giovedì 28 gennaio 2010

1960-1963: MICROCOSMI (5) – Un’estate al mare

Sfruttando il potere di attrazione che derivava dalla nostra condizione di studenti, ci eravamo infiltrati in un gruppo di studentesse piacentine che alla sera – ogni sera – si ritrovavano con gli amici davanti al portale di una chiesetta romanica.
Nel gruppo vi erano due ragazze ed un ragazzo poliomielitico che erano stati scritturati per recitare in un film dall’esordiente Marco Bellocchio, loro concittadino, che, nonostante la giovane età, cominciava a godere di una certa considerazione e di una discreta fama. Tutti i ragazzi della compagnia, che esibivano abbigliamenti borghesi e atteggiamenti anticonformisti, amavano incondizionatamente il Marco, fieri di questa “concittadinanza d’onore”, e si sentivano per questo molto intellettuali. I genitori dei ragazzi della compagnia guardavano con benevola curiosità e con esitante perplessità il proclamato anticonformismo dei figli, e si sentivano molto liberali, in perfetta armonia con la cultura borghese della quale si sentivano i rappresentanti.

Le conversazioni erano sempre leggere, anche quando venivano affrontati i temi tragici dell’essere e del divenire. L’eversione esistenziale e quella politica erano molto celebrate e poco praticate. Le dinamiche relazionali erano spruzzate da incerte espansioni affettuose che si traducevano in corteggiamenti leggeri e flirt variabili; e questo intrecciarsi d’amorosi sensi rendeva dolce il frequentarsi e indissolubile la brigata. In questo brodo instabile, chi voleva, poteva individuare l’anima gemella, accorciare le distanze, studiare strategie di avvicinamento, fare delle prove, tentare approcci, ritirarsi senza scorno e riaprire le danze, oppure accelerare, creare la coppia e allontanarsi dal gregge.

Mi trovai a scherzare con Carla, una delle due “attrici” che per una certa avvenenza se la tirava: aveva sempre un’espressione diffidente e scostante e teneva un po’ tutti a distanza. Dopo un casto incontro ravvicinato, non incoraggiato ma neanche troppo respinto, ristabilii io le giuste distanze, sconcertato da un insospettabile e sgradevole alitosi che neanche il fumo delle sue sigarette al mentolo riusciva a compensare.
Una sera fui scherzosamente insidiato da Marisa, una piaciosa cicciotella amica di tutti e filata da nessuno, che utilizzava la sua condizione di non-accoppiabile per tenere coesa e allegra la compagnia. Stetti al gioco e recitai la mia parte con tanta convinzione che ad un certo punto il nostro idillio divenne il fulcro della serata.
Il giorno dopo, tramite posta (in busta con francobollo timbrato!), mi giunse una sua lunghissima lettera che mi mise addosso una certa inquietudine: le dichiarazioni di amore eterno, espresse con grafia arrotondata, erano un po’ esagerate ma non mi parevano allegre e spensierate come i leggeri e maldestri approcci della sera prima, recitati con una certa teatralità fra i tavolini del bar; in certi tratti mi parevano proprio sincere, genuine, dettate dal cuore, perfino troppo sincere, troppo dettate dal cuore, e anche un po’ cariche di emotività, appassionate, focose, enfatiche, sproporzionate, quasi isteriche. Sospettai uno scherzo, mi immaginai che la lettera fosse frutto di una congiura collettiva e l’inizio di un tormentone estivo giocato sul filo della più ridanciana goliardia. Ma alcuni segnali avvertiti la sera prima al momento della buonanotte e la chiusura della lettera, particolarmente intensa e carica, mi fecero sospettare e temere la “cotta calda”, l’inizio impulsivo di un innamoramento esaltato e sfrenato. Sperai che fossero in parte il frutto dell’insonnia che deforma la realtà; sperai di poterle rintuzzare, nonostante la loro eccitata perentorietà.
La sera arrivai al bar con la solita aria vagamente svagata che costituiva la mia maschera stagionale, salutai tutti con la consueta cordialità, risposi ai lazzi salaci (tra noi usavamo, come segno di profonda amicizia, scarnificarci con battute acide), stuzzicai Marisa con nonchalance, mi intromisi con una arguzia più eccitata del solito nella discussione in corso.
Marisa se ne stava in disparte taciturna e imbronciata; la conversazione andava per le lunghe; era troppo tardi per andare al cinema; decidemmo di fare una passeggiata fino al ponte sul torrente, attraversando le strade del centro, strette e male illuminate. Mi trovai Marisa alle calcagna, adorante e indagatrice. Io mi facevo vigliaccamente scudo del folto della comitiva.
Per due sere la scena si ripeté quasi identica, con le variazioni che mi suggeriva la fantasia. Per due sere Marisa fece vistosamente trapelare il suo desolato sconcerto ma non trovò il coraggio di chiedermi o parlarmi della lettera. Per due sere io mi comportai come se la lettera non fosse arrivata.
Marisa non seppe né affrontare il discorso, né farmi capire in altri modi la sua esondante passione. Mi sentivo un verme quando, passeggiando lungo il corso, me la vedevo camminare davanti nei suoi troppo attillati calzoni, forse ancora piena di rammarico per un amore mai nato, forse pentita della sua precipitosa, improvvida e fatua infatuazione.

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