Xavier Giannoli ha dimostrato un certo coraggio a realizzare un
film ispirandosi alla storia vera di Florence
Foster Jenkins, una soprano statunitense negata per il canto che, grazie alla
sua caparbietà e alle considerevoli disponibilità economiche, si è costruita
una carriera come concertista proprio agli inizi del secolo scorso e ha
“acquistato” fra il 1912 e il 1944 un notevole successo.
La storia esigua non consentiva grandi
sviluppi narrativi e la vicenda paradossale poteva facilmente scivolare nel
grottesco (sullo stile, per fare un esempio, de Il Petomane di Pasquale Festa Campanile).
Giannoli ha invece
saputo evitare questi intoppi imprimendo al film un’altra direzione e
ricavandone un’opera delicata, struggente, profonda, anche se venata (con
ironica coerenza) di una certa melodrammaticità.
Nel film la
vicenda si sposta in una villa di campagna nei dintorni della esuberante Parigi
negli anni ’20; e la protagonista, Marguerite, è una ricca baronessa appassionatamente
melomane, collezionista di partiture originali e di costumi di scena, che si
ostina a voler cantare pur essendo irrimediabilmente stonata e persevera nell’allestire
piccoli concerti domestici per gli amici, sognando un’esibizione pubblica nella Ville Lumière.
Gli sconcertanti ricevimenti che organizza, con annesso
recital, avvengono nella sua lussuosa magione, alla presenza della servitù
schierata e di una folta comitiva di invitati. Gli amici (fintamente tali, per
ipocrisia o per compiacenza) ascoltano attenti e applaudono giudiziosamente
come una claque, in ossequio alla generosa ospitalità della nobildonna,
coinvolti dalle iniziative filantropiche che va promuovendo, sedotti dal
prestigio che deriva dalla frequentazione della sua casa, incuriositi e
divertiti dalla sua inconcepibile ingenuità e dalle ridicole performances.
Il marito, quando non riesce ad assentarsi, assiste
imbarazzato. È consapevole che poi, fuori da lì, i compiacenti ammiratori spettegolano
e sghignazzano. Patisce il disagio della fastidiosa situazione e sopporta a
fatica la condizione assurda in cui è smottata la moglie, ma non riesce ad
affrontare il problema e non sa come uscirne, un po’ per quel residuo di
tenerezza che lo lega alla consorte (e gli impedisce di essere con lei crudelmente
sincero), un po’ per il vago senso di colpa che lo accompagna a causa di una consolidata
relazione extraconiugale.
La supervisione dei ricevimenti è affidata a
un maggiordomo di colore irrazionalmente protettivo che si occupa in toto della
vita di Marguerite, assecondando le sue passioni, accompagnandola al piano
quando canta, fotografandola negli improbabili costumi che indossa,
proteggendola nelle trasferte, salvaguardandola da tutti e da tutto, creando
attorno a lei uno scudo protettivo e diventando complice delle sue alienate fluttuazioni
nell’irrealtà (il personaggio ricalca esplicitamente il Max von Mayerling
interpretato da Erich von Stroheim in Viale
del tramonto di Billy Wilder).
A imprimere uno scarto alla routine e a far precipitare
la situazione, arrivano due intrusi, due giovani che s’imbucano nei ricevimenti
di Madame per scroccare tartine e champagne: uno fa il giornalista d’assalto ed
è sempre a caccia di notiziole sensazionali; l’altro è uno scapigliato e
confuso artista in cerca di affermazione. Entrambi sono immersi nel milieu
culturale degli anni del primo dopoguerra (magnificamente reso da scenografie e
costumi) e fanno parte di quei movimenti di avanguardia allora in voga
(dadaisti con qualche coloritura futurista e surrealista) che proclamavano con convulsa
vivacità la morte dell’arte tradizionale, il rifiuto degli standard e la più
assoluta libertà creativa.
I due assistono allibiti a un’incredibile performance
della baronessa; e le ancor più inverosimili manifestazioni di consenso fanno
scattare in loro un progetto diabolico: avvicinare la nobildonna, fingere
entusiasmo per la sua voce e assecondare le sue aspirazioni per convincerla ad organizzare
un concerto pubblico. Cosa vi poteva essere infatti di più eversivo, provocatorio
e stravagante – in linea con la poetica dadaista – delle lancinanti stonature
di una cantante che massacrava i canoni del bel canto e profanava l’opera che
in quegli anni era all’apice della sua popolarità? Cosa di più dirompente e lacerante
di una solenne rottura non metaforica
di timpani?
Sfruttando biecamente la passione dell’ingenua
baronessa e solleticando la sua voglia di affermazione (nutrita anche
dall’infelicità, dalla solitudine e dal bisogno di affetto), aiutati dal
maggiordomo (che contro ogni logica persegue la soddisfazione del folle sogno
della sua amata padrona), i due dadaisti s’insediano nella sua villa di
campagna, trovano un maestro di canto, prendono i giusti contatti, organizzano
con sapienza mediatica un piccolo show in un locale (una specie di Cabaret Voltaire parigino) facendo esibire
una Marguerite trasfigurata che maltratta la Marsigliese mentre su di lei paludata di peplo candido scorrono
immagini di guerra; il tutto in preparazione del grande concerto/evento che,
con esiti inimmaginabili, concluderà l’avventura.
Colpisce nella strana vicenda l’ipocrisia degli
amici e l’indefinita complicità del marito: ma se i primi sono esecrabili
perché spinti a mentire per meschine convenienze, il secondo appare
commiserevole, ferito com’è dal disappunto per essersi lasciato
progressivamente irretire da una situazione sempre più intricata e
irrisolvibile, dilaniato dalla sua paralizzante inadeguatezza, straziato nello
scoprire – e solo perché glielo rivela l’amante – di essere la causa degli
scompensi di Margherita.
Lo sconcertante cinismo dei due dadaisti assume
però valenze fortemente simboliche: portando in scena Margherite i due
mascalzoni compiono inconsapevolmente lo stesso gesto dissacratorio del loro
maestro Duchamp che, solo 4 anni prima, aveva elevato un orinatoio capovolto a
simbolo del dadaismo, inventando sostanzialmente l’arte concettuale.
La figura di Margherite è ineffabile e
disarmante, seducente e angosciante nello stesso tempo: la donna, appassionata di
canto al punto di lasciarsi impregnare la vita della sua infatuazione,
colleziona libretti, partiture e costumi di scena e si lascia immortalare nei
panni improbabili e nelle pose enfatiche delle eroine del melodramma; aspirando
a emulare le dive del proscenio, s’impegna volonterosa e umile nelle estenuanti
lezioni di canto. Ma appare ingenua
al punto da non rendersi conto della sua condizione rovinosamente ridicola e
non coglie i segnali della sua annunciata débâcle.
La mistura assurda
di tragico e ridicolo in lei è devastante.
Lo spettatore non
può fare a meno di lasciarsi calamitare dalla passione che invade la povera Marguerite;
al compatimento iniziale subentra la comprensione, la simpatia, la compartecipazione,
la speranza di un improbabile recupero, di un impossibile riscatto, l’affetto empatico.
Le sue prime
esecuzioni disturbano e sollevano l’ilarità anche fra gli spettatori del film;
ma già nell’esibizione nel cabaret il fastidio si indirizza sulla cagnara degli
spettatori più che sulle stonature dell’interprete e i fischi sembrano più sgradevoli
delle dissonanti note; e all’apertura del sipario sul palco del teatro
all’inizio del grande concerto la tensione che ci assale è la stessa che attanaglia
l’infelice baronessa.
In questa perfida
efficacia sta il valore di questo piccolo film che riesce a insinuare negli
spettatori più sensibili, per almeno un attimo, il sospetto che forse, in
misura diversa, soffriamo tutti di “presunzione”, inesperti di autoanalisi e
incapaci di vedere le nostre insufficienze. Ognuno di noi si costruisce
un’immagine di sé confusamente difforme da quella che gli altri colgono con
chiarezza. Ognuno di noi possiede
impercepita e palesa evidente la sua facies
comica dietro la quale – sempre – si cela la sofferenza.
La vita è una
piccola recita, ma noi siamo tentati di considerarla un grande spettacolo.
Confondiamo il perno della nostra esistenza con l’asse dell’universo. Ci
crediamo l’ombelico del mondo. Ci poniamo al centro di una finzione e
organizziamo attorno a questa un microcosmo rigorosamente coerente. E non ci
accorgiamo che la nostra avventura si sviluppa separata e aliena rispetto al
resto, alla realtà; e che spesso, quanto per noi è concretezza tangibile, per
altri può essere fantasma invisibile.
La sindrome di Marguerite è più diffusa di quanto si
creda: è facile lasciarsi irretire dai sogni impossibili per non guardare la
sgradevole concretezza; è quasi naturale nutrire illusioni che nascondono le
asimmetrie fra desiderio e realtà; è di tutti tentare di camuffare i propri
inestetismi, correggere le disturbanti disarmonie, mettere in sordina le
stonature.
Ma perché negare il valore terapeutico della percezione
distorta?
Se la verità “fa male”, perché non rifugiarsi nella
doppiezza, o nella simulazione che, quanto più è coerente, tanto più camuffa efficacemente
le distorsioni, attenua le sgradevolezze, lenisce i traumi?
Ha ragione il dolente marito di Marguerite: la
menzogna aiuta a sopravvivere, non vale la pena smascherarla.
Ha ragione l’inquietante maggiordomo: è necessario
raggiungere l’apice del delirio per chiudere il cerchio fra verità e finzione
nel fatale corto circuito dell’esistenza.
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