De senectute doveva intitolarsi questo
film, e non La giovinezza, che – incarnata
nei folgoranti glutei di miss universo – sfila solo per un attimo (come Anita
nel fontanone di Trevi) davanti agli occhi miopi di Michael Caine (92 anni
suonati) e a quelli da topo di Harvey Keitel (che assomiglia un po’ a Polanski
e di anni ne ha solo 76).
Dopo
Moretti (Mia madre) anche Sorrentino
riflette sulla dissoluzione della vecchiaia e della memoria: il primo, che
forse la sente incombente, cincischia nevrotico ed vanitoso; il secondo, che la
prefigura lontana, filosofeggia desolato e fellineggia come al solito. Ma in
ambedue c’è qualcosa di fasullo, di artificioso: viene da pensare che sia un
vizio tutto italiano, degli autori italiani, quello di girare film per esibirsi
e non per far vivere emozioni, di mandare messaggi al milieu degli
intellettuali snob che si atteggiano a cinefili, di solleticare la corteccia
cerebrale dei critici, di offrire argomenti ai giornalisti della pagina degli
spettacoli, far litigare le giurie dei festival e fomentare le polemiche che
fanno bene al botteghino.
Sorrentino,
fra i cosiddetti grandi, non è il primo a cedere a questi impulsi: troppi
registi (ma anche molti artisti, scrittori, compositori,…), dopo aver dato
l’anima e essersi espressi in alcune prime opere geniali (ascoltando la
creatività compressa che “ditta dentro”), una volta assaggiato il meritato
successo, si sono lasciati gradualmente sedurre dalle sirene della presunzione
sino a farsi fagocitare dagli ingranaggi della produzione per partorire quello
che vuole il mercato (“internazionale” of course), quello che i consumatori si attendono,
quello che la carriera impone.
Youth non si sottrae a questo meccanismo:
per un’oretta svolazza a mezz’aria con quella dose di confusione che te lo fa
sembrare alla ricerca disorientata di risposte sulla vita e sull’amore, sulla
paternità e sull’arte, sulla dissoluzione dei legami e sull’inquietudine di chi
sente vicina la fine. Poi arranca disorganico, delude le promesse e precipita
pesantemente sotto il peso della sua esagerata artificiosità, eccessivo nei
colori, sentenzioso nei dialoghi (che sono sostanzialmente un montaggio di
monologhi, un’antologia dell’aforismo), triste nella sua consapevole e
colpevole immodestia. Volendo parere un grande film, riesce a essere solo penosamente
grosso, ingombrante, opulento, ponderoso, indigesto come un piatto con troppi
ingredienti.
Volendo
essere antinarrativo, riesce a essere confuso, soprattutto per l’eccessivo
numero di sequenze oniriche (che, vabbè, sono inspiegabili per loro natura, ma
sono tenute ad essere significative e organiche alla sia pur articolata complessità
del discorso).
Volendo
essere denso, diventa criptico per la fissazione nell’uso di messaggi
subliminali (le simmetrie minimaliste degli interni, le esplosioni primaverili
degli esterni, l’onnipresenza dell’acqua) e per le disseminate metafore (acuta
quella della felicità, lontanissima per i vecchi, illusoriamente a portata di
mano per i giovani, irraggiungibile per tutti).
Caine
si salva, splendidamente inespressivo come sempre (e flemmatico come piace a
noi, con le rughe come valore aggiunto). Keitel è il solito cialtrone, qui in
disarmo.
La
Fonda è un mascherone imbarazzante di disincantato cinismo e di forzata
trivialità, ma da sotto il cerone trasuda muffa, non traspira la malìa
suggestiva delle grottesche creature felliniane.
La
sfilata dei personaggi di contorno echeggia proprio il bestiario di Fellini, esplicitamente
omaggiato nella sconcertante apparizione a Keitel degli interpreti di tutti i
suoi film sui verdi pascoli alpini insolitamente sgombri da musicanti mandrie
in prova d’orchesta. Ma mentre Fellini ritrae archetipi organici al senso
generale dei suoi film (pensate alla galleria di Amarcord), Sorrentino abbozza caricature (l’obeso Maradona, il
monaco buddista che levita, l’alpinista rozzo, la massaggiatrice analista,
l’équipe degli sceneggiatori creativi, l'aplombico inviato della regina, la
coppia rancorosa) e le infila nella trama (trama?) in un susseguirsi di
siparietti dissociati, senza farcene intuire la funzionalità, le connessioni,
il significato. Ma si sa, nei Grand Hotel c’è sempre gente che viene... che va... tutto senza scopo... (come nel film di
Goulding del 1932).
Un
film da spiluccare, insomma, dove ognuno, come negli aperitivi in piedi, può
trovare bocconi sorprendentemente saporiti. Ma si capisce da lontano che l’infilata
kitsch delle guantiere zeppe è pensata per fare bella mostra di sé, con le
tartine policrome e lustre fatte di pane flaccido e lamelle di salmone sotto
vuoto.
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