mercoledì 3 marzo 2010

Risposte e domande (commento al commento del 28 febbraio di Anonimo)

Su poesia e terapia me la cavo con una citazione di Orazio che scrive in una Satira (II, 7, 17): "Aut insanit homo, aut versus facit" (per i digiuni di latinorum : "L'uomo o impazzisce o scrive versi").

Aggiungo comunque un ringraziamento al mio "Anonimo" commentatore e gli sono grato delle sue considerazioni che mi aiutano … a restare nella mia insanabile incertezza.
Non apro su di esse una discussione, anche perché - a ben vedere - il lungo commento in forma di meditazione si avvolge su se stesso e contiene in sé tutte le contraddizioni necessarie (e in questo sta il suo pregio ed il suo valore).
Mi spiego accennando a qualche esempio di questa eccellente incoerenza e ponendo qualche domanda.

1. Perché la scrittura viene considerata da Anonimo una “parentesi” e la terapia invece si connota come una “via d’uscita”? Che differenza “scientifica” può esserci fra la sua affermazione e quella opposta? Sono meno credibile se sostengo che la seduta psicanalitica è una parentesi reiterata e che la poesia invece aiuta a capire? Che differenza c’è fra i due modi di “guardarsi dentro”? Non dice forse il poeta (che sarei io):
Aprono sentieri le parole
nell’intricata mente.
Se spiego quel che ho dentro,
un poco lo decifro anche per me.
Se la racconto, l'ansia si sgroviglia.
E l'universo mio confuso
in quel che dico prende consistenza.
2. La terapia, dice Anonimo, indaga le “cause remote”. Questo significa che la poesia indaga le cause “prossime”? Vogliamo stabilire gerarchie fra le cause? Le cause remote sono più dannose? quelle prossime sono acqua fresca? Ne vogliamo fare una questione di distanza, di potenza di fuoco, di mira? di micro o macro? di zoom? O pensiamo forse, da non liberi muratori, che le cause remote siano fondamenta e quelle prossime invece siano superfetazioni secondarie e trascurabili? …

3. Anonimo parla di “consapevolezza redentrice”. Io mi chiedo innanzitutto: capire significa forse risolvere? come se si trattasse di un problema di geometria? E se così anche fosse, il capire-risolvere con l’analisi vale più del capire-risolvere in altri modi? Ma questa benedetta capacità di cognizione, ammesso che serva, non percorre forse le strade più disparate, segnate dagli “stili emotivi" di ciascuno di noi, analogamente a quanto sostengono gli psicologi dell’apprendimento quando parlano di "stili cognitivi"?... Che senso ha giudicare gli strumenti e classificarli e distinguerli fra rozzi e sofisticati, efficaci e fuorvianti, scientifici e falsi? …

4. E poi, e poi,… Cosa c’è di eretico nel sostenere che ognuno indaga come vuole, quanto vuole, fin dove vuole? e che ognuno decide il livello di consapevolezza che gli aggrada? È immorale accontentarsi? sospendere le indagini? non voler sapere? non andare oltre? Nella ossessione di mettere tutto in chiaro, non c’è forse un po’ di presunzione, di sindrome di onnipotenza e di onniscienza? non c'è un po’ di quella arroganza intellettuale di chi crede di aver capovolto il mondo? un po’ di aristocratica e disperata volontà di distinguersi dalle “pecore matte”?...un po’ di immoralità?...). Sono così esecrabile io se mi diverto nel sostenere (e non sono solo, ma questo non conta) che la follia è in bel rifugio? sono così eccentrico se, storpiando il motto benedettino, proclamo “Beata ebetudo, sola beatitudo”?

5. Ed infine, vogliamo ancora rimenarla con le distinzioni fra scienza e fede? Andiamo a cercare la fede nei numeri dopo averla persa nei dogmi? L’atteggiamento di fondo fra religiosi e laici non vi sembra un po’ troppo gemello? Il bisogno di dio, non assomiglia pericolosamente al bisogno di negarlo? A me pare che i credenti che vogliono spiegare tutto con la fede siano troppo vicini - come una immagine riflessa e asimmetrica - agli indagatori che vogliono capire tutto in altri modi: stessa inquietudine, stessa foga, stessa insoddisfazione, stesse tensioni, stesso senso di impotenza.
Per quanto mi riguarda, mi iscrivo al club degli “Indifferenti Universali” e trovo patetico, quasi ridicolo - con rispetto parlando - questa ansia di “comprensione” dell’universo.
È l’universo, casomai, che comprende noi.
Stop.
“Siate contenti, umana gente, al quia”. (Dante, Divina Commedia, Pur. III, 37).

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