La bella Katalin (Hilda
Peter) vive in un appartato villaggio sperduto fra le montagne della Transilvania.
Ha un figlio undicenne, un buon marito, una casa accogliente.
Rispondendo a un impulso irrazionale, confida ad una amica
che Dobran, suo figlio, è frutto di uno stupro. La cosa si viene a sapere, il
marito la ripudia, gli equilibri si spezzano e lei carica il suo ragazzo su un
carro trainato da cavalli e si allontana dal paese.
Questo antefatto si prende, nel economia del racconto, lo
spazio di pochi minuti.
L’epilogo infelice avrà la stessa breve durata.
Il corpo del film è invece costituito dal lento racconto di
un lungo viaggio, apparentemente senza meta, attraverso paesaggi vuoti, colline
immerse nelle nebbie, campagne povere, boschi incolti, greggi senza pastori, casolari
sparsi e strade deserte.
Katalin fa credere al figlio che l’improvvisa partenza sia
dovuta all’invito della vecchia nonna ammalata, ma il vero scopo del viaggio è
quello di allontanarsi dal nido distrutto della sua apparente serenità, di
dislocarsi come per separarsi da sé, di fuggire dalla piccola comunità che
l’avrebbe comunque bandita, di prendere coscienza di una infelicità a lungo trattenuta
e dissimulata.
Non ha piani premeditati, la povera e smarrita Katalin: va,
semplicemente, alla ricerca di distanze emotive, nascondendo al figlio le
ragioni della sua fuga; percorrendo strade con la speranza inconsapevole di
trovare una via d’uscita dal groviglio delle desolazioni; mettendo fra sé e il
suo passato – recente e remoto – gli spazi vuoti che attraversa; cercando, nel
trascorrere dei giorni e delle notti, l’impossibile ricomposizione di un equilibrio
perduto; affrontando indifferente le difficoltà di questi spostamenti in zone
inospitali, fuori dal mondo civile, fuori dal tempo, persa in un suo
inconsapevole desiderio di dissolvimento.
Col procedere del viaggio, si caricano di ansia repressa gli
occhi della madre che controlla la rabbia, i gesti e le parole per tenere
nascoste al figlio le ragioni del suo viaggio; cresce il senso di
disorientamento per la meta indefinita; aumenta la tensione nell’attesa incerta
di quel che potrà accadere.
Quando cala la sera, il senso di inquietudine diventa
angoscia: le luci artificiali arrivano ad esacerbare il buio; rare automobili
squarciano per pochi istanti le tenebre e scompaiono nel nulla con i loro
invisibili occupanti.
Katalin incontra uno dei suoi stupratori al ballo in piazza
di una sagra paesana. Le luci esagitano i movimenti delle ombre e sottolineano
le inutili frenesie di una squallida festa. Forse la donna è arrivata fin lì
per ritrovare sé stessa più che per vendicarsi; forse, stanca di sorreggersi su
penose fragili finzioni, vuole solo ridefinire i percorsi interrotti di una vita
costruita sulla rimozione. Ma quando affronta l’uomo senza essere riconosciuta,
si accorge di avere di fronte un arrogante sudicio seduttore, un presuntuoso playboy
ottuso e grezzo. E decide di vendicarsi.
Poi si muove alla ricerca del secondo violentatore, certa di
non potersi fermare, ma anche confusamente consapevole dell’impossibilità del
riscatto e sicura di andare incontro al proprio annientamento. Scopre un pover’uomo malinconico che ha raggiunto
una sua forma di equilibrio ed è riuscito a costruirsi, con una famiglia, una
parvenza di normalità. Katalin gli rinfaccia le responsabilità (e la moglie
allibita li sente), lo mette di fronte alla colpa rimossa, lo ricaccia nello
squallore dell’autoconsapevolezza, gli scompiglia il nido e la vita. Gli infligge una punizione identica a quella
da lei patita, sapendo che l’indifferenza può essere un castigo ben più atroce
della morte, una tortura devastante e – come lei ben sa – insostenibile.
Analizzando l’evidente povertà di mezzi con cui questo film
è stato costruito e girato, non è avventato sostenere che siamo di fronte ad un
piccolo capolavoro.
Il thriller psicologico vira sull’horror (non per banali
ragioni di location transilvanica), attraversato com’è da impalpabili
inquietudini, fosche tensioni, tragiche angosce, desideri di vendetta, deliri
di annientamento.
Le atmosfere di sfondo sono cupe: l’ambientazione (paesaggi
selvaggi e i boschi impenetrabili) e la meteorologia (nuvolaglie e brume) ben
sottolineano il clima psicologico. Emblematici gli sguardi: quelli smarriti del
bambino e quelli sconfortati della donna,
disorientati davanti a quelli diffidenti dei campagnoli.
Il tappeto sonoro è tessuto da musiche inquietanti, siano
esse esegetiche, di accompagnamento, siano diegetiche, interne alla scena (si
pensi alle musiche assordanti della festa paesana o alle cantilene infantili
che – almeno qui, almeno per me – rievocano gli orchi predatori delle fiabe).
Ossessionanti sono poi i rumori di fondo, invadenti e indecifrabile,
che mescolano il sibilo del vento, i fruscìi del bosco e i richiami degli
animali (e sono forse gli stessi suoni confusi che risuonavano nelle orecchie
della povera Katalin brutalizzata e abbandonata in mezzo ai cespugli, distorti
e amplificati dal dolore e dal terrore).
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