mercoledì 20 maggio 2009

SESSANTOTTO E DINTORNI (7): campo di lavoro in Spagna

Il problema delle vacanze estive lo risolsi iscrivendomi all’associazione internazionale dei “Soci Costruttori” che organizzava campi di lavoro in giro per l'Europa.
Nel luglio del sessantotto partii per Tudela, una città di provincia a metà strada fra Saragozza e Bilbao.

Lavoravo in un cantiere edile come manovale: dovevamo sopraelevare di un piano una fila di basse casette popolari allineate lungo una stradina alla periferia della città.
Gli inquilini non avevano abbandonato i loro appartamenti scoperchiati: di notte ci dormivano; all’alba se ne andavano, dopo aver rivestito completamente le stanze a piano terra con teli di fortuna e vecchie lenzuola e dopo aver seppellito i mobili sotto stracci, carte e cartoni; alla sera tornavano a controllare con aria perplessa il procedere dei lavori e si infilavano nei loro letti polverosi sotto le stelle.
Se il cielo si rannuvolava, era necessario stendere sulle travi del solaio dei teli cerati che avrebbero dovuto resistere al vento; di giorno il compito spettava a noi, di notte agli inquilini.
Il contratto prevedeva che si lavorasse trentasei ore la settimana, sei ore per sei giorni, dalle otto alle quattordici. Per aver liberi i pomeriggi ed i fine settimana, avevamo scelto di lavorare otto o nove ore al giorno.
Arrivavamo in cantiere alle prime luci dell’alba e indossavamo la nostra strana divisa: braghe corte, giubbino e cappello di telaccia bianca, grezza e robusta. Col fresco del primo mattino preparavamo la malta, portavamo i mattoni sulle impalcature, predisponevamo gli attrezzi necessari. Sotto di noi gli inquilini si svegliavano, si lavavano e si preparavano per andare al lavoro, muovendosi silenziosamente come cavie sul fondo delle loro stanzette ridotte a scatole scoperchiate: più di una volta ho dovuto allontanarmi, camminando con discrezione sulle assi sospese, per consentire a qualche residente assonnato e pigro d’intestino di trattenersi il tempo necessario nel suo angusto cessetto di mattonelle azzurre.
Quando i muratori spagnoli arrivavano, il lavoro poteva cominciare senza perdite di tempo. Ogni operaio edile aveva a disposizione almeno tre studenti-manovali: per quanto inesperti, consentivamo ai vecchi operai aragonesi di procedere celermente. I più esperti di noi furono iniziati alla nobile professione del mastro muratore e, sotto la stretta sorveglianza dei capimastri, ebbero il permesso di collocare le file dei mattoni.
Il lavoro era faticoso ma estremamente gratificante: imparai a lanciare i mattoni da un piano all’altro o ad afferrarli al volo senza smaraccarmi le dita, a impastare la malta dosando gli ingredienti, ad usare le carrucole, a bilanciare il peso delle carriole, a salire senza protezione sulle impalcature, a camminare in bilico sulle travi e sui muri, ad usare il filo a piombo, ad intonacare, ….
La fatica ci rompeva la schiena, il sole ce la scorticava. Nessuno però si imboscava: eravamo lì per lavorare e lavoravamo; eravamo volontari e ci impegnavamo; non cercavamo soldi e poca fatica, ma gloria e dedizione totale. Nessun muratore ebbe mai occasione di pungolarci.
A metà mattina si faceva una pausa: ci si lavava con l’acqua di un bidone intiepidita al sole, si divoravano pagnotte enormi imbottite di jamon saporito o di salumi piccanti, si beveva zampillando in gola - a bocca aperta - qualche schizzo un vino o sorsate abbondanti di acqua freschissima.
Il vino locale, aspro e forte, era contenuto in strane ampolle di vetro dal lungo becco; l’acqua si conservava fresca in semplici brocche di terracotta tenute costantemente bagnate in un angolo ombroso.
I muratori ci insegnarono, fin dal primo giorno, la tecnica del bevuta a garganella.
Le lezioni teoriche e - soprattutto - le dimostrazioni pratiche del modo ortodosso con cui si doveva impugnare l’ampolla del vino e reggere la brocca dell’acqua portavano via molto tempo. Il liquido doveva zampillare dall’alto e gorgogliare in bocca. Era da imbranati sbrodolarsi la gola o la casacca. Non era permesso avvicinare le labbra ai becchi. Non era permesso arrestare lo zampillo. Bisognava imparare ad deglutire a bocca aperta o annegare.
Particolarmente curioso - e funzionale - era il modo di impugnare la boccia d’acqua, tenuta col pollice e sorretta col gomito piegato, con l’acqua che scaturiva “alzando il gomito”.
Durante le prime lezioni, nelle quali rigorosamente veniva utilizzata l’ampolla piena di vino, era inevitabile mancare la bocca e lavarsi la faccia o farsi andare di traverso lo schizzo e imbrattarsi la canottiera, fra tossi, risate e lacrime. Se per caso uno di noi riusciva nella difficile impresa e superava indenne la prova, riscuoteva i complimenti di tutti, veniva festeggiato e - a tradimento - riceveva il battesimo del vino, ritrovandosi alla fine nelle stesse condizioni dei maldestri.

Un fine settimana lo passai a Madrid.
Partii da Tudela un venerdì a mezzogiorno e trovai immediatamente un passaggio. Viaggiare in autostop in Spagna era una goduria. Non c’erano i tempi di attesa lunghi come in Italia o infiniti come in Germania (dove gli automobilisti diffidavano dei vagabondi). Bastava mettersi sulla strada e alzare il pollice che si trovava immediatamente un passaggio. Sotto il regime di Franco l’autostop era ancora poco praticato, forse vietato. Gli unici sovversivi che osavano mettersi ai margini delle strade col pollice alzato eravamo noi giovani stranieri: per questo, in un paese ancora relativamente chiuso, la curiosità degli indigeni nei nostri confronti e la disponibilità erano enormi. I nostri occasionali tassisti ci caricavano con allegria, si scioglievano in mille cortesie e attenzioni, ci subissavano di domande, curiosi di tutto, …
L’infinito viaggio lo ricordo come una esperienza a sé.
E più che le persone e le chiacchiere, ricordo i silenzi, la luce, i sobbalzi, le lunghe salite e discese, la meseta gialla e brulla, monotona e infinita, fra sierre secche e pelate, i dossi spogli, le enormi sagome nere del toro che pubblicizza un distillato famoso, le coltivazioni, le case isolate, gli alberi, i pascoli, le nuvole, …

Di Madrid ho due ricordi vivi: la dimensione smisurata delle strade e delle piazze e l’emozionante
visita al Prado. In particolare mi restarono impressi i disegni del Goya, il tratto sicuro della matita, la potenza essenziale delle figure, l’energia viva delle espressioni dei visi appena abbozzati, la composizione dinamica, l’efficace uso dei vuoti, …

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