L’Iran, parlando di cinema, riserva sempre delle
piacevoli sorprese.
E questo film, nella sua genuinità
neorealista, conferma questa premessa.
Il paese mediorientale attraversa una situazione
– storica, politica, economica, culturale e di costume – molto simile a quella
dell’Italia degli anni ’50, arrancando faticosamente fuori dal caos seguito
alla rivoluzione komeinista e alla guerra con tutti gli squilibri che
accompagnano il difficile cammino verso la democrazia e la modernità: e il
cinema, proprio come quello del nostro dopoguerra, appare lo strumento più
adeguato per raccontare alla “gente” la realtà, per riflettere sulle
opportunità di cambiamento, per indicare direzioni e per sollecitare la ricostruzione.
La vicenda raccontata si snoda tutta attorno
alla strana idea di Jalal, un buon uomo che – avendo deciso di donare diecimila
dollari in beneficenza a una persona bisognosa – mette un’inserzione sul
giornale per convocare i postulanti e stabilire a chi assegnare la somma. Nel
giorno indicato, davanti alla sua abitazione a Teheran, si presentano migliaia
di disperati e l'impreparato filantropo, oltre che mettersi nei guai con la
polizia per “procurato allarme”, non sa come districarsi dalla situazione in
cui si è cacciato.
Il regista (Vahid Jalilvand) usa un
ingenuo espediente narrativo per lanciare una dura accusa alle
inadeguatezze della politica: come molti altri registi che operano in paesi nei
quali la contestazione è pericolosa e la censura è sempre in
agguato, evita guai raccontando formalmente una piccola storia, dietro
alla quale però emerge evidentissima la precisa denuncia contro il malessere,
la miseria, la mancanza di lavoro, l’inadeguatezza dell’assistenza sanitaria, …
e appare esplicita la chiamata in causa della classe dirigente del paese.
L’accusa si estende qui (temerariamente) anche
alla “mentalità” retrograda che soffoca la società iraniana, pesantemente
condizionata dal conservatorismo e dall’integralismo religioso. Nella
folla dei postulanti, infatti, le due donne individuate come possibili
beneficiarie della somma messa a disposizione si trovano in difficoltà a causa
dell’ottuso maschilismo dei loro familiari: Leila, che anni prima era stata
promessa sposa di Jalal, ha bisogno dei soldi (dollari, non rial) per pagare le
cure del marito (interpretato dal regista stesso) che però, pur essendo
in condizioni gravissime, rifiuta l’aiuto per gelosia e
malcelato orgoglio; l’altra donna, Setareh, ha bisogno della somma per far
uscire da prigione il compagno ingiustamente detenuto col quale si è sposata
segretamente perché oppressa della zia tutrice e angariata del cugino che non
approva la sua relazione.
Appare come confortante segno di apertura (o
comunque un cedimento della protervia retorica di un regime teocratico) il
fatto che sia consentito a un regista iraniano di raccontare una storia in cui
solo l'inverosimile miracolo di un improbabile benefattore possa risolvere i
drammi di due povere donne.
Il peso allegorico e il valore politico della
vicenda sono fondamentali, mentre appare secondaria la qualità intrinseca del
film che, comunque ottima, presenta qualche ingenuità e alcune debolezze di
sceneggiatura (la scelta, per esempio, di premiare - troppo metaforicamente -
la giovane ribelle incinta a scapito del moribondo marito della ex-fidanzata).
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