Siamo in Francia, dalle parti di Calais, negli anni che
precedono la prima guerra mondiale. In una villa isolata simil-egizia che
sovrasta una baia, passano la loro estate alcuni membri di una famiglia
aristocratica: il traballante signor André Van Peteghem (Fabrice Luchini), la sua svampita signora, madame Isabelle (Valeria Bruni Tedeschi), due figlie, la
teatrale sorella (Juliette Binoche)
col marito psicotico e la loro eccentrica figlia, Billie, che si traveste
spesso da maschio.
Lì vicino, in lerce stamberghe poco distanti dal mare, abita
stabilmente la famiglia Brufort, composta da due coniugi e quattro figli, uno
adulto (il Ma Loute che dà il titolo al film) e tre bambini. Il vecchio Brufort,
ex-pescatore, ora raccoglie cozze e, d’estate, aiutato dal figlio maggiore, trasborda
turisti attraverso la laguna, traghettandoli in barca quando c’è la marea, o in
spalla, come San Cristoforo, quando l’acqua cala.
Sul posto si aggira anche un obeso ispettore di polizia e un
suo aiutante che indagano su inspiegabili sparizioni di turisti di passaggio.
Billie e Ma Loute s’incrociano e quasi subito s’innamorano, nonostante
la contrarietà delle rispettive famiglie e nonostante le abissali differenze
(lei è splendida e ricca, lui è un miserabile con l’espressione sgraziata di un
idiota). Ma la loro improbabile relazione va in crisi quando Ma Loute scopre
che Billie non è una femmina che si veste da maschio, ma un maschio che ama
travestirsi da femmina.
La trama di per sé non è complessa e ha una sua accettabile
impalcatura.
Ma il film risulta ostico e incomprensibile, pesantemente
condizionato e reso sconcertante dalla caratterizzazione caricaturale dei
personaggi (talmente stravaganti da apparire inverosimili) e da un surrealismo crescente
che alla fine impregna tutto il film: un surrealismo a tratti lirico (con
personaggi che si librano nell’aria come nei quadri di Chagall), a volte grottesco
(con passaggi inverosimili e paradossali) e in certi momenti granguignolesco (con
sgradevoli scene di cannibalismo).
La scelta di disorientare è intenzionale in Bruno Dumont, il
regista, che gioca a fare l’iconoclasta anarchico e non salva nessuno dei suoi scombinati
personaggi, tutti brutti, tutti paurosamente sopra le righe, tutti mostruosi,
tutti infelici.
I nobili sono tarati e malsani, stralunati al limite
dell’ebetudine; i loro gesti sono eccessivi e plateali, impacciati e maldestri;
i discorsi sono falsamente esaltati, esasperati nella loro ipocrisia, ingarbugliati
e assurdi, alla Jonesco.
I sottoproletari sono cupi, torvi, afasici; le loro
espressioni (intense) sono da idioti; i loro movimenti hanno automatismi da
dementi; le loro azioni sono dettate da una ferocia inconsapevolmente ottusa.
Il clero, le forze dell’ordine, l’esercito, … fanno da
contorno grottesco, dando dimostrazione della totale inefficacia, tragicamente
comica, delle istituzioni.
Guardare il film è come attraversare il tunnel degli orrori
in un luna-park scadente in cui non si sa se ridere o disperarsi. Tutto quello
che accade è incomprensibile e inquietante, tanto più inquietante, quanto più indecifrabile:
voli, assassinii, processioni, naufragi, banchetti, discorsi.
I rimandi sono numerosi, eterogenei, confusi.
Si è già detto di Chagall (con la signora vestita di pizzo
che si eleva nel cielo), ma c’è anche Magritte (perché nel finale si libra fra
le nuvole anche il commissario obeso, vestito di nero e con la bombetta in testa)
e Monet (per gli scorci paesaggistici) e forse anche Turner (per le barche
nella tempesta).
Sempre il commissario col suo esile assistente appaiono una
citazione di Ollio e Stanlio e della slapstick
comedy (un genere nato proprio in Francia agli inizi del secolo scorso, fondato
sulla comicità dei corpi): vedi la gag ricorrente delle cadute, le botte
distribuite, le sdraio che cedono, le posture e i gesti e l’incedere spastico
di André, l’incidente col carretto a vela, la carica del
colonello-trombettiere, l’inseguimento collettivo della corda penzolante legata
al piede del commissario obeso che levita come un palloncino (e come un
palloncino si sgonfia e torna a terra quando gli sparano), …
Gli effetti sonori (come quello dei passi dell’elefantiaco
commissario) sono da cartone animato.
La scelta di costruire una storia attorno alla parabola del
cannibalismo ricorda Delicatessen
(1990) di Jeunet e Caro.
L’eccentricità dei personaggi è felliniana; la causticità
anarchica ricorda Buñuel (e Marco Ferreri, il grande fra gli irriverenti).
Le metafore, talvolta impercettibili, abbondano. Quelle che
alludono all’eterna contrapposizione delle classi sociali sono le più frequenti:
il lungomare desolato e fangoso per i poveri è ragione di gridolini di
meraviglia per la nobildonna (il cui marito però va avvertendo allarmato che “C’è
il fango nella Baia!”); il cibo è occasione ossessiva di convivialità per i
borghesi (che però non lo toccano, come nel buñueliano Il fascino discreto della borghesia) e di primitiva voracità
cannibale per i poveri; l’aristocratico André esprime tutta la doppiezza di
conservatore disprezzando la volgarità dei pezzenti o l’ambiguità sessuale di
sua figlia e giustificando però i rapporti incestuosi nella sua famiglia
degenerata e decadente. La composizione stessa del cast forse ci vuol dire
qualcosa, con gli attori professionisti tutti a interpretare i ricchi (e a
parodiare i propri cliché) e gli interpreti presi dalla strada a impersonare i
miserabili.
Il tutto confezionato in modo da far capire che le
differenze di classe non corrispondono a sostanziali differenze fra gli
individui, tutti accomunati da un imbarazzante disadattamento esistenziale (rappresentato
dalle deformità fisiche).
Come molti film che hanno l’ambizione di essere autoriali, Ma Loute mostra però le corde: è eccessivo
nelle allegorie, debordante nell’ossessione per l’assurdo (alla Alfred Jarry),
troppo schematico nelle allusività (e quindi, alla fine, criptico), troppo insistente
su dettagli che vogliono essere pregnanti di significatività ma risultano
incomprensibili (e, se la prima volta stupiscono, la seconda spiazzano e poi
annoiano o irritano).
L’idea di raccontare tragedie utilizzando gli stilemi
farseschi è difficile da praticare. È vero che la farsa è uno degli strumenti
più potenti per esprimere il disprezzo per i propri simili, ma è anche vero che
si presta a letture epidermiche; che nella maggior parte dei casi lo spettatore
guarda il dito, ride e non riflette, propendendo a letture moralistiche,
presumendo che l’irrisione non lo riguardi ma sia destinata ad altri.
In sostanza siamo di fronte all’opera complicata di un
inguaribile misantropo, di un arrabbiato, di un pessimista tetro,
irrimediabilmente diffidente nella possibilità dell’uomo di trovare una
dimensione “umana”.
Se Bruno Dumont avesse ceduto a una tentazione di ottimismo,
avrebbe fatto annegare nella tempesta in mare i due ragazzi innamorati. E
sarebbe stato un lieto fine.
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