Ciò che più irrita, in certi (troppi, ormai) film
italiani è la pretenziosità accompagnata da dosi massicce di pretestuosità.
Opere mediocri, nemmeno buone per un passaggio
televisivo, nascono da idee ambiziose quanto insignificanti, si ammantano di
sceneggiature macchinose e confuse, sviluppano una trama incerta fra il
didascalico e l’apocalittico, sprecano talentuosità attoriali, snodano dialoghi
frammentati, sono infarcite di autocompiacimento, sfoggiano una fotografia
inutilmente fastosa, scritturano compositori da Oscar per le colonne sonore. E
trovano stampa compiacente e kermesse ruffiane.
La storia narrata da Roberto Andò in questo film è
sconfortante, gonfia di niente.
Il direttore del Fondo
Monetario Internazionale e i ministri
dell’economia di otto importanti paesi s’incontrano in un lussuoso albergo
tedesco affacciato sul Mar Baltico per prendere una decisione determinante per
l’economia globale, un provvedimento che – questo si intuisce vagamente – consoliderà
la loro potenza con effetti devastanti per tutti gli “altri”.
Al summit sono stati convocati, non si sa per quali
ragioni, anche tre non addetti ai lavori: un austero frate, una deliziosa scrittrice
di libri per l’infanzia e una rockstar, fuori posto quanto basta. Nessuno dei
tre ha a che fare con la politica o con l’economia globale: ma forse – vallo a
capire – la loro presenza serve a dare una facciata etica al raduno dei
mascalzoni, oppure è semplicemente un comodo espediente narrativo pensato per
sovraccaricare di metafore (fede, innocenza e creatività) la storia,
trasformandola in apologo, o per introdurre un elemento di disturbo in una
situazione altrimenti piatta e deprimente oltre misura.
Il direttore del FMI che presiede il
vertice, si suicida dopo un colloquio/confessione
col monaco (che – nomen omen – si chiama Roberto Salus ed ha la faccia
inespressiva di Toni Servillo). La tragica fine del mega-dirigente scatena
le più disparate reazioni: i potenti vacillano di fronte al sospetto che il
frate abbia ricevuto indebite confidenze sui loro inconfessabili segreti, qualche
ministro entra in crisi e appare confuso e smarrito, il consesso perde la
coesione iniziale; a nulla serve l’intervento di una teutonica regina del male
che - videoconnessa - impartisce disposizioni e invita all’intransigente
obbedienza i pavidi plenipotenziari. Lo strano monaco (che ha il vizio del fumo,
anomalo in un asceta, ed è un birdlistening
munito di registratore digitale) sbaraglia la compagine dei ministri
confondendoli – chissà perché – con un’astrusa formula matematica (incompresa e
incomprensibilmente potente nello smontare le loro macchinazioni).
Il film si conclude con un’inutile coup
de théâtre: padre Salus pronuncia un severo discorso sentenzioso (una lavata di
capo) ai plutocrati riuniti per il funerale e poi svolazza via sotto forma di
upupa, per ricomparire su una spiaggia seguito da un feroce mastino da lui
ammansito e allontanarsi infine sotto il sole, dimenticandosi dietro le spalle
tutti i problemi insoluti del mondo. E lasciando
noi spettatori allibiti di fronte ai troppi misteri irrisolti di questo film,
provocatoriamente zeppo di messaggi indecifrabili.
Sorge il sospetto che il regista ci
abbia voluto prendere in giro nel costellare il percorso di indizi inutili, di
messaggi cifrati, di segnali fuorvianti, di depistaggi; e che abbia concepito
il film nello stesso modo e con lo stesso scopo con cui ha architettato la
formula matematica che sconcerta proprio per la sua inutilità.
Se così fosse, ma non è così, Andò
meriterebbe l’Oscar per la spudorata e geniale provocatorietà.
Leggo che il regista ha collaborato con Sciascia. Ed infatti
questo film ricorda vagamente il Todo
Modo di Petri ( tratto, appunto, da un’opera di Sciascia), sia per il
taglio da pamphlet che per molti elementi che lo connotano, quali il convegno
dei potenti, la cupa claustrofobia delle ambientazioni, il delitto, la
conflittualità, la spiritualità aleggiante, i temi dell’espiazione. Ma qui
siamo lontani dalla radicalità intensa del modello e dalla trasparenza dei
riferimenti storici contenuta in Todo
modo (che, infatti, fu censurato); e ben lontana della feroce potenza
istrionica di Volontè appare l’imbarazzante catatonia di Servillo.
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