martedì 26 maggio 2009

1950 (3): La nebbia

La nebbia ha nutrito e ingoiato la mia infanzia.
Quella nebbia che attutisce i rumori, soffonde i colori, circoscrive gli spazi, imbozzola il tempo.
Ed i ricordi d’infanzia - o forse i ricordi dei ricordi - persi letteralmente nella nebbia, dalla nebbia riaffiorano e riacquistano il loro contorno, se mi decido ad andar loro incontro con attenta circospezione.
È la nebbia infatti, quella vera, il ricordo più vivo dei primi anni di vita nella mia Bassa, in un paese che ormai non esiste più, inglobato e soffocato dall’espansione edilizia e dalla cintura di villone bifamiliari costruite su pretenziosi montarozzi di terra; reso irriconoscibile dall’asfalto che ha sotterrato i fossi; trasformato in una anonima periferia da capannoni artigianali o industriali; snaturato da sopraelevazioni, mascherato da intonaci in fintorustico, addobbato da improbabili colonne ioniche e da archi in cotto; derubato delle sue aie, dei fienili e delle stalle, degli orti e dei letamai, dei porcili e dei pollai; svuotato da tutti gli animali di stalla e di cortile, mosche comprese.

Negli anni Cinquanta una giornata di nebbia la si percepiva prima dell’alba, perfino prima del risveglio, dal tepore umido del letto, nelle camere resa ancor più nude dal gelo.
Suoni sordi arrivavano nelle stanze galleggiando nell’aria: da dentro casa saliva uno stropicciare di ciabatte, i passi sui gradini di pietra e di legno, il gorgogliare di acqua versata, il tocco di ghisa dello sportello della stufa, lo sfregare di un cassetto, lo strusciare di una sedia accostata; da fuori
entrava il raspare degli zoccoli di un cavallo sull’acciottolato del dosso, il rintocco delle ore, il cigolio della carrucola del pozzo, lo sbattere di una porta, il frusciare di una bicicletta lungo la discesa.
Un barlume impercettibile filtrava nella camera dalle imposte sconnesse della finestra: bastava quello per orientarsi, per percepire il rettangolo buio della porta, per trovare le ciabatte tastando col piede, per instradarsi verso la scala, girare un angolo e scendere a tastoni sicuri verso i chiarori della cucina.
Sulla tavola era pronto, per sciacquarsi la faccia, un catino d’acqua tiepida prelevata dalla caldera incrostata di calcare della stufa-cucina, sulla cui piastra rovente, in un angolo lontano dai cerchi, era messo a intiepidire il pentolino del latte; nel forno biscottava il pane, sul corrimano si scaldavano calze e guanti, sulla raggiera asciugava fumante una maglietta felpata di lana.
I vetri della finestra, decorati dal gelo con disegni di felci di cristallo, lasciavano intravedere un molle lenzuolo grigio.
La scodella della colazione, nelle fredde mattine di nebbia fitta, la si teneva con le due mani, come il santo graal: il dolce latte era denso di panna e coperto di una telarina gustosa, veniva sorbito in un silenzio religioso, riscaldava il corpo e intiepidiva i pensieri. Il pane biscotto veniva consumato lentamente: in silenzio ne studiavo la croccante consistenza, ne decifravo le vene di colore e imparavo a memoria i suoi indefinibili profumi.

La nebbia fuori aspettava, coprendo i tetti e imbottendo gli spazi fra le case, e contagiava tutti, imponendo il silenzio e la lentezza.
Pochi cani osavano abbaiare contro il grigio uniforme.
Il canto isolato di qualche gallo incosciente si strozzava nel fumo umido.
I tocchi degli zoccoli di un cavallo, nitidi sul rumore strascinato delle ruote del carro, sembrava inverosimile.

Qualche volta ricevevo l’incarico antelucano di passare dalla lattaia a prendere un pentolino di latte: uscivo di casa e scendevo verso la piazza, rasentando i muri dei quali conoscevo ogni anfratto, ogni mattone o pietra, ogni chiazza scalcinata. Conoscevo la misura di ogni edificio, la larghezza di ogni cancello o portone, la luce che filtrava da ogni finestra, gli odori che emanavano da ogni porta.
Il latte si comprava sciolto. La latteria era una stanza umida divisa dalla strada da una tenda di palline colorate che tintinnavano ad ogni passaggio.
Il bancone era di legno, verniciato con maldestre pennellate di vernice gialla. Sulla mensola erano allineati i recipienti di diversa capacità in perfetto ordine decrescente. Lungo una parete sostavano schierati i bidoni zincati dei “menalatte”: ritti e coperti quelli pieni, rovesciati a scolare sul pavimento in pendenza quelli vuoti.
Sotto il bancone, nella zona riservata ai clienti, c’era un mastello pieno dal quale la lattaia attingeva pescando sul fondo con un lungo mestolo cilindrico, esperta nel raccoglierne la giusta quantità e nell’evitare le mosche che, nuotando frenetiche, galleggiavano sulla superficie schiumosa, affogando nella sazietà.

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