L’Islanda,
così è scritto su Wikipedia, conta 3 abitanti per chilometro quadrato (in
Lombardia, tanto per farsi un’idea, siamo 400 per Kmq).
La vicenda raccontata
nel film si svolge in una valle sperduta dell’isola polare e – ça va sans dire
– è una storia di solitudini. I protagonisti-antagonisti sono due anziani fratelli, selvatici e barbuti come vichinghi, che si
chiamano Gummi e Kiddi (nomignoli da saga harrypotteriana): figli di pastori e
nipoti di pastori, fanno i pastori e –
pur avendo case, stalle e pascoli confinanti – si detestano per antichissimi e
oscuri rancori familiari e non si parlano da quarant’anni (usando, per
comunicare fra loro, dei biglietti affidati ad un cane – ovviamente pastore –
“non allineato”, neutrale, estraneo alle loro ostilità).
Un’epidemia fatale per le greggi – ma
anche letale per l’economia di sussistenza dei pastori, per la loro piccola
patria e per tutti i riferimenti affettivi – irrompe nella loro esistenza, la
sconvolge e li costringe a modificare la loro selvatica quotidianità. Poiché le
autorità, per contenere il contagio, hanno ordinato l’abbattimento di tutti i
capi che popolano la valle, Gummi, uno dei due ostinati fratelli (caparbio come
lo è nel vivere la sua solitudine piena di livori) decide di salvare otto capi
(un montone e sette pecore), forse più per difendere le ragioni della sua
esistenza che per garantire la sopravvivenza della pregiata razza ovina.
Da quel momento i gesti di ostilità
fra i due diventano confusi passi verso il riavvicinamento (vedi la rissa nella
stalla che è nello stesso tempo aggressione e recupero di un contatto; un
assalto improvviso, una colluttazione scatenata e subito spenta che –
sicuramente – solleva il ricordo delle giocose zuffe che infiammavano la loro
infanzia). Nello stesso tempo i gesti della ritrovata alleanza si
caratterizzano come astiose sottolineature dei loro risentimenti (vedi,
emblematica, la scena in cui Kiddi salva la vita al fratello ubriaco, crollato
nella neve e ormai mezzo assiderato, sollevandolo e trasportandolo all’ospedale
su pala meccanica e scaricandolo davanti al pronto soccorso come fosse
materiale inerte).
I due protagonisti si muovono sobri, essenziali nei loro
movimenti, silenziosi, coerenti nella loro ruvida scorza che copre
un’inconfessata fragilità (e vengono in mente le ostinazioni e la marginalità
raccontate da Linch in Una storia vera
o da Payne in Nebraska).
La trama ha un lento sviluppo lineare, senza colpi di
scena e senza enfasi, quasi senza ritmo, in un impercettibile crescendo che dà
potenza alla storia. Il regista sta bene attento a non scivolare nel grottesco
(tentazione facile quando si tratteggiando personaggi così “primitivi”) e
nemmeno a concede spazio a facili sentimentalismi: taglia corto nelle scene che
potrebbero solleticare l’emotività (come nel finale, magistralmente sospeso),
sceglie la moderazione, non scivola nel melò.
La macchina da presa è discreta, impercepibile: osserva
quel che accade, assiste, segue documentando. E non cerca stramberie
prospettiche, inquadrature ad effetto, montaggi da allievo di scuola di cinema;
coerente anche in questa sobrietà con la desolazione dei paesaggi e con la
monotonia esistenziale che descrive.
Eppure il
film tiene, prende, è denso nella sua pur pacata monotonia, vivo nella sua
raffinata monocromaticità.
Il finale
sospeso – che in molti film sta diventando una consuetudine furba – qui è
sostanzioso, significante. Non importa che le pecore sopravvivano; e non conta
nemmeno la sopravvivenza “fisica” dei loro pastori. Conta invece che i due
selvatici fratelli abbiano fatto in tempo a ritrovarsi prima di essere
inghiottiti dalla bufera infernal che mai
non resta.
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