verso il primo spiazzo per collaudarne l’efficienza.

Il gioco era semplice.
Individuato uno spiazzo adatto, libero da ostacoli e adeguatamente lontano dalle case e dalle loro fragilissime finestre, si tracciava un cerchio per terra (la casa); il battitore si metteva al centro del cerchio, tutti gli altri si disponevano intorno ad una certa distanza (variabile in rapporto all’abilità del battitore).
Il gioco iniziava col battitore che lanciava in aria il ciàncol e cercava di colpirlo al volo scaraventandolo il più lontano possibile: se uno degli avversari disposti in giro per lo spiazzo riusciva a prendere il ciàncol al volo, rimpiazzava il battitore e la partita ricominciava; se nessuno acchiappava il ciàncol, il giocatore più vicino al punto in cui il ciàncol era caduto, lanciava verso il battitore il tronchetto appuntito cercando di farlo cadere nel cerchio.
A questo punto le ipotesi erano due: se il lanciatore centrava il cerchio ed il ciàncol si fermava dentro la circonferenza tracciata, il gioco ricominciava a parti invertite; se invece il ciàncol cadeva fuori del cerchio o se veniva respinto al volo, il battitore-difensore acquisiva il diritto di colpire il ciàncol altre tre volte per scaraventarlo il più lontano possibile (facendolo saltare con precisi colpi sulla punta e colpendolo al volo con una potente mazzata).

La distanza che separava il ciàncol dal cerchio dopo i tre tiri, misurata in canèle, determinava il punteggio.
Per non essere costretti a misurare la distanza col bastone, il battitore poteva “sparare” un numero: se l’avversario approvava, il punteggio era attribuito; se l’avversario disapprovava e dichiarava una distanza minore, si poteva andare al “tira e molla”, e si apriva una accanita trattativa per patteggiare distanza e punteggio; se non si trovava una mediazione si procedeva alla misurazione.
Poiché la misurazione era faticosa, avevamo stabilito una regola supplementare per punire i battitori tignosi e incontentabili: quando la distanza da loro dichiarata era esatta o inferiore a quella misurata, il punteggio “chiamato” veniva attribuito; se invece era inferiore, il battitore rognoso veniva punito della sua avidità con zero punti.
La “mano” proseguiva a ruoli invertiti.

Per giocare a ciàncol ci voleva polso fermo, mira precisa, potenza, astuzia, occhio di falco, equilibrio, competenza geometrica e fortuna.
Non era facile far saltare il ciàncol ben dritto per colpirlo al volo, non era facile colpirlo in pieno quando roteava nell’aria come un’elica, non era facile centralo quando l’avversario te lo lanciava, teso o a parabola, con effetti particolari; non era facile lanciarlo cercando traiettorie ingannevoli e imprimendogli rotazioni traditrici; ed era facile invece compiere errori di valutazione della distanza e perdere i punti.

Le ore che non si passavano a giocare le consumavamo in solitari addestramenti, facendo a pezzi dozzine di ciàncol (quelli svergoli di allenamento, non quelli perfetti da gara), rompendo mazze, schiantando vetri.


1955 - I GIOCHI (parte 1): le biglie

I nostri giochi organizzati erano pochi e ciclici: c’era la stagione delle biglie, quella della “bandiera”, quella del “ciàncol”, quella della caccia con la fionda, quella del nascondino, quella delle collezioni di figurine o tappi di bottiglia, quella delle arrampicate sugli alberi, quella dei carrettini, quella delle guerre combattute con spade, quella delle gare d’arco, …

Con le biglie si creavano squadre fra vicini di casa: il gioco era così coinvolgente che ci faceva perdere la nozione del tempo; giocando sotto casa ci si poteva concentrare senza preoccuparsi dell’ora: ci pensavano le madri a chiamarci quando era pronto in tavola.
Ogni tanto si organizzavano gare fra gruppi diversi: una serie di partite in casa, una serie in trasferta. Gli avversari di tutti i giorni diventavano alleati contro gli “altri”.
Il gioco era avvincente anche per l’azzardo che comportava: chi perdeva ci rimetteva le sue biglie, chi vinceva intascava quelle degli avversari.
Ogni sera si contavano le biglie e si faceva il bilancio.
Uscendo di casa per andare “alle buche” non si prendevano tutte le biglie possedute, ma solo quelle che si era disposti a perdere.

Le biglie erano di diverso materiale e di differente valore: c’erano le comuni ed economiche “cicche” di terracotta, naturale o colorata, che si acquistavano a dozzine; le più costose biglie di vetro, trasparenti e sempre coloratissime; le “marmorine”, biglie di pasta di vetro che riproduceva le venature dei marmi degli altari barcchi; ed infine le introvabili biglie di acciaio, recuperate dai cuscinetti a sfera, terribili e micidiali, che con un colpo ben assestato, potevano scheggiare le biglie di vetro, spaccare a metà le marmorine, polverizzare le cicche.

Le regole del gioco erano semplici: si partiva tutti da una linea posta ad una certa distanza dalla buca e si tentava di entrare in buca tirando a turno; chi per primo entrava in buca, dal bordo della buca poteva mirare alle biglie sparse sul campo: se le centrava se le teneva; se falliva metteva la sua biglia dietro quella canata e passava il turno. Il gioco passava nelle mani del secondo giocatore più vicino alla buca che doveva entrarci dalla sua posizione per conquistare a sua volta il diritto di mirare alle biglie sparse su campo.
Il bersaglio più ambito era quello delle biglie in fila, più facili da colpire rispetto alle biglie isolate: chi le centrava conquistava un ghiotto bottino; chi le mancava doveva mettere la sua biglia in coda dietro le altre; la fila si allungava e le probabilità di essere colpiti aumentavano progressivamente.
Se le norme fondamentali erano semplici e indiscutibili, le complicate regole supplementari rendevano il gioco fonte di beghe infinite: a seconda degli accordi preliminari poteva essere valido o non valido colpire la biglia sulla calotta invece che in pieno (regola del bù capela); se si concordava la regola del bù tött la biglia era considerata colpita se si muoveva appena per aver sfiorato foglie o sassi vicini; dicendo brüss vià oppure brüss lé era consentito o proibito pulire il terreno attorno alla biglia bersaglio; con spana sé era possibile per il tiratore usare la spanna come prolungamento per spostarsi a destra o a sinistra o verso l’alto prima di tirare,…
Se non si prendevano accordi preliminari era possibile, quando occorreva, chiamare una particolare agevolazione, anticipando il corrispondente divieto dell’avversario.

Chi arrivava prima sul campo di gioco aveva il compito di pulire il terreno di gioco, di svuotare la buca da terriccio, foglie, sassi o fango, di scavarla se si era otturata, di renderla più profondo se occorreva, di rinforzarne gli orli che dovevano essere netti e compatti.
La buca perfetta doveva avere l’orlo più stretto della tasca in modo che i campioni potessero centrarla non solo con un tiro radente ma anche con una spettacolare e precisissima parabola: la biglia così lanciata piombava dall’alto nel pozzetto e roteava sul fondo con un rullare da sballo.
Nei pomeriggi di ozio si favoleggiava di buche con la trappola: tracciavamo sui fogli di giornale la sezione della buca-ladra, con un condotto sul fondo che portava verso un serbatoio sotterraneo che doveva inghiottire le biglie degli sprovveduti rivali; il progetto era semplice e geniale, come gli schizzi di Leonardo; l’esecuzione comportava difficoltà insormontabili; la costruzione finale si presentava talmente anomala, deforme e sghemba da non abbindolare nemmeno i fratellini più tonti; ed al collaudo - comunque - non funzionava mai.

C’erano anche dei campi in pendenza: lì il gioco presentava difficoltà particolari anche per il vantaggio che i padroni di casa avevano per la familiarità con la conformazione del terreno, la conoscenza dei dislivelli, delle buche, degli ostacoli, dei dossi e delle cunette, dei canali e delle fenditure.
Nei periodi in cui tutti i ragazzi giocavano a biglie, il paese era disseminato di buche con intorno aree pulitissime: ogni cortile, ogni spiazzo al margine delle strade polverose, ogni anfratto fra le case aveva il suo campo nettato e spolverato; il cortile della scuola era disseminato di buche; alcune buche erano state scavate anche fuori della chiesa.
Era frequente vedere bambini che giocavano da soli per studiare il campo, migliorare il tiro, raddrizzare la mira, esercitarsi con la miglior impugnatura (ed evitare la presa detta tirapicio, usata dai bambini piccoli e dagli imbranati che tenevano la biglia da lanciare stretta fra l’unghia del pollice e l’incavo dell’indice).
L’allenamento per migliorare la mira e la forza del tiro continuava, dopo il coprifuoco, anche in casa, contro un muro; e poteva durare ore, se non veniva interrotto dagli adulti, insofferenti all’infinito rollìo e ai secchi e reiterati schiocchi.

Nella stagione delle biglie i ragazzi andavano in giro con le scarselle rigonfie che spesso pendevano fuori dall’orlo delle brache corte; era preoccupazione di tutti farsi rinforzare la cucitura delle tasche dei pantaloni, facili a bucarsi; i più organizzati, vista l’inaffidabilità delle tasche, si procuravano sacchetti di tela con un legaccio per chiusura.
Alla sera si contavano le biglie ammucchiate sul letto: i vincenti ricontavano le biglie conquistate e le accantonavano; gli sconfitti consideravano le perdite, calcolavano il trend stagionale, valutavano il capitale, prelevavano la minima quantità necessaria per le partite del giorno dopo, che era modica per i fuoriclasse e per i mediocri con scarsa autostima e per i parsimoniosi, più consistente per i dissipatori, gli sconsiderati e gli sconfitti che volevano correre azzardi per rifarsi.