mercoledì 20 maggio 2009

SESSANTOTTO E DINTORNI (9): la corrida


Il secondo fine settimana non ci schiodammo da Tutela dove, per la grande festa di S. Anna, il cantiere chiudeva per cinque giorni consecutivi.
In tutta la città la festa era ininterrotta: bancarelle e banchetti all’aperto, case aperte, gente per strada.
Furono cinque giorni di fuoco: mangiate pantagrueliche dove capitava, bevute congruenti a tavola e lungo le strade, sotto il sole e sotto le stelle, balli e canti, calore e sudore, corride e encierri.
In tutte le strade e le piazze, giorno e notte, si poteva mangiare e bere a sbafo: bastava far capire che si era stranieri e diventava difficilissimo liberarsi dalla generosissima ospitalità dei navarresi. Bastava avvicinarsi ad un banchetto imbandito o ad un crocchio di festaioli, che per non perdere tempo uscivano di casa portandosi dietro merende e spuntini, e chiedere informazioni sui prodotti gastronomici esposti o imbanditi e si finiva per saziarsi a crepapelle e andarsene con le scorte in un sacchetto.

Assistemmo ad uno scatenatissimo encierro, con i giovanotti delle contrade che, bulli e temerari, fuggivano lungo un percorso transennato inseguiti da una mandria di torelli scatenati.
I tori però correvano tutti più veloci dei ragazzotti e avanzavano in massa travolgendo tutto.
I pazzi incoscienti, una volta raggiunti, dovevano o arrampicarsi come gatti sulle staccionate di legno che delimitavano il percorso (ma non sempre ci riuscivano o ne avevano il tempo), oppure dovevano buttarsi per terra coprendosi la testa con le braccia (sperando di non farsi calpestare) o schivare il torello scatenato (sperando di schivare le corna degli altri diavoli del branco) o farsi incornare sollevando brividi, applausi, ilarità, ovazioni.
Il percorso obbligato finiva nell’arena: lì i torelli impazzivano, aizzati dal brulichio confuso di tutti i ragazzi che erano riusciti ad arrivare nella plaza.
Dall’alto delle gradinate si poteva assistere ad una caotica confusione di tori neri e omini bianchi che correvano all’impazzata sulla sabbia dell’ovale: i primi cercare schiene da incornare, i secondi cercare il rischio e la gloria. Nel caos però era difficile per i nostri eroi evitare di essere travolti: molti si paravano davanti ad un torello per una sfida frontale e, mentre studiavano le intenzioni del bestione prescelto, venivano travolti da un altro che mancava un altro bersaglio e travolgeva a caso chiunque si trovasse sul percorso. Era pazzesco vedere tori che correvano in disordine in mezzo alla folla, frenavano, davano scarti improvvisi, capottavano sulla sabbia, scalciavano; e ragazzi vestiti di bianco che correvano, si muovevano in giro senza meta, saltavano, agitavano le braccia per attirare l’attenzione degli animali, si arrampicavano sulle recinzioni, volavano per aria come burattini scomposti.
La folla in piedi urlava, applaudiva, incitava, acclamava, si sgolava, si agitava. Mi parve che la maggior parte degli spettatori facesse il tifo per i torelli. Non si spiega altrimenti il picco di eccitazione che scattava per ogni ragazzo che finiva incornato.

L’encierro era l’antipasto della corrida vera e propria: una sanguinosa ed orrida mattanza per noi
occidentali, un folle spettacolo eccitante per gli spagnoli.
Quel giorno ammazzarono “cinque tori cinque”.
L’ultimo dei cinque toreri era il leggendari o El Cordobes che non fu all’altezza della sua fama e fu fischiato. Il migliore fu il primo dei toreri, giovane, spavaldo, temerario, che rischiò forte con certe pericolose evoluzioni probabilmente per dare una decisiva accelerata alla sua carriera e per dimostrare, come fu, di essere meglio del Cordobes.
Le evoluzioni dei tori che attaccavano il torero erano accompagnate dal tradizionale “Olè!” urlato dalla folla.
Noi, per variare e distinguerci dalla massa, urlavamo “Alè, Ho Chi Minh!” inneggiando al capo del governo comunista del Vietnam del nord, in guerra contro gli americani.
In un paese governato ancora da Francisco Franco era un azzardo un po’ rischioso.
La gente che ci stava attorno ci guardava sorpresa, e si guardava in giro con circospezione e diffidenza, come per verificare che nessuno si accorgesse della nostra imbecillità.
Alcuni cambiarono di posto, allontanandosi da noi…

Alla fine dello spettacolo ce ne tornammo ai nostri alloggiamento.
Per la strada, lontano dall’arena e dalla folla che defluiva, ci accorgemmo di essere seguiti a distanza da un gruppo di gendarmi della Guardia Civil, col loro buffo cappello lustro.
Non ce ne curammo e proseguimmo sulla nostra strada, ostentatamente euforici.
Il drappello, accelerando impercettibilmente, ci raggiunse: ci fermarono, ci circondarono senza volerlo far sembrare.
Il capo, un tenente mi parve, ci chiese con pacatezza i documenti.
Con qualche fatica fummo identificati, un militare trascrisse i nostri nomi e indirizzi su un notes; il capo ci chiese cosa facevamo a Tudela, dove alloggiavamo, chi era il nostro responsabile, quanto ci saremmo fermati, se avevamo contatti, conoscenze, amicizie in Spagna.
Poi ci raccomandò prudenza (!), ci disse di avere rispetto per la Spagna, di osservarne le leggi e le tradizioni, di non approfittare della tradizionale cortesia degli spagnoli e del loro senso di ospitalità.
Infine ci restituì i documenti.
Il drappello si accomiatò imitando il tenente che ci fece il saluto militare.
Ricambiammo il saluto e tentammo di attraversare la strada, senza badare al semaforo che in quel momento era diventato, per noi pedoni, rosso .
Il tenente ci richiamò, indicò il semaforo, fece un paziente gesto di disapprovazione e sorrise.
Io volli strafare e rispondendo alla sua garbata paternale dissi, ammiccando per la sottile allusione politica, che in Italia noi passavamo col rosso.
Il graduato, sempre giovialmente, mi rispose che in Spagna quelli che attraversavano la strada col rosso e facevano gli spiritosi con le forze dell’ordine venivano portati in guardina per essere guariti dalla voglia di ridere e di prendere in giro.
Non demorsi: risposi che in Italia avremmo potuto farci vanto di aver dormito una notte nelle galere della Spagna Fascista.
Il "civilissimo" ma risoluto tenente mi avvertì che nelle galere del Caudillo non era facile dormire e che le celle erano mal frequentate, piene di spifferi, di rumori, movimenti e confusione …
E così dicendo accarezzava vistosamente il manganello che teneva infilato nella cintura.
Continuai a sorridere, di un sorriso un po' congelato, salutai con deferenza portando la mano alla fronte e girai i tacchi.
Il tenente ci disse: “Buena noche!” e ci osservò mentre ci allontanavamo.
I miei compagni mi seguivano mogi e un po' straniti.

Nella settimana di fiesta incontrammo parecchi studenti nostri coetanei di Tudela.
La nostra insopprimibile passione politica e la curiosità nei confronti dell’ultimo regime fascista d’Europa ci portava a interrogarli, a misurarne il tasso di insofferenza per la dittatura, a fornire informazioni sui movimenti studenteschi in Italia, a raccontare la nostra contestazione e a vantarci delle nostre libertà, a chiedere della censura, delle persecuzioni politiche, dei movimenti clandestini, …
Molti eludevano le domande, altri si allontanavano diffidenti, altri cambiavano discorso.
Alcuni, dopo qualche perplessità, divennero nostri amici.
Passammo ore a parlare di noi, delle nostre somiglianze e delle differenze, delle identiche aspirazioni e delle disuguali condizioni, dei paralleli conflitti amorosi e dei dissimili stili di vita.
Mi parve che le ragazze fossero più disinibite dei maschi, più aperte, più informate, più recettive, più pronte al dopo-Franco.
Una sera fummo ospiti di un gruppetto selezionato di loro e passammo alcune piacevolissime ore a bere Fundador (offerto da noi) in uno scantinato che era stato attrezzato come covo di ribelli ma aveva tutto l'aspetto di un rifugio destinato a scopi non proprio rivoluzionari: frasi generiche alle pareti, inneggianti alla libertà, alla creatività, alla fantasia, all’amore universale; poster di pop star e foto artistiche-simboliche (fiori, cieli azzurri, uccelli in volo, macchie psichedeliche,…); arredamento rimediato, tappeti, cuscini e drappi; radio e giradischi con dischi affastellati e impolverati (pochi dischi inglesi e americani, nessuno italiano).
Fra di loro c’era un ragazzo che tentava di darsi importanza con una scontrosità impermeabile e si illudeva di emanare e incrementare il suo oscuro fascino standosene caparbiamente in silenzio.
C’era una ragazzona espansiva e piena di voglie (di contatti, di affetto, di allegria, di bere, di cantare, di uscire, di restare sveglia, di visitare l’Italia).
C’era anche una ragazzetta magra, con un disarmante sorriso dolce e splendidi occhi neri, mobili e curiosi.
C’era un ragazzo con i capelli lunghi e unti che suonava la chitarra e pareva il leader del gruppo ma forse era semplicemente il padrone della cantina.
E c’era infine una bellissima ragazza alta e magra, dalla pelle scura, con un viso lungo e zigomi pronunciati, capelli neri e lucidi, occhi neri grandissimi; noi la chiamavamo Carmen, ma aveva un altro nome; cantava con voce roca delle dolcissime canzoni d’amore e, con la stessa voce fascinosa, recitava sospirando poesie di Neruda.
Mi persi nel deliquio ad ascoltare alla fioca luce di candela l’Ode alla cipolla, con nelle ossa l’umidità del sotterraneo e nel naso l’odore di polveri antiche e muffe.


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