Il
film racconta la storia di Sentaro, un uomo infelice che consuma la vita
rinchiuso in un piccolo chiosco dove lavora dall’alba al tramonto sfornando dorayaki (dolcetti tradizionali
giapponesi) senza riuscire a riscattare un grosso debito contratto coi
precedenti gestori (anche perché il baracchino ha pochissimi avventori:
passanti frettolosi, liceali ciarliere e sciocche, una ragazza depressa).
Una
mattina di primavera (i ciliegi del viale sono in pienissima fioritura) appare
una vecchietta in cerca di lavoro. Sentaro – fra mille inchini e reticenze –
non vuole assumerla: è decrepita, fragile, malferma; e in più ha delle
deformazioni alle mani che la rendono impresentabile. La vecchietta insiste,
con garbo: ammorbidisce Sentaro con la sua delicata perseveranza (come si
ammollano nell’acqua i fagioli secchi) e lo conquista con un assaggio della sua
superlativa marmellata di fagioli.
Il
film di Naomi Kawase è di fattura semplice e di gusto incerto. Come i dorayaki
farciti di marmellata di fagioli, conserva i sapori contrastanti della cialda
soffice di pandispagna cotto alla piastra e quello pastoso, improbabile per noi
occidentali, della farcitura fatta di fagioli lessati e mantecati con lo
zucchero.
L’idea
di far incontrare due solitudini è accattivante: si possono immaginare
emarginazioni dolorose, maternità mancate, affetti negati, sconforti metafisici
e sensazioni di oppressione claustrofobica (rappresentate dagli spazi ristretti
del chiosco e metaforicamente sottolineate dalla presenza di un canarino in
gabbia).
E
si può anche inquadrare il film riconducendolo al filone malinconico di molte opere
nipponiche che insistono con un certo compiacimento nel raccontare la deriva
esistenziale del Giappone moderno, la crisi d’identità seguita al distacco
dalle tradizioni, il disperante solipsismo di individui sradicati e
disorientati, il senso della morte insignificante, l’incapacità o
l’impossibilità di costruire legami saldi o di esprimere sentimenti.
Raffinato
appare anche l’espediente di rappresentare disperazioni e rimpianti, fallimenti
e dissesti esistenziali partendo dalla sommessa narrazione di storie ordinarie di
personaggi marginali.
Si
prova affetto per la scombinata Signora Toku, dolce e ossequiosa ma caparbia
come un mulo, che alla fine della sua vita (76 anni) decide di prendersi una
rivincita sulle emarginazioni patite (alla buon ora!) e di assegnare un nuovo
senso alla sua vita.
Ma
l’idea suggestiva, gli sfondi, le aleggianti infelicità e la simpatia del
personaggio non bastano a far decollare il film che si snoda penosamente lento,
incerto, intrappolato nella sua stessa esile trama narrativa e nella fievole tesi
di partenza. Non bastano i lunghi silenzi a fabbricare un’opera intimistica.
Il
tripudio dei ciliegi in fiore, a intenzionale contrasto con la desolazione
esistenziale, diventa perfino patetico in tutta la sua ridondanza retorica.
E
anche un dolcettino delicato può rivelarsi stucchevole e indigesto.
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