martedì 20 marzo 2018

Il ladro di Bagdad di Michael Powell, Ludwig Berger, Tim Whelan (1941)


Ho visto questo film negli anni ’50.
Non ricordo l’anno, non ricordo le circostanze; ne ricordo il fascino.
Mi pare, ma non ne sono certo, che fosse un pomeriggio d’estate, in una sala parrocchiale piccola e afosa; mi sembra anche di ricordare che qualcuno, a un certo punto, aveva aperto le porte e sollevato le tende nere che rabbuiavano lo stanzone per fare entrare un po’ d’aria; che con l’aria afosa entrasse una luce riverberante; che la luce non riuscisse a distogliere i miei occhi dal lenzuolo oscillante. Non vedevo e non sentivo la cagnara dei miei coetanei che si muovevano accaldati, correvano verso i bagni, litigavano, nuotavano sul pavimento fresco di graniglia, uscivano e rientravano, spolveravano in giro la farina di castagne, si tiravano calci e lanciavano in giro bucce di noccioline americane.
Del film, visto in quelle condizioni, ho però un ricordo particolarissimo, al punto che – ripensandoci – mi sono convinto di averlo visto due o tre volte di seguito. (Qualche “storico” mi sa dire in che hanno è stato importato da noi questo film e da che anno le sale hanno iniziato a fare proiezioni ininterrotte?).
Non riuscirei a ricostruirne l’intricatissima trama (anche perché a quei tempi non avevo ancora l’età per sapere cosa fosse un “riassunto”), ma porto impresse nella mente alcune scene che, quando mi deciderò a rivedere il film, riuscirò a ricucire fra loro come un puzzle che prende gradualmente senso.

Chi non ha visto il film non capirà i flash scuciti che elencherò, ma forse gli verrà la curiosità di vederlo. Chi l’ha visto, condividerà con me alcune emozioni incredibilmente vive e, presumo, avrà il ghiribizzo di rivederlo.  
Ne elenco alcune, di queste scene, non in ordine sequenziale, logico o cronologico, ma obbedendo solo, come conviene, alla memoria emozionale.
Ricordo tutte le scene del genio: l’omino nella bottiglia incrostata trovata sulla spiaggia, la sua liberazione, il fumo che sale, il gigante con la cattiveria compressa e i goffi mutandoni, i suoi tratti asiatici, l’astuzia di Abu che riesce a reimbottigliarlo, i tre desideri, le salsicce fumanti sul palmo della manona, i lunghi capelli a formare una coda, il volo, la risata malvagia, …
Ricordo l’episodio del furto dell’occhio magico nel tempio: la montagna, le architetture, la lunga navata buia, il pavimento lucido, la statuona della dea, i selvaggi timorosi e minacciosi, le dita-saracinesche, la lotta col ragno, …
Ricordo ancora la breve scena d’amore fra il sultano e la splendidissima dea Kalì dalle molte braccia, seducente automa dal fascino irresistibile e perfido.
Ricordo infine la scena del volo sul tappeto volante e quella del combattimento con il cattivo visir in fuga su un cavallo alato.

Accanto a queste poche sequenze, veri climax dell’opera, ricordo una serie di personaggi, principali o secondari, delineati e scolpiti al punto di essere diventati nutrimento e sostanza del mio immaginario: da allora e per sempre, dopo la visione del film, tutti i sultani delle mie letture hanno avuto la barba, il turbante, gli abiti e l’età del sultano di Bassora;  i visir, grandi o piccoli che fossero, guardavano di traverso con gli occhi magnetici del perfido visir di Bagdad; i re non era tali se non venivano minacciati da mille intrighi e se non sperimentavano almeno uno spodestamento; tutte le principesse, non solo quelle orientali, erano destinate a languire infelici,  malinconicamente remissive come la povera figlia del sultano.
Affiorano ancora, mentre spremo le memorie, frammenti di scene con navi sballottate nella tempesta, montagne franose, palazzi fiabeschi, archi e dardi magici, incantesimi, celle sotterranee, mura merlate e torri, giardini segreti.

Ricordo poi, soprattutto, le emozioni, la gamma completa delle emozioni: la curiosità, il terrore, la tenerezza, il fascino per l’esotico oriente, l’ansia, il panico, la preoccupazione, la vertigine, la commozione, l’eccitazione, l’odio, l’esaltazione, lo smarrimento; ricordo perfino il vento fra i capelli durante il volo sulle spalle del gigante; ricordo addirittura la fatica, e il caldo del deserto, e la sete.

A questo punto però mi chiedo perché mi sia messo a scrivere su un film che ho visto mezzo secolo fa. Mi chiedo se non sia il caso di rivederlo prima almeno di completarne la recensione.
Non so.
Confesso che per rivedere questo mitico film dovrò superare alcune remore indecifrabili, le stesse che finora, dopo averlo recuperato, non mi hanno ancora permesso di … trovare il tempo e il momento giusto per guardarlo.
Dice bene il poeta quando sostiene che “ferisce il cuore e l’anima sconcerta / verificare quella legge certa / per cui se un luogo amato si ritrova / la gioia lì vissuta non s’innova”.
E poi, Eco ci offre qualche indizio per capire queste esitazioni quando afferma che “se l’Isola si ergeva nel passato, essa era il luogo che egli doveva a tutti i costi raggiungere. Ma se l’Isola si allontanava sempre di più, valeva ancora la pena di imparare a raggiungerla?” (U. Eco, L’isola del giorno prima).







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