martedì 20 marzo 2018

Suburbicon (2017) di George Clooney


La bottega dei Coen sforna un nuovo film affidato alla regia di George Clooney (che come attore viene cooptato nei film diretti o prodotti dai due geniali fratelli ogni volta che c’è da impersonare uno stupidotto).
Il marchio coeniano (quello di Fargo, per intenderci) è infatti evidente in questo noir che mescola violenza e comicità, con dei cattivi alquanto maldestri che architettano piani criminali complicati e si impegolano poi nelle proprie trame, ritrovandosi in situazioni senza vie d’uscita e finendo per franare, vittime delle proprie macchinazioni.    

Siamo negli anni ’50, nella civilissima cittadina di Suburbicon, una specie di Pleasantville colorata come una cartolina, ordinata e linda, con l’impianto urbanistico a scacchiera, strade aperte, automobili lucide, villette a due piani circondate da prati perfettamente rasati e senza steccati, abitate da famigliole benestanti, bambini che lanciano palle da baseball, mamme alle finestre, uomini con cravatta, tutti ben vestiti e pettinati, socievoli coi vicini, educati e gioviali. Un posto dove è facile immaginare che aleggi nell’aria il profumo delle crostate di mele.

Un giorno, in uno di questi splendidi villini – tutti rigorosamente abitati da wasp (white anglo saxon protestant) – arriva una famiglia di colore: civilissima, benestante, medio-borghese, amabilissima e riservata, ma pur sempre di colore.
Qualche giorno dopo, in un cottage lì vicino, due mascalzoni sequestrano in casa una famiglia, la rapinano e ci scappa un morto.
La città intorpidita dentro il suo sonnacchioso stato di benessere è scossa da questi avvenimenti; il magico equilibrio improvvisamente è infranto, i pregiudizi affiorano e crescono incontrollati, le paranoie nascoste erompono ed esplodono.
Succede di tutto: il piccolo universo si frantuma e l’idillio color pastello diventa tragedia nera.

Il film scoperchia sia l’ipocrisia che regge le dinamiche familiari, sia la falsità conformista che governa i rapporti sociali: la famiglia si rivela un nido soffocante abitato da insoddisfatti rancorosi, avidi e perversi, pronti a distruggersi a vicenda (con padri-orchi e madri-matrigne); e la “comunità” appare intrisa di pregiudizi infondati, propensa a vedere minacce inesistenti e alzare steccati, ma incapace di cnoscere o controllare le proprie esplosive ossessioni.
Suburbicon è il paradigma di altri luoghi (Carlotteville, per esempio) e gli anni ’50 non siano poi così lontani.

Clooney gioca bene le sue carte, ma non riesce (o non vuole) liberarsi dai condizionamenti degli sceneggiatori.
Il film riecheggia inevitabilmente i canoni coeniani.
Nella costruzione della storia tornano le trame illogiche, gli intrecci imprevedibili, i personaggi stravaganti e grotteschi, le esasperazioni beffarde e gli assurdi coups de théâtre (tutti moduli narrativi omeopatici, efficaci nel rappresentare l’incoerenza dei destini).
Nei contenuti vengono riproposti temi già sviluppati che mettono a nudo l’inconsistenza dei legami all’interno della famiglia (tomba dell’amore) e stigmatizzano il perbenismo delle collettività e l’ipocrisia malfaisant degli irreprensibili benpensanti ossessionati dalla supremazia bianca.
L’America di Trump ha di che riflettere.

Ma la subordinazione maggiore è data dalla “filosofia” di fondo – quella dell’assurdo –  prepotentemente coeniana e kafkiana nello stesso tempo: una visione del mondo nichilista (declinata con l’irriverenza scorretta e il sarcasmo) che vede la malvagità mai scalfita dagli sterili richiami ai principi superiori dell’etica; che si cristallizza nella fredda consapevolezza che il prevalere delle forze del male o di quelle del bene è affidato al caso; che falcia la fede nel libero arbitrio, considerato che il fato, destino cieco, travolge chi capita sul suo percorso.
Una subordinazione consapevole, se si considera il tentativo di correzione, evidentemente forzato, che vede tutti i cattivi soccombere – fatalmente – col film che impenna verso un finale affrettato ma aperto alla speranza.

Letto da questa ultima prospettiva, filosofica più che politica o sociale, il film – tolto il finale posticcio – è molto più cupo di quanto possa sembrare.
Alcuni passaggi strappano delle risate, è vero. Ma si sa che la farsa amara è da sempre più efficace dei trattati filosofici, più crudele delle tragedie retoriche e roboanti, più acida dei pamphlet.
L’angoscia impotente del bambino (che dilaga dal suo sguardo inquietante) intride l’aria tiepida di Suburbicon e, traboccando dallo schermo, ci racconta quanto sia gelida e irrespirabile la nostra atmosfera.



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