Quentin Tarantino è
un cinefilo; si potrebbe definire, anzi, un “cinefago”, un divoratore omnivoro
un po’ maniacale di cinema; e poiché l’uomo è ciò che mangia (Feuerbach), il
nostro regista è diventato un copiatore confesso: saccheggia ostentatamente idee
e scene da Leone e Scorsese, da De Palma e Besson, omaggiando riconoscente i
suoi maestri; prende ispirazioni e stilemi dal cinema afro (exploitation) e da quello
Kung-fu; esplora tutti i generi della storia del cinema; parafrasa storie,
adotta personaggi e replica dialoghi e battute di moltissimi filmacci italiani
di serie B (di Argento, Corbucci, Fulci, Castellari, Bava). E a chi lo accusa di plagio, risponde con
spudorata impertinenza - citando Stravinskij e chiudendo la questione - che “i
grandi artisti non copiano, rubano”.
Dopo
aver dimostrato nella sua carriera di aver assaggiato e digerito tutto, in The hateful eight comincia perfino a parodiare se stesso e a
citarsi addosso in un delirio di autocompiacimento che i suoi fan-complici
trovano pirotecnico e godibile.
A tre anni di
distanza da Django Unchained,
imbastisce un altro western. Ma ribalta i cliché del genere e ci sorprende (E’ di Quentin il fin la meraviglia), giocando
a costruire una vicenda nella quale i personaggi che entrano in scena non si
dividono, come western comanda, in buoni e cattivi; e nessuno lotta per la
giustizia, nessuno fa dell’onore il suo punto di riferimento, nessuno persegue
vendette.
Siamo nel Wyoming, durante un gelidissimo
inverno.
La guerra di Secessione è finita da poco.
Una diligenza (cliché rispettato) annaspa
nella bufera. In cassetta c’è un vetturino infreddolito, in carrozza c’è John
Ruth (Kurt
Russell), detto “il boia”, un cattivissimo bounty hunter che viaggia verso Red Rock
per consegnare alla forca una laida criminale (cliché trasgredito). Lungo la
strada incappano prima in Marquis Warren (Samuel L. Jackson) un’ex-maggiore
nordista nero (o, meglio, negro), riciclatosi in bounty killer, con i cadaveri di tre ricercati; poi in Chris
Mannix, un rinnegato sudista non pentito, ora aspirante sceriffo. I due – con armi,
bagagli e salme – riescono ad ottenere un passaggio dal paranoico cacciatore di
taglie.
Ma la tormenta incombe e lo scombinato quartetto
(il vetturino non conta) è costretto a cercare rifugio nell’emporio di Minnie, una
catapecchia persa nelle sconfinate lande nevose.
Qui la scena cambia: agli infiniti spazi
imbiancati subentrano i cupi spazi claustrofobici della locanda nella quale già
bivaccano altri ceffi poco raccomandabili: un vecchio ex-generale sudista che
cerca il figlio scomparso, un sedicente boia ambiguo (che ha la faccia da
sberle di Tim Roth), un messicano che gestisce la baracca in assenza dei
proprietari e un ombroso mandriano.
John Ruth diffida di tutti e, nei modi
brutali che sono la sua connotazione caratteriale oltre che professionale,
inizia un duro interrogatorio dei presenti (che si rivelano, man mano, non meno
ruvidi di lui). Il contrasto prosegue interminabile per quattro quinti di
questo film che si sviluppa tutto al chiuso secondo le regole del teatro (unità
di luogo e di tempo, senza le elissi che sono la sostanza del linguaggio
filmico). Le schermaglie inverosimilmente prolisse e ampollose sono
l’espediente cui ricorrono i personaggi per “scoprirsi” a vicenda e decidere
chi eliminare e di chi fidarsi. La tensione cresce e rimane alta, impregnando
l’aria. A cadenze imprevedibili, esplode la violenza e qualcuno viene
ammazzato; e questo accade nei modi più cruenti, con una ferocia sadica e
spettacolare oltre misura (alla Rodriguez,
direi per intenderci, ricordando l’amico splatter di Quentin, quello de Dal tramonto all’alba).
Il meccanismo del “disvelamento” è tipico dei
gialli deduttivi. Ma mentre nei gialli classici l’assassinio avviene all’inizio
della storia e il gioco sta tutto nello scoprire il colpevole fra gli
insospettabili presenti (pensiamo a Dieci
piccoli indiani), qui gli ospiti forzati della stamberga – indipendentemente
dalla loro fedina penale – sono tutti potenziali assassini pronti ad esplodere
e tutti possibili vittime; e la tensione è costruita intorno all’indagine
incrociata, alle diffidenze reciproche, all’imprevedibile affiorare di indizi e
sospetti, alla sequenza imponderabile della strage, ai modi inconcepibilmente
differenti delle eliminazioni.
Il famoso “triello” (lo stallo messicano inventato
dal maestro Leone e ripreso da Tarantino in quasi tutti i suoi film) diventa un
“ottello”: otto criminali in gabbia si misurano a vicenda, si fiutano
sospettosi e feroci, attenti a non esporsi, si tengono sotto tiro, pronti a
cogliere il momento favorevole per colpire e massacrarsi l’uno con l’altro.
…
Dalla sala si esce saturi e disorientati.
La violenza, che qui appare compiaciuta, è
nauseante; l’ottusa ingordigia dei personaggi appare inverosimile; la capacità
di coonestare ogni crimine è sbalorditiva; e allibisce il cinismo
individualista che affiora dietro i mascheramenti.
Si è tentati di pensare che la folle cifra stilistica
di Tarantino sia il prodotto di autocompiacimenti estetizzanti; o esercizio di
maniera, quasi sperimentale, frutto delle cattive visioni infantili o delle
peggiori regressioni infantiliste; o deriva esasperata, conseguenza della tendenza
barocca di tutte le arti visuali (e non solo) della nostra disorientata
contemporaneità.
Ma poi ci si guarda attorno e si capisce –
molto banalmente – che la lingua batte dove il dente duole; e che Tarantino –
che lo si consideri, a seconda del punto di vista, il diagnosta o l’anestesista
– è sicuramente il più lucido narratore delle follie autodistruttive e delle angosce
disperate che circolano oggi sul nostro pianeta.
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