Non l’ho capito.
L’ho trovato incoerente. Mi ha lasciato perplesso.
Credo che l’ottima
performance del protagonista (diciamocelo: ci vuole talento a mantenere
un’espressione catatonica dalla prima all’ultima scena per oltre 90 minuti) non
sia sufficiente a giustificare il Leone d’oro, e allora vado a leggermi
umilmente qualche recensione. Magari mi
sono perso qualcosa, non ho colto messaggi, non mi sono lasciato “accendere”
per qualche inconsapevole ragione.
Leggo di rimandi a Fassbinder
e di echi pasoliniani. Fin troppo scontato per un film che parla di
omosessualità, che presenta un borghese introverso che adesca giovani sottoproletari,
che associa sodomia e violenza (stabilendo simmetrie fra rapporti sessuali e
rapporti di classe). Ma bastano i temi e le situazioni a legittimare questi
paragoni?
Armando (Alfredo
Castro) è un imperturbabile triste cinquantenne – protesista dentale – che
pesca coatti più o meno ingenui alle fermate dei bus di Caracas.
Elder (Luis Silva) è
un borgataro che, attratto dalla esibizione di una mazzetta di banconote,
accetta di seguirlo nel suo appartamento ma poi si ribella, lo mena e scappa
col malloppo.
I due, si fiutano
inquieti, scoprono di essere meno diversi di quanto appare, nascondono grumi di
ossessioni, infelicità profonde, conflitti con le figure paterne, traumi
infantili, turbamenti, aridità emozionali.
Scatta fra di loro uno
strano meccanismo di interdipendenza, fatto di disperata attrazione e sorda repulsione,
che non potrà che trovare esiti sventurati (e imprevedibili) e ci farà
scoprire, sorprendendoci, che non abbiamo assistito ad un film sulle
imprevedibili complicazioni dell’amore.
Non è facile combinare
insieme i drammi della solitudine con le ossessioni gay e con gli squilibri dati
dalle emarginazioni sociali e dai conflitti di classe. La mistura, troppo
complessa ed eterogenea, non è di facile gestione. Il risultato può rivelarsi
incoerente, complicato fuori misura, poco credibile, incomprensibile. Troppo
repentini appaiono infatti i cambiamenti che subiscono i due personaggi,
dapprima inconciliabilmente distanti, egoisticamente opposti, radicalmente
conflittuali e poi – dopo poche schermaglie che dimostrano anche la diversità
dei linguaggi e l’eterogeneità dei fini – pronti a dare una svolta radicale
alle rispettive esistenze in nome di fumosi traumi familiari, a sacrificarsi
l’uno per l’altro, a pagare oltre misura un ambiguo contratto di convivenza.
L’ambizioso regista,
più che a Pasolini, dichiara di far riferimento ad Haneke e Bresson (e meno
male che non scomoda Losey o Genet).
-->
Ma a me pare che,
indipendentemente dai modelli, dimostri abilità (con l’apparato produttivo che
lo accompagna) nel centrare con perspicacia i gusti delle giurie festivaliere
che, ormai lasciate a bocca asciutta dal bolso cinema europeo (debole
concorrente), appaiono sempre più propense a lasciarsi sedurre da pruriti
cinefili (i cinefili, per natura amanti delle perversioni, si accontentano
spesso delle parvenze di perversione), sono sempre pronte a farsi condizionare
dal politically incorrect e stanno bene attente a distribuire i premi con
salomonica equidistanza, soppesando più la provenienza geografica che la
qualità del prodotto.
Nessun commento:
Posta un commento