mercoledì 20 maggio 2009

SESSANTOTTO E DINTORNI (8): gli ultimi franchisti

L’Escorial mi apparve immenso, quasi irreale, un possente scatolone di granito grigio, con torri sui quattro angoli ad esaltarne il vigore. Spiccava immerso nel verde, nel fresco pulito di rilievi boscosi della sierra di Guadarrama, così diversi dalle mesete brulle della Aragona e dalle sierre di Navarra che non pareva di essere in Spagna.

L’ostello era occupato da una falange intera di ragazzotti appartenenti ad una qualche organizzazione paramilitare franchista. Il cancello era sorvegliato da due sentinelle impalate e da una specie di caporale a cui non pareva vero il ritrovarsi nella condizione di esercitare il suo potere di controllo e interdizione.
Il mio aspetto e l’abbigliamento rivelavano chiaramente che ero straniero e svelavano anche la mia estraneità, la mia lontananza, culturale oltre che geografica, da loro.
Le due sentinelle mi si pararono davanti senza parlare, il caporale, con un fare un po’ troppo brusco e autoritario per i miei gusti, mi chiese chi fossi e dove volessi andare.
Risposi che ero un turista e che cercavo l’ostello della gioventù.
Il caporale, dopo una lunga ed irritante pausa, mi chiese i documenti.
Gli risposi che i miei documenti li avrei mostrati al “papà albergatore” nella reception, nel momento della registrazione.
Vidi un segno di panico nei suoi occhi, seguito da un lampo d’ira: non rientrava fra i suoi schemi mentali la eventualità di essere disobbedito, la possibilità di essere contestato; forse fino a quel momento, almeno in quella divisa e in quel ruolo, nessuno mai aveva osato mancargli di rispetto.
Si contenne e mi disse gelidamente che se non mostravo i documenti non potevo passare.
Gli chiesi altrettanto freddamente quale autorità vantasse per impedirmi il transito.
Mi sciorinò i suoi gradi.
Gli dissi che non conoscevo né riconoscevo la sua organizzazione; che non riconoscevo la sua autorità.
Mandò uno dei due soldatini a chiamare il suo capo.
L’attesa fu breve.
Un adulto vestito da ragazzo, braghe cachi su gambe pelose, si presentò e mi interpellò con la apparente calma dei forti e la ostentata pazienza di chi è abituato ad aver a che fare con degli incolti.
La scenetta recitata col caporale fu replicata con poche varianti.
Il grande capo mi spiegò che l’ostello era interamente occupato dalla sua organizzazione: i graduati riempivano l’ostello e la truppa era acquartierata in una tendopoli nell’immenso parco.
Di nuovo spiegai che la tessera della mia associazione mi dava il diritto di dormire e mangiare nell’ostello, che volevo parlare col responsabile (il “papà albergatore”), che nessuno poteva impedirmi di passare da quel cancello, che se non mi faceva passare avrei chiamato la polizia, avrei denunciato il sopruso alla sede internazionale degli “auberges de la jeunesse”, avrei fatto chiudere l’ostello, avrei denunciato il fatto alla stampa,…
Lo vidi tentennare, incerto fra il cedere alla mia ostinazione e liquidare immediatamente una questione spinosa ed il resistermi alzando il livello dello scontro, se non altro per salvare la faccia di fronte ai suoi sottoposti.
Colsi l’attimo e aggirai il presidio dicendo che, se mi volevano arrestare, avrebbero potuto trovarmi o negli uffici dell’ostello o nella stanza che mi sarebbe stata assegnata.

Il papà albergatore mi accolse con un sorriso preoccupato. Mi chiese i documenti e la tessera degli ostelli, mi domandò da dove venivo, quanto mi fermavo e dove mi sarei diretto, infine mi assegnò un posto letto in una camera da otto che si affacciava su un breve corridoio di fronte alle cucine, al piano terra.
Le altre camere, che si aprivano su un altro corridoio, e tutte le camere del primo piano erano occupate dalla falange di eroi; l'atrio, le scale, gli ingressi erano presidiati da guardie col pugnale alla cintola.

Fino all’imbrunire me ne restai a letto, ascoltando lo scalpiccìo di scarpe chiodate e le chiacchiere ipereccitate di quell’esercito di giovani balilla.
Uno squillo di tromba fece cessare il vociare confuso; lo scarpinare si fece confuso e frenetico e poi, al comando isterico di un caporale, si tramutò in passo cadenzato.
La truppa fece una breve manovra e poi fu di nuovo silenzio.

Avevo fame.
Seguendo le indicazioni raggiunsi la sala da pranzo che trovai deserta.
Il papà albergatore mi disse che il pranzo, considerato il numero elevato degli ospiti, veniva servito nello spiazzo dietro l’ostello.
In quel momento si udì un altro comando urlato a cui seguì un vociare confuso e uno strepito di stoviglie.
Il rancio stava per essere servito.
Mi affacciai sullo spiazzo e mi trovai di fronte ad una spianata di innumerevoli tavole perfettamente allineate come le tende di un accampamento romano e sobriamente imbandite: sulla destra, distaccato dagli altri, c’era il tavolo dei graduati, interamente occupato da uomini di mezza età e dall’aria tutt’altro che marziale; sulla sinistra si allungava un tavolone di servizio coperto da marmittoni e presidiato da cuochi e inservienti.
Dal tavolone si snodava in una lunghissima e disciplinatissima fila l’intero battaglione: le reclute ritiravano la loro spettanza e andavano a sistemarsi, in ordine, ai tavoli, squadra per squadra.
Ignorai gli occhi rivolti su di me e puntai i calderoni alla mia sinistra.
Un cuoco scambiò uno sguardo col responsabile dell’ostello alle mie spalle e mi fece un gesto di invito.
Venni servito immediatamente, non per la cortesia che si riserva agli ospiti ma per togliersi dalla vista un civile che scombinava l’ordine marziale della adunata.
Col mio vassoio (posate, pane, caraffone di acqua e un piatto fondo con un intruglio profumato di patate e carne) mi diressi al tavolo più lontano, attraverso la spianata deserta, mi sedetti sull’angolo da cui potevo tener d’occhio la truppa e gli ammiragli e cominciai a mangiare.

Tutti i tavoli si riempirono gradualmente. Il mio rimase vuoto.
Finii prima degli altri e, in attesa degli eventi, mi accesi la pipa ostentando l’atteggiamento più anarchico che potessi.
Osservando i commensali potevo distinguere i ragazzi in tre categorie: i normali, che mi sbirciavano con curiosità; i dissidenti potenziali, che mi guardavano con malcelata invidia; gli ortodossi, che mi guardavano con superiorità e disprezzo.

Dopo cena assistetti a dei rituali che dovevano essere quotidiani: una squadra addestrata sparecchiò fulmineamente e ripulì i tavoli, i ragazzi si girarono tutti verso una pedana sopraelevata, il brusìo si smorzò, sulla pedana apparve una squadretta di capi, il più alto di grado si avvicinò ad un microfono, ticchettò con un dito sul microfono acceso, si schiarì la voce con un colpetto di tosse, iniziò a parlare con voce pacata, seguito in religioso silenzio; alla fine del discorso - tutti in piedi - fu intonata una preghiera, recitata con militaresca simultaneità di gesti e marziale consonanza di voci; cantarono infine un inno dall’aria energica e vittoriosa, venne ammainata la bandiera nella commozione generale.

Dalla mia postazione d’angolo osservavo e ascoltavo il tutto con le gambe accavallate sulla panca, le scarpe sotto la panca, il cappello in testa, la pipa in bocca, senza scompormi e senza ricompormi, distaccato e assente, sotto lo sguardo ostile di una milizia irritata e impotente di fronte alla mia insolente, arrogante noncuranza.
Finalmente la truppa si ritirò nelle tende.
Fumando la pipa, aspettai che calasse il silenzio.
Aspettai che facesse buio.
Mi sdraiai sulla panca.
Solo allora mi accorsi che sopra di me il cielo era di un blu mai visto, punteggiato da chiarissime stelle.

La visita all’Escorial non riuscì a diradare la rabbia che mi si era depositata dentro nel vedere tutta quella gioventù ottusa e fanatizzata dal franchismo proprio nell’anno in cui in tutto il mondo esplodeva la rivoluzione dei fiori.
Lo sconforto aveva origine soprattutto da una riflessione disarmante e da una constatazione amarissima: la mia generazione, come tutte, non sapeva essere altro che conformista.
Conformisti erano i giovani franchisti intruppati come i balilla fascisti o come la gioventù hitleriana di trent’anni prima; conformisti erano i cinesi che sventolavano libretti e bandiere e propugnavano la rivoluzione proletaria; conformisti erano gli hippyes che infilavano fiori nelle canne dei fucili e predicavano il libero amore; conformisti erano i miei amici che - scimiottando i cinesi, i parigini o gli americani - sfilavano in corteo invocando la fantasia al potere.

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