martedì 19 maggio 2009

SESSANTOTTO E DINTORNI (4): gli amici del bar

Altre sere le passavamo in paese, nella “Gelateria”, il bar dei “giovani” che si affacciava sulla piazza; non nell’altro bar, detto il “Caffè”, dove si trovavano gli “uomini”, e cioè tutti quelli che - strana frattura generazionale - avevano anche solo due o tre anni più di noi.
Si giocava a biliardo o a “cicera”, un gioco di carte simile alla scopa che però prevedeva la distribuzione di tutte 52 le carte: 4 in tavola e 12 a ciascuno dei quattro giocatori.
A “cicera” ero un campione: in coppia con un mio amico bottegaio mi ritenevo quasi imbattibile. Tutti ci ritenevamo imbattibili, ricordando le vittorie e dimenticando le sconfitte.
Il trucco del gioco stava tutto nello sparigliare le carte o nel riparigliarle se si faceva il mazzo. Il gusto era nell’ostentare disinvolta sicurezza, nell’affinare un fortissimo intuito che ci faceva capire le strategie degli avversari e ci faceva trovare il modo di metterli in difficoltà, nel prevenire le mosse e uscire da situazioni complesse. Quando il gioco prendeva il suo verso scivolavamo verso la conclusione della mano con irritante allegria, canzonando i nostri rassegnati rivali.
Ogni tanto si giocava a scala, e mi difendevo bene. A poker ero una schiappa: troppo sincero, troppo ottimista, troppo temerario nell’azzardo.
A biliardo ero un mediocre giocatore: giocavo di potenza, d’intuito, di fantasia, ma ero poco preciso e poco calcolatore, non amavo i giri complicati, non sopportavo i tiri con effetto, non concepivo che si potesse giocare per mettere in difficoltà l’avversario. Tiravo a fare punti, e andasse come doveva andare. Se il mio avversario mi lasciava le biglie coperte e lo faceva con un tiro leggero, intenzionale, calcolato, freddo, … mi innervosivo e tiravo steccate devastanti solo per uscire dallo stallo.
Il gruppo era variamente composito: c’erano pochi studenti (non più di due o tre), alcuni artigiani, alcuni commercianti (o meglio, figli di commercianti che affiancavano i genitori con maggiore o minore senso del mestiere), molti operai. L’eterogeneità non creava ostacoli e non suscitava diffidenze: gli studenti, mosche bianche, appartenevano a famiglie operaie o a artigiane, avevano fratelli che lavoravano, zii appartenenti alle diverse corporazioni.
Nei confronti degli operai, in particolare, c’era un senso di stima e rispetto quasi religioso.
I nostri giovani amici parlavano della “Fabbrica” con devozione, amavano il loro lavoro, si impegnavano per specializzarsi su torni, frese o presse, celebravano con una considerazione che sfiorava lavenerazione l’operaio “specializzato” al quale erano stati affiancati per imparare il mestiere. Se il genio della fresa, quello che sapeva “fare le unghie ad una mosca”, era del paese ce lo indicavano da lontano (e spesso a me pareva un omuncolo insignificante), salutandolo – sempre da lontano - con un cenno del capo, e non osavano, fuori dallo stabilimento, rivolgergli la parola.
I nostri operai andavano tutti a lavorare in città, nelle grandi fabbriche, ora tutte chiuse, “dislocate” o demolite (Pietra, Tempini, ATB, Idra, Berardi,…). Il fratello di un nostro amico, poco più che ventenne, all’ATB ci lasciò la vita, schiacciato da un enorme tubo sganciatosi dalla gru.
Quando poco fuori dal paese venne aperta una fabbrica, il giovane imprenditore (mi sembra che si dicesse in giro con una punta di invidia mista ad orgoglio di classe che era un ex-operaio) tentò di accaparrarsi i migliori operai del paese sottraendoli alle altre aziende: alcuni “vecchi” non si lasciarono sedurre né dalla comodità, né da uno stipendio più vantaggioso, né da premi d’ingaggio; restarono fedeli al loro stabilimento, alle loro macchine, ai loro compagni e forse anche ai loro “padroni”.
Alcuni giovani, più ambiziosi, si lasciarono convincere e fecero effettivamente un salto di qualità e di carriera che la staticità dei ruoli nelle vecchie fabbriche avrebbe reso più difficile e lontano.
Ogni tanto si organizzava una incursione nei paesi vicini per bere un bicchiere di vino esotico, per fare una camminata su strade forestiere, per rompere la monotonia.
Qualche volta la spedizione veniva compiuta a piedi: si tornava verso il paese a notte fonda, lungo strade buie o male illuminate, camminando in fila indiana per evitare il fastidio di spostarsi al sopraggiungere delle rare auto. Si parlava tranquilli, ad alta voce per farsi sentire da tutti, dall’aprifila al chiudifila. Se il discorso ci infervorava, ci si fermava in crocchio per favorire la controversia. E se la discussione si rivelava più lunga del tragitto si tornava indietro per recuperare tempo e proseguire la disputa.
Ogni volta si ripeteva il rito della pisciata in compagnia. C’era sempre, fra tanti, uno che ad un certo punto si accostava al ciglio e annunciava al popolo il suo proposito: i discorsi si interrompevano e tutti si affrettavano a sbottonarsi la patta, schierandosi come fanti in trincea. Calava il silenzio. Ci si concentrava cercando ispirazione nei refoli di aria e si procedeva, rivolti verso il campo avvolto nella notte nera, sotto il cielo stellato, a sfida contro l’ignoto.
Dopo, a volte, non si riprendevano subito le dispute filosofiche sospese ma ci si lasciava prendere da una forma strana di malinconia, come se la vescica piena avesse influenza sulla tensione speculativa o come se il ritrovarsi fra le mani l’emblema della concretezza ci richiamasse alla realtà.
Spesso la meta era una delle vecchie osterie che sopravvivevano fra i vigneti sulla collina: ci andavamo a mangiare una salamella ai ferri, un pezzo di pollo, un panino imbottito, un pezzo di formaggio, un piatto di fagioli; giusto quel tanto che servisse ad accompagnare ed a giustificare una ciotola di “clinto”, il vinaccio fuorilegge fatto con uva selvatica, dal sapore corposo e robusto, dal colore denso e fosco che lasciava traccia sulle pareti della scodella.
Dalle osterie si usciva allegri e si tornava verso il paese cantando in coro. Amavamo cantare le canzoni di chiesa: Salve Regina, Dies irae, Mira il tuo popolo,… D’inverno imperversavano i canti di Natale.
Ogni tanto qualcuno intonava un pezzo lirico: ci scatenavamo allora in improvvisazioni in stile operistico che non finivano mai. Per tutto il tragitto si levava una tenzone scombinata fra bassi, baritoni, soprani e tenori che si scambiavano battute e contrasti, insulti e invocazioni, villanie e preghiere, dichiarazioni d’amore e improperi, in un melodramma infinito ed esilarante.
Il canto si innalzava libero fra valloni e vigneti sotto le stelle. Per chilometri non c’era anima viva che dormisse nel suo letto: in giro su quelle “caedagne” c’erano solo giovani sguaiati buontemponi e vecchi ubriaconi, malfermi, solitari e silenziosi.
Nessuno ci zittiva. Solo qualche cane in lontananza osava comunicarci la sua rabbiosa disapprovazione. E noi interrompevamo l’opera per rispondere con abbaiamenti più convincenti e furiosi di quelli veri, e nasceva fra noi e il cane in una gara di latrati e guaiti - con intrusione di miagolii - che ci vedeva sempre vincitori.
In piazza ci si univa in coro per intonare, per noi e per il paese intero, l’ultimo potente, accorato, passionale “Miei prodi sodali, addioooooo” che ci lasciava senza fiato.

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