martedì 26 maggio 2009

1954 - LA SCUOLA (1): l'edificio


La scuola elementare era un semplice edificio umbertino, un parallelepipedo a due piani, che però aveva una sua schematica solennità, sufficiente ad intimorire i figli d’analfabeti che lo frequentavano. Il grande rettangolo della facciata (rosa o color mattone?) era abbellito da inserti di pietra grigia che ne movimentavano l’aspetto tetragono (ma forse non si trattava di pietra grigia, forse erano fasce di povero cemento martellato o strisce colorate col pennello, per me indistinguibili): grigi erano, in orizzontale, l’alto zoccolo alla base, la fascia marcapiano che lo tagliava a metà e la cornice sotto la gronda; ed in verticale, mi sembra di ricordare che ci fossero dei grigi falsi pilastri sui due angoli e forse due lesene al centro della facciata che incorniciavano l’ingresso principale e il soprastante balcone.

Grigie erano anche le tre brevi scale che dal cortile portavano alle aule del piano rialzato: una centrale, che si allargava a colata di lava sul cortile ed era impreziosita da una balaustra di pietra; due laterali, ai due angoli dell’edificio, dritte e protette con semplici ringhiere di ferro.
Sulla facciata erano allineati in perfetta simmetria i vani delle porte e delle finestre: quattro finestre disposte sul piano rialzato a destra e a sinistra del portone; due porte secondarie ai lati; dieci finestre al primo piano, cinque a destra e cinque a sinistra del balcone, rigorosamente corrispondenti alle finestre e alle porte d’accesso laterali del piano sottostante.
Il ricordo di questo edificio mi è rimasto stranamente vivo nella mente - forse enfatizzato dal ricordo e sopravvalutato - perché nel piccolo paese contadino non c’era nessun altro fabbricato, se si esclude la chiesa, che avesse un aspetto così importante; e nessun edificio da me allora frequentato aveva una così ragguardevole apparenza, resa ancor più rilevante dalla funzione per la quale era stato innalzato.
Nemmeno il municipio aveva forme migliori o pregi architettonici più pretenziosi, essendo ospitato in due stanzoni che ai noi villici apparivano importanti, ma non erano altro che esageratamente vasti perchè ricavati da un fienile, per accedere ai quali era stato costruito un ampia scala che alla insolita dimensione affidava l’inutile sforzo di sembrare sontuosa.

Ai tempi in cui i nostri padri erano bambini, la scuola non c’era: i pochi alfabetizzati raccontavano di aver saltuariamente frequentato le lezioni in aule provvisorie ricavate da stanzoni umidi, con porte di legno che si aprivano direttamente sulla strada polverosa e con le finestre che guardavano su portici ingombri di legna e canestri sfondati.
Le loro aule non avevano lavagne e carte geografiche, cattedre e alfabetieri; non avevano nemmeno la dotazioni obbligatoria del ritratto del re. I banchi erano tavolacci traballanti, le sedie erano spaiate e spagliate, residui di traslochi o scarti di quelle famiglie che, uscendo dalla miseria, ostentavano il raggiunto benessere cambiando i mobili del tinello.
Noi utilizzavamo il nuovo edificio - inaugurato pochi anni prima da uno stuolo di monsignori, ispettori e podestà - con una certa diffidenza: troppo diversa era l’aria che si respirava in quelle stanze dai soffitti alti e intonacati, troppo vasti erano quegli spazi in confronto con le nostre buie cucine e fredde camere.
I nostri genitori, quando entravano in quello “stabilimento”, erano assaliti da un certo timore e dallo smarrimento.
Quando venivano a scuola, raramente, per iparlare con il maestri, attendevano nell’atrio la chiamata e si guardavano in giro con apprensione mista a curiosità: alcuni si aggiravano nei corridoi deserti, spiavano nei cessi i lavabi di zinco e i rubinetti, si soffermavano fra i banchi delle aule deserte lisciandone i ripiani con le mani, si affacciavano alle finestre incantati dalla luce.
Altri (io li ricordo tutti vestiti di nero e col cappello in mano) restavano in corridoio e si accostavano con cauta circospezione alle porte delle aule, sbirciando con diffidente curiosità l’altezza dei soffitti senza travi, i pavimenti di graniglia e l’arredamento lucido: non osavano oltrepassare la soglia, per non sporcare il pavimento ma soprattutto per l’inconfessabile timore che incuteva loro quel luogo della cultura nel quale, in quanto analfabeti, si sentivano fuori posto.
Noi bambini avevamo inconsapevolmente assorbito quei timori reverenziali e - pur frequentando quotidianamente quelle aule, quegli androni e quei corridoi - conservavamo dentro di noi l’atavica diffidenza nei confronti della sede e della istituzione.

Il cortile era ampio, chiuso a nord dalla facciata dell’edificio; a ovest dal muro scrostato di una casa che girava ottusamente la schiena alla scuola e al chiasso del cortile (ma - scoprii un giorno - apriva porte, finestre, verande e loggiati fioriti sul lato opposto); a est, di là da una rete completamente nascosta da fitti rampicanti, si intravedevano carri agricoli e si udiva un chiocciare di galline; a sud un muretto sormontato da una grata di cemento ci separava dalla strada; oltre la strada scorreva un fosso e al di là del fosso si stendeva uno sterminato campo circondato da pioppi, platani e gelsi.
In mezzo al cortile due smisurati pini si ergevano imponenti e più alti del tetto a oscurare il cielo, a occultare la simmetria della facciata, a pavimentare coi loro aghi secchi ogni metro di terra, a ombreggiare tutto. Dalle finestre delle aule che davano sul cortile non si poteva veder altro che il loro colore sempreverde (e sempre cupo): solo dalle finestre estreme del piano alto si potevano cogliere triangoli di cielo; e solo la neve riusciva a coprire per brevi giornate l’incubo di queste enormi cappe vegetali.
Nessun uccello vi faceva il nido.
Nessuno di noi li disegnava: erano troppo presenti nelle nostre malinconiche giornate scolastiche per essere considerati amici. Nessuno chiamava alberi quei monumenti che incombevano eterni
sulle nostre brevi stagioni.

Gli alberi veri erano i flessibili pioppi, le spinose robinie, gli enormi platani che sulla corteccia portavano segnate le mappe di isole e deserti. Alberi veri erano le querce ed i castagni del bosco sopra la collina fra i quali rivivevamo le avventure di Tarzan o di Robin Hood, in puntuale sintonia con l’ultima esperienza cinematografica. Alberi veri erano i meli, i pruni, i cachi, i rarissimi peschi e soprattutto i ciliegi: veri e desiderati come l’albero del paradiso, e come quello irraggiungibili al tempo della maturazione dei frutti, quando erano gelosamente piantonati dai proprietari dei broli. Solo i più temerari fra noi sfidavano l’ira dei contadini e la rabbia dei loro cani per conquistare, ostentare e divorare il bottino; i più grandi talvolta organizzavano spedizioni notturne e - dopo la razzia - distribuivano magnanimamente gli avanzi della loro refurtiva; mentre i più pavidi, senza eccessiva vanteria, si esercitavano a rubare la meno sorvegliata frutta acerba, la trascurata frutta marcia e i comunissimi fichi che crescevano incustoditi in fondo a tutti gli orti; oppure razzolavano sotto i noci imponenti che ombreggiavano le rimesse dei carri agricoli o gli accessibili gelsi che sorgevano ai margini di tutti i campi, generosi di dolcissime more, bianche o nere.

Nessuno considerava amici quei colossi che si piantavano saldi nella terra polverosa delle nostre ricreazioni e sfidavano il cielo, indifferenti al fermento dei nostri frenetici scavi fra le radici noccose che artigliavano la terra; nessuno amava quei pachidermi dalla scorza coriacea, insensibile alle incisioni, ai chiodi arrugginiti e alle sassate.
Ogni nostro gioco era condizionato dalla ingombrante presenza di quei tronchi; ogni corsa aveva tragitti obbligati; ogni aereo di carta veniva intercettato; ogni pallone vi trovava rimbalzi imprevedibili; le frecce fatte con acuminate stecche d’ombrello non riuscivano a conficcarsi in quella epidermide tigliosa e cadevano a terra spuntate.

L’interno dell’edificio era squallido e austero.
Della schematica magnificenza dell’esterno ricalcava solo la dimensione: le aule avevano soffitti altissimi, finestre lunghe, porte imponenti, lavagne enormi e pesantissime, stufe torreggianti, cattedre che dall’alto di predelle tribunizie incombevano come pulpiti sui banchi allineati.
Le nostre sedie erano agganciate in un blocco inscindibile al banco, il cui ripiano inclinato faceva da coperchio ad un contenitore nel quale tenevamo libri, quaderni, astucci di legno, indumenti, merende. Tutti noi sfidavano la sorte nascondendovi i più disparati oggetti: temperini, fionde, biglie, figurine, elastici, spilli, chiodi e bulloni. Articoli rigorosamente vietati a scuola e quindi causa di inesorabili requisizioni e di sadiche punizioni.
Il ripiano-sportello era incardinato in alto ad una parte fissa che aveva una scanalatura per la penna e per la matita e un foro per il calamaio.


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