È difficile,
ad una certa età, non ripetersi … ma il dottor Geoge Miller, sceneggiatore e
regista dei tre vecchi film della saga di Mad Max (Interceptor, del 1979, Il
guerriero della strada, del 1981 e Oltre
la sfera del tuono, del 1985), a settant’anni suonati colpisce ancora.
Chi si aspettava un remake o comunque una furba rifrittura in salsa digitale dei film
precedenti (oggi da molti ampiamente praticata), è uscito ricreduto e sconvolto
dalla visione di questo NUOVO film.
I punti di
consonanza con i film precedenti sono numerosissimi.
Restano
uguali le ambientazioni nelle desolate terre perdute; uguale la collocazione
temporale in un’imprecisata era post-apocalittica (non troppo lontana, a
giudicare dai modelli di auto che si intravvedono sotto le mostruose e
raffazzonate macchine da guerra); simili sono le scenografie visionarie fra caverne
da incubo, piattaforme ciclopiche, argani infernali costruiti con le tecnologie
di una civiltà scomparsa e mossi da dannati alla catena.
Identico è il
leitmotiv dell’infinita fuga per la salvezza da inarrestabili inseguimenti.
Analoga è
l’umanità avvelenata e disperata che non ha più la voglia di cercare la redenzione.
Il
protagonista è sempre un taciturno eroe, solitario per vocazione (alla Clint
Eastwood, per intenderci), asociale, chiuso nei suoi tormenti, refrattario a
fornire il suo aiuto.
Quasi
identici permangono i riferimenti socio-politici a un mondo governato da demiurghi
pazzi le cui deformità sono lo specchio della malvagità (eh, già: brutti e
cattivi); con despoti che fondano il loro potere sul controllo della produzione
dell’energia, lo difendono col terrore e lo coonestano dentro una religione strumento
di potere che genera fanatici e martiri.
Analoghi ancora
i combattimenti ipercinetici, qui spinti al massimo; il montaggio frenetico che
li esaspera, lo sfondo sonoro assordante che li accompagna e li sottolinea,
saturato dal rombo dei motori e dal fragore delle esplosioni, in un tripudio
rock che non ha eguali nella storia del cinema.
Resta infine
uguale – esaltata all’estremo – la volontà del narratore di sollecitare fino al
parossismo le secrezioni adrenaliniche del pubblico.
Ma in questo
film è possibile trovare anche dei punti di divergenza rispetto alla trilogia
degli anni ’80. Ne elenco tre.
Il primo è dato
dalla scelta dell’interprete.
Per il
quarto film della saga il regista e i produttori non sono andati a cercare il
veterano Mel Gibson, ormai cinquantanovenne, troppo vecchio forse per
impersonare sul set un eroe solitario che vaga nei deserti (e combatte come una
furia contro l’ingiustizia e sopravvive solitario adattandosi a condizioni
impossibili, cibandosi perfino di lucertole bicefali, frutto di mutazioni
genetiche dovute a chissà quale catastrofe).
Ma
produttori e regista avevano altre ragioni, oltre a quella anagrafica, per non
volere Mel Gibson.
I
produttori, attenti al botteghino, non volevano correre rischi assoldando un
bizzoso attore balzato ala cronaca per certi suoi atteggiamenti misogini e
razzisti (che da noi premiano, ma in America sono imperdonabili e hanno
influssi negativi al botteghino).
Il regista
ha voluto abbandonare Mel Gibson per tentare di rimodulare coraggiosamente un “nuovo” Mad Max meno sfrontato e sicuro, diverso dall’eroe
spaccatutto, più introverso, chiuso,
vulnerabile, disperato (“In questa terra
desolata sono colui che fugge sia dai vivi che dai morti”); un antieroe
quasi afasico, meno
protagonista, meno onnipotente, a volte perfino un po’ inadeguato, randagio,
marginale. E ha scelto Tom Hardy, corpulento e un po’ bolso, dallo sguardo
perso e assente. Sarebbe stato difficile, poco credibile, costringere quel miles gloriosus di Gibson a subire quel
che il nuovo antieroe sopporta nella prima ora di film: appena entrato in scena, Max viene catturato,
legato come un salame, spremuto e usato come sacca portatile di sangue; e non
fa altro che grugnire imbavagliato, impotente, incatenato sul paraurti di una
macchina d’assalto che insegue la cisterna fuggitiva (come gli ostaggi sulle
torri d’assalto negli assedi padani del Barbarossa). E si presenta (“Mi chiamo
Max”) solo dopo che una donna lo ha liberato e ha deciso di accettare la sua
collaborazione.
La seconda dissomiglianza
che si può cogliere è data dal femminismo (apparentemente ruffiano) che pervade
l’intera storia.
Nei
precedenti film di Miller, imperversava un maschilismo deciso ed esplicito che dilagando
poi incontenibile aveva contagiato per decenni i suoi epigoni ed imitatori (registi
di film, disegnatori di fumetti, manga soprattutto, e sviluppatori di
videogiochi).
In questa
quarta puntata della saga (che forse sarebbe meglio considerare la prima di una
nuova epopea) le cose sono cambiate. Il film mantiene ancora nel titolo il nome di Max il Cattivo, ma lo fa solo per
ragioni di marketing; il vecchio eroe non è più così cattivo; ed è stanco, sfiduciato,
roso dai rimorsi; e non è nemmeno il protagonista. La vera protagonista è l'imperatrice
Furiosa (Charlize Theron), splendida e magnetica,
disperatamente cocciuta, ribelle ostinata, carica
di odio intenso e vigoroso. Indimenticabile.
Il
passaggio di consegne è esplicito nella scena in cui Mad Max, dopo uno scambio
di sguardi, cede il fucile all’infallibile Furiosa per non sprecare l’ultima
pallottola che fermerà Immortan Joe.
I
pochi personaggi positivi del film sono tutti appartenenti al genere femminile:
le “fattrici” (splendide visioni), le balie, le vecchie donne-guerriere in
motocicletta, ultimi membri di una tribù giusta, ovviamente matriarcale e
misantropa (“Ricorda: un uomo, un colpo”).
Una
donna, una fra le madri in fuga, riesce perfino a redimere un fanatico “figlio
della guerra” e renderlo alleato dei fuggitivi.
La
terza differenza da sottolineare è l’attenzione romantica, quasi religiosa, alle
istanze ecologiste. I buoni del film vedono il rispetto della natura, il
ritorno alla natura come l’unica speranza, l’unica strada per recuperare i
disequilibri, non solo post-atomici, che hanno guastato il pianeta e i suoi
abitanti.
Il
potere, in Fury road si basa sul
controllo dell’acqua più che su quello del carburante; le fuggitrici sono
incinte e “pulite” (la scena del “lavacro” ha una liricità quasi religiosa); la
meta è verso la Terra Verde (un paradiso terrestre perduto); una delle vecchie
guerriere motocicliste porta con sé i semi che faranno rifiorire i deserti e
aiuteranno i nascituri a sopravvivere; sull’avventura folle aleggia il concetto
di catarsi e redenzione, con la voglia di ricominciare.
I colori
sono indimenticabili: l’ocra del deserto, il rugginoso delle carcasse d’auto
(straordinarie le utilitarie-istrice), il bruno macabro delle paludi sorvolate
da uccelli tetri e attraversate dalle silhouette nere degli uomini-trampoliere
che sfilano silenziosi, il rosso fuoco del chitarrista metal fiammeggiante, il
bianco assurdo dei corpi degli schiavi dallo sguardo assente, i gonfi nembi
monocromatici della tempesta di sabbia.
Il montaggio
è serratissimo. Leggo che Margaret Sixel, la moglie di Miller, abbia visionato 480
ore di materiale girato e che nel film di 120 minuti siano inseriti 2.700
stacchi: un’esagerazione, un’ossessione frenetica, una sfida alla regola che
vuole che tutti i film – porno e splatter compresi – abbiano pause e
rallentamenti per far prendere fiato allo spettatore fra un climax e l’altro e
consentirne la metabolizzazione.
La
velocizzazione di molte scene rende ancor più frenetica l’azione (ma insinua
anche il sospetto che voglia dare alle scene una spolverata di comicità
autoironica che strizza l’occhio agli spettatori più critici e smaliziati).
Il potente Immortan
Joe è interpretato dal vecchio Hugh Keays-Byrne che nel primo Mad Max aveva
impersonato lo psicopatico Toecutter.
Straordinari
gli stuntman (che sgobbano e rischiano, con un regista che non ama artifici
digitali di postproduzione).
Trucco e
costumi hanno una stupefacente coerenza con lo sfacelo e l’imbarbarimento di
una civiltà alla deriva, con corpi che presentano deformazioni da mutanti, tatuaggi
e scarificazioni, mutilazioni e marchiature a fuoco; e abiti luridi come i
corpi che rivestono, laceri come le anime sfibrate; e armature che sono
un’esasperata deformazione delle più grottesche armature di tutti i medioevi,
con teschi piazzati ovunque.
L’ingegnosità
degli strumenti di guerra è sbalorditiva: basti ricordare gli istrici, le lance
esplosive, le pertiche flessibili, le lame rotanti.
La musica
metal (di Junkie XL) la fa da padrona: geniale l’idea di dare all’inseguimento
la cadenza necessaria aggregando alla colonna armata un carro musicale fatto di
tamburi e amplificatori e di un muro di casse, con appeso sul davanti un
chitarrista-burattino strafatto (una specie di Marilyn Manson) che dal suo strumento
emette suoni e fiamme ugualmente catastrofici.
Un’opera maestosa,
ed anche un giocattolone frastornante e un’abbuffata visiva (“Ammiratemi!”), una scorpacciata ruspante
(che ogni tanto ci vuole a rompere diete, menu insipidi e aromi artificiali).
Un film
comunque totalitario, assoluto, prepotente, che lascia senza fiato.
Un film che
esalta l’arte del cinema, quello vero, quello che sul piccolo schermo si
raggrinzisce, quello che non accetta fruizioni solitarie. Fury Road può essere goduto solo sul grande schermo, con una buona definizione
e un’amplificazione giusta, in una sala cinematografica affollata, dove le dosi
individuali di adrenalina si sommano, fanno massa, impregnano l’aria.
PS.1
Miller
avrebbe sfornato una “genialata” memorabile, da storia del cinema, se avesse
avuto la semplice idea di introdurre alcune piccole modifiche nella
sceneggiatura in modo da poter sopprimere tutti i dialoghi,
assolutamente inutili (lasciando forse qualche grugnito e qualche squittìo). Avrebbe
potuto, oltretutto, vender il film in tutto il mondo senza le spese per
doppiaggi e sottotitolazioni.
PS. 2
Che dice
Tarantino di questo film?
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