martedì 20 marzo 2018

La ruota delle meraviglie (Wonder Wheel) (2017) di Woody Allen



Il tema di Wonder Wheel è la solitudine.
A ottantadue anni suonati e al suo quasi cinquantesimo film, Woody Allen stempera la sua solita effervescenza comica e cinica per regalarci un’opera che parla mestamente di esistenze stropicciate, amori rassegnati e sogni abdicati e dissolti.

Siamo negli anni ’50 a Coney Island, nel caotico parco dei divertimenti affacciato sul mare.
Ginny (una straordinaria Kate Winslet) vive all’interno del luna-park (in un baraccone che è stato abitazione dei freaks!); è separata e ha un figlio problematico, un ragazzetto di una decina di anni, appassionato di cinema e piromane (appicca un falò perfino nello studio del suo psicoterapeuta).
Ginny si è messa con Humpty, un giostraio sovrappeso (James Belushi), ex alcolizzato e depresso: ha rinunciato al sogno di diventare attrice e si rassegna tristemente a fare la cameriera in un bar. Non ha però rinunciato al sognare l’amore: nella sua condizione di donna insoddisfatta e frustrata, nevrotica e fragile, perennemente tormentata dall’emicrania, intreccia una relazione con Mickey, un bagnino aspirante scrittore che però è attratto anche da Carolina, la figlia di Humpty, riapparsa improvvisamente dopo essere scappata da casa ma, in fuga questa volta non dal padre ma da un ex amante malavitoso.

In questo complicato intersecarsi di rapporti si sviluppa la trama complessa, un po’ teatrale del film. L’ingranaggio però è ben oliato: i cinque personaggi si alternano in scena con un sincronismo ottimamente orchestrato.
Emergono due tesi: la prima dice che nessun amore è eterno (ma vive di alti e bassi come il percorso della ruota panoramica), che nessuna relazione trova il suo equilibrio e che ogni rapporto ha un suo risvolto nascosto e contraddittorio; la seconda che l’infelicità è la connotazione dell’esistenza, fondamentale e ineludibile, non transitoria e non aggirabile (come presume chi in qualche modo cerca scappatoie per sopravvivere.

Una caratteristica accomuna le differenti infelicità dei diversi personaggi: le crisi affettive ed esistenziali hanno origini differenti ma non nascono dalla sfortuna bensì da precise scelte sbagliate.
Rispetto ad altri autori (penso ai Coen), Allen non tira in ballo il destino cinico e baro, il fato, il caso, il caos. Molto laicamente, sembra voler riaffermare che ciascuno è artefice della propria sorte (faber est suae quisque fortunae).
Resta ebraico il senso di colpa, potente al punto di generare fragilità e nevrosi, non così potente da indurre a cambiare imprimendo svolte alla propria vita.

Se con l’infelicità è possibile in qualche modo convivere, più difficile è accettare l’idea che l’infelicità ce la siamo voluta.
Chi viene travolto dalla deriva non vuole ammettere di essere responsabile delle proprie avversità; nessuno accetta di fare i conti coi propri fallimenti; ognuno tende ad addossare su chi gli sta intorno la responsabilità delle proprie sofferenze; e si guasta la vita cercando di far pagare la propria infelicità a chi gli sta più vicino (l’infelicità è velenosa, oltre che contagiosa).
Questo meccanismo, questa strategia di alleggerimento delle proprie colpe, sul versante esterno peggiora le relazioni, su quello interno impedisce di acquisire la consapevolezza delle proprie inadeguatezze e di cercare soluzioni.
Del resto, come possiamo pensare di sottrarci alle ragnatele che noi stessi abbiamo intessuto e alle trappole che ci siamo consapevolmente costruiti? 

Per questo nessuno dei personaggi del film esce dalla gabbia; tutti restano impigliati nei propri problemi. Ognuno resta se stesso, usurato dalla vita, sgretolato dalle scelte.
Il mondo è un paese dei balocchi dove ognuno recita la parte in cui è confinato e nessuno trova modo di divertirsi.


La verve dei dialoghi è alleniana, ha l’impronta inconfondibile dell’autore, coi suoi dialoghi nevrotici ma sempre densi e brillanti, con la sua capacità di indagine psicologica precisa e tagliente; e con il suo pessimismo cinico e desolatamente rassegnato.

La fotografia è di Storaro (settantasettenne), e si vede: nel film si alternano colori fiammeggianti e irreali (come le cartapeste del luna-park) quando si assiste al divampare delle passioni, colori smorti nei momenti di crisi e colori lividi, foschi o violacei quando dilaga la desolazione.  Qualche volta le tonalità cromatiche cambiano all’interno di una stessa sequenza con luci fredde per la calda Ginny e un controcampo freddo per la figliastra.  Storaro vuole essere all’altezza della fama che lo circonda e strafà per non deludere il grande regista che lo scrittura: dipinge la pioggia, gioca sui contrasti fra gli interni deprimenti e gli esterni sfavillanti, coglie i primi piani illuminandoli in modo da scavarne lo stato d’animo (sognante, triste, arrabbiato, sconfortato). E ogni inquadratura diventa un quadro.
Che Storaro punti all’Oscar è evidente.
Ma io l’Oscar lo assegno al volto languido di Kate Winslet.


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