martedì 20 marzo 2018

L’infanzia di un capo (2015) di Brady Corbet



Film alquanto strano, cupo e a tratti sgradevole, forse eccessivamente ambizioso (il che non guasta in un esordiente); opera non sempre del tutto leggibile, ma comunque ansiogena (ma si sa che le paure inspiegabili sono più inquietanti rispetto a quelle riconducibili a pericoli concreti).
Fa pensare a Il nastro bianco di Haneke, non solo per la collocazione storica dei fatti (che si svolgono a ridosso della grande guerra del 14-18), ma anche per i modi allusivi della narrazione e per le atmosfere rarefatte, cariche di indecifrabili presagi. Ma, a legare i due film, c’è soprattutto il tema (che mi pare sia, nella sostanza, l’incapacità degli adulti di capire il malessere dei figli); la tesi di fondo (secondo cui l’anaffettività genera mostri e la comparsa di certe devianze non è altro che il risultato della cattiva educazione); il tentativo di trovare spiegazioni psichiche  all’origine delle dittature.

Siamo in Francia, nel 1918.
Un diplomatico americano che fa parte della delegazione USA incaricata della stesura del Trattato di Versailles s’insedia in un fatiscente casale di campagna nei pressi di Parigi con la moglie (di origine tedesca) e col figlio dodicenne (il protagonista) di nome Prescott. Con loro vive anche una dolce bambinaia; e la casa è frequentata quotidianamente da una fragile giovane istitutrice.
Il padre è a Parigi. La madre, sempre presente (e sempre vestita di nero), non è felice (frustrata nel ruolo di moglie e apatica in quello di padrona di casa) e ha col figlio un rapporto sghembo: incapace di amarlo, l’ha viziato e vezzeggiato per tutta l’infanzia, vestendolo come una femmina e lasciandogli crescere i lunghi capelli biondi; ma ora, con l’inizio della pubertà e il naturale insorgere dei primi segnali di controdipendenza, tenta di imporsi, ispirandosi ai modelli della sua educazione rigorosamente cattolica e scatenando reazioni imprevedibili con questa sua incoerente conversione dal permissivismo alla severità bigotta.
Prescott, che vive con disagio le sempre più pressanti imposizioni della madre e mostra insofferenza verso l’obbligo di frequenti preghiere o il dovere di partecipare alla recita natalizia in chiesa; sfoga questo suo malessere con infantili marachelle (la prima delle quali, a inizio film, è una sassaiola contro i fedeli che escono da messa la notte di Natale); e presto passa ad assumere atteggiamenti più esplicitamente oppositivi (rifiuta di dire le preghiere della sera, di mangiare un piatto sgradito, di studiare le favole di La Fontaine, ...).
Il padre è chiamato in causa dall’impotenza della madre; ma l’insolita complicità persecutoria dei genitori inasprisce, in una spirale ascendente, la voglia di insubordinazione di Prescott.
Quando la madre licenzia la bambinaia, unica in casa ad avere atteggiamenti d’indulgenza e di tenerezza, la situazione precipita.
Il ragazzo diventa rabbiosamente oppositivo; e quando intuisce che il padre corteggia l’istitutrice e la madre ha un qualche ambiguo rapporto con un giovane amico di famiglia, s’invelenisce per le storture cui assiste e per le ipocrisie che è costretto a subire e finisce per esprimere il suo malessere con un crescendo di ribellioni incontrollabili, provocatorie, velenose, isteriche.
Riuscirà a sgretolare il padre autoritario e la madre arida e bigotta, entrambi incapaci di comprendere; e a modificare, direttamente o indirettamente, il destino della bambinaia e dell’istitutrice; e le relazioni e altri destini ...  
I suoi scatti d’ira costituiscono i tre atti in cui è diviso il film, preceduto da un prologo notturno (tenebroso e cupo) e chiuso da un epilogo (fragoroso e coloratissimo): entrambi inquietanti per i gravi segni di premonizione che contengono.

La scansione del film echeggia l’ossatura delle tragedie.
La sceneggiatura è asciutta, reticente, neutra: descrive senza argomentare, mostra senza proclamare tesi, al punto che lo spettatore è incerto, indeciso se parteggiare per le severità genitoriali o per le legittime tendenze eversive del bambino infelice.   
Le ambientazioni, interni ed esterni, suggeriscono degrado e sfacelo.
La regia (la successione delle sequenze, l’uso delle luci, le inquadrature, i movimenti di macchina, ...) è destabilizzante per un certo sperimentalismo e sconcerta quanto la oppositiva caparbietà di Prescott.
La fotografia è accuratissima: l’oscurità prevale; certe inquadrature, ferme sui personaggi, richiamano Velasquez; alcune scene d’interni tenuamente rischiarate fanno pensare a Barry Lyndon di Kubrick.
La musica dirompente ha la solennità di una sinfonia o di un’opera lirica e accompagna le sequenze “a contrasto”, e per questo è allarmante e contribuisce ad aumentare l’inquietudine.

L’epilogo fastidiosamente prorompente come un’Apocalisse prefigura la nascita delle dittature del XX secolo, che certamente hanno avuto origine dalle terribili clausole imposte ai paesi vinti proprio nella Conferenza di Versailles (analoghe alle vessazioni parentali su Prescott).
Ma la storia del piccolo incontrollabile Prescott non rappresenta, come suggerirebbe il titolo, l’infelice infanzia di uno dei grandi dittatori europei (per ragioni anagrafiche oltre che geografiche); o la rappresenta solo allegoricamente. Sicuramente ritrae l’educazione frustrante dei milioni di infelici gregari che hanno permesso l’ascesa di tiranni farabutti.




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