martedì 26 maggio 2009

1950 (1) : Il paese

Sulla strada di scuola non c’era traffico e i bambini, anche i più piccoli, viaggiavano sicuri.
Si incontravano donnette che tornavano da messa, ragazzette che andavano a prendere il latte, massaie che spazzavano davanti all’uscio di casa.
Si incrociavano soprattutto i vecchi della casa di riposo (“il ricovero”) che - per abitudini mai smaltite - si erano levati prima dell’alba abbandonando quei letti troppo comodi e caldi ed erano usciti da quegli stanzoni, estranei come camerate d’ospedale e odorosi di creolina come i cessi pubblici, per immergersi nella loro antica realtà paesana, fatta di familiari odori di nebbia e di fieno. Vagavano smarriti per le strade in cerca di facce note per attaccar bottone, trascinavano passi inutili fingendo di avere una meta, finivano per rientrare per il rancio delle 11, sotto il peso
della nostalgia, …

Rare a quell’ora erano le biciclette.
Gli operai delle fabbriche partivano infatti per la città alle cinque del mattino: d’estate in lunghe file chiassose; d’inverno intabarrati con cappelli e sciarpe, le mani al caldo nelle manopole di pelle di coniglio che coprivano le impugnature del manubrio, infagottati in pesanti maglioni imbottiti di giornali ed in calzoni di fustagno stretti alle caviglie da mollette per evitare che si impigliassero nella catena.
Era più facile incontrare cavalli che automobili.
Passavano carri pieni di letame fumante, grondanti liquame che lasciava una scia putrida sulla strada e uno strascico di sano fetore nell’aria; passavano carri stracarichi di fieno che occupavano la strada per tutta la larghezza e ci costringevano ad addossarci al muro (e tutti - per l’istinto del somaro, come dice Trilussa - ne strappavamo un beneaugurate filo d’erba da ficcare in bocca); passavano carretti carichi di attrezzi e sacchi, col carrettiere appisolato e il cavallo che caracollava da solo, sicuro verso il campo.

Quando era la stagione, passavano carri carichi di uva sgocciolanti mosto e seguiti da nuvole di moscerini. I carrettieri allegri salutavano tutti come se fossero di ritorno dall’Australia ed i passanti fossero tutti parenti. Sul carro c’erano le vendemmiatrici, eccitate per l’abbondanza, arrossate dalla fatica, stanche di canti e di scherzi, infagottate in vecchi vestiti sporchi; alcune, pronte alla pigiatura, andavano con le gonne già annodate in vita esibendo cosce candide e robuste.

Ogni tanto, di giugno, si incrociava la imponente mietitrebbia: il traffico si fermava per darle la precedenza, come per il Santissimo in processione, come per i cortei funebri. Carri e auto cedevano il passo infilandosi in portoni, cancelli, vicoli e anfratti. Tutti si fermavano a contemplarla muti e affascinati.
Si raccontava che non pochi contadini distratti fossero stati inghiottiti dal mostro e restituiti a pezzi, imballati con la paglia. Io, attratto e impaurito, come Fellini in Amarcord sotto il transatlantico Rex, non mi muovevo fino a quando il mastodonte non aveva girato l’angolo con lenta incredibile manovra.

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