martedì 20 marzo 2018

Paterson (2016) di Jim Jarmusch.


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Paterson fa l’autista di autobus a Paterson, nel New Jersey, e scrive poesie.
La moglie Laura dipinge tessuti (abiti e accessori per sé; muri, tende e decori per la casa) invariabilmente in bianco e nero (alla Courrèges) e sogna carriere improbabili come cantante.
I due vivono la loro quotidianità senza scosse: hanno raggiunto un equilibrio fatto di piccoli gesti e insaporiscono il loro rapporto di attenzioni abitudinarie spolverate da gesti di tenue dolcezza. Lei apprezza le poesie minimali di lui (delle quali è l’unica lettrice); lui si sorprende ogni giorno (un po’ sconcertato, a dire il vero) delle produzioni da bricoleuse compulsiva di lei.
Ogni mattina, al risveglio, i due indugiano fra il torpore del sonno a quello della tenerezza prima di affrontare la giornata con la limpida tranquillità di chi ha trovato nella pacata routine la chiave della serenità. 
Sette sipari per seguire e raccontare la settimana del giovane autista di linea, fatta di giornate ordinarie, pianamente quiete nel ritmo, serenamente monotone, leggermente increspate da fragili sentimenti. 
L'uscita di casa (evitando puntualmente di strusciare sul cespuglio fiorito); il tragitto sempre uguale; la guida dell'autobus ascoltando frammenti di discorsi che aprono piccoli spiragli sulla vita di altri; le poesie scritte per se stesso (semplici come la routine, dolci con un pizzico di inquietudine); il pranzo consumato sulla panchina di fronte alla cascata; il rientro invariato, col raddrizzamento quotidiano della cassetta della posta; la sorpresa quotidiana per le creazioni grafiche in bianco e nero che la moglie realizza sui tessuti; la cena; la passeggiata col cane; la sosta al bar (dove può capitare di intravvedere spiragli di vite diverse e inquiete). 
E mille altri piccoli significanti frammenti: il cane brontolone; il collega che non riesce che a raccontare le sue minute infelicità; il barista solitario; la ragazza con l’ex fidanzato assillante; la bambina poetessa; il guasto meccanico all’autobus.
   
La vita si snoda nel tempo sempre uguale viaggiando su binario, su due rotaie parallele, come i gemelli che compaiono in piccolissimi flash: la rotaia della vita reale che si svolge routinaria e la rotaia della vita emozionale che nutre di vaghe armonie la normalità e rende aurea la mediocritas. 
Tutto sembra immobile e prevedibile, ma sotto questa apparente fissità trapelano emozioni dolci e respira leggera la vita.
Tutto appare rarefatto, ma la chiarezza intride questi acquarelli (o forse sono stampe giapponesi che rimandano ad equilibri zen). Piccoli quadri che sembrano slavati solo perché raccontano con leggere pennellate le sfumature delicate della consuetudine.
Il film è delizioso, tenero, minimalista, come le poesie che lo accompagnano, come la vita dei protagonisti.
Non poteva essere altrimenti: se si vuole parlare della fragilità dei sentimenti, è necessario farlo sottovoce; è necessario farsi prestare gli accenti dalla poesia, che aiuta a dire cose che non possono essere dette con le voci della ragione, che non salva la vita ma aiuta a sopravvivere decifrando la banalità dell’esistenza e restituendo senso all’insensatezza della quotidianità.
Per questo vale la pena fare mille e mille chilometri (come quelli compiuti dal giapponese per arrivare a Paterson) per raccattare un brandello di poesia o per regalare un taccuino bianco che aiuti a ricominciare.

Alla fine però, un dubbio metafisico rimane sospeso nell’aria come un temporale pronto a esplodere: per quale ragione Jarmusch insiste nel mostrarci la foto di Paterson vestito da marine? un ritratto che inquadra un Paterson diverso e non c’entra nulla con il clima soft del film? una faccia da soldato messa lì sul comodino a ricordare tempi remoti, condizioni differenti, esperienze sepolte?
Che sia lì la chiave interpretativa – acida – di tutto l’ambaradan?



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