Julieta, una
distinta signora ultracinquantenne, in seguito all’incontro casuale con
un’amica di sua figlia Antìa (che l’ha abbandonata dodici anni prima ritenendola
responsabile della morte in mare del padre), decide di riconsiderare la sua
esistenza, ricucirne i brandelli, analizzare errori e fallimenti e tentare di
recuperare i rapporti con la figlia. E lo fa attraverso la scrittura di un
lamentevole e autoassolutorio diario epistolare che dovrebbe chiarire tutto,
aggiustare tutto, assolvere, giustificare, recuperare.
Lo spagnolo Almodovar,
il più fantasioso inventore di immagini, traspone in un film alcuni racconti
della canadese Alice Munro, la più sofisticata alchimista della parola, e
compie l’errore, secondo me fatale, di imbastire una sceneggiatura esageratamente
condizionata dalla scrittura e di ammorbare tutto il film con un estenuante
sottofondo costituito dalla fastidiosa voce fuori campo di Julieta.
Julieta ricorda e
scrive, si dispera e scrive, scrive e si giustifica. E Almodovar, che vuole
sottolineare il valore salvifico della parola, ammorba le atmosfere con le
estenuanti considerazioni “diaristiche” che rendono la visione eccessivamente narrata,
verbalizzano puntigliosamente quel che ci passa sotto gli occhi, chiosano quel
che s’intuisce, commentano e spiegano tutto, imprimendo alla trama un andamento
pesantemente didascalico.
Il film – che si
dipana dalla scrittura di una lettera/diario - è ovviamente farcito da numerosi
flashback. Nella prima parte, per ragioni imposte dalla cronologia, prevalgono
le splendide scene della solare giovane Julieta che morde con gusto le sue
coloratissime giornate. Nella seconda parte, una Julieta fragile e ripiegata su
se stessa – vedova e abbandonata da una sbiaditissima figlia – vive con
laceranti sensi di colpa i cambiamenti che la vita riserva a ognuno di noi e
annaspa per recuperare l’impossibile. Nel finale l’atmosfera si fa sempre più cupa
attorno alla scialba Julieta che naufraga e la prefigurazione di un ristabilimento
di equilibri non è convincente.
Ad accontentare gli irriducibili
aficionados del regista spagnolo, troviamo molti temi almodovariani (amore e dolore
da separazione, nascita e morte, desiderio e abbandono, euforia e depressione, colpa
e punizione, rimorso e catarsi, fato, assenza, solitudine, fatica di vivere, …)
e non manca l’ossessione compiaciuta per il valore simbolico dei colori
(rosso-amore, nero-morte, blu-libertà, …).
Ma non c’è traccia in
questo filmetto della densa umanità di Tutto
su mia madre o dello struggente pathos melodrammatico di Parla con lei (che tocca il suo apice
nell’inarrivabile scena in cui Caetano Veloso canta Cucurrucucu Paloma) o dell’energia iconoclasta di La mala educacion.
Qui le tinte forti
le troviamo solo sugli abiti indossati dalla protagonista e sui muri degli
appartamenti madrileni. Non rimangono tracce
della vitalità barocca dell’ex-eccessivo regista spagnolo e della sua anarchia
buñueliana.
Il tempo passa anche
per vecchio Pedro, classe 1949.
-->
E ad essere
straziante non è la storia, ma la regia.
Nessun commento:
Posta un commento