Dei fratelli Coen
non mi perderei nemmeno un assemblaggio casuale degli scarti dei montaggi.
Assisto quindi alla
proiezione di Ave Cesare con una certa smania, immaginando di pregustare quegli
loro disorientanti colpi bassi che arrivano di solito a ondate crescenti, a
spiazzarti e a superare ogni volta le aspettative.
E invece mi si snoda
davanti una storia senza coup de théâtre che, sulle prime, faccio fatica a decifrare;
e anche il modo di raccontarla mi un poco mi sconcerta.
Poi cominciano ad arrivarmi
i guizzi di genialità che riconosco, buttati lì con nonchalance; e mi pare di
intuire il senso sbalorditivo dell’incoerenza con cui i diabolici fratelli ballonzolano
da una scena all’altra, con salti di luogo e scarti di tempo, mischiando sequenze
reali (si fa per dire) a spezzoni di film d’epoca magistralmente ricostruiti.
La storia sconclusionata prende gradualmente spessore ed emerge in tutta
chiarezza che il tema portante è un mosaico di temi accennati, la coesione è
data dalla frammentarietà, il collante è la confusione.
Lo sconcerto
iniziale è comprensibile: i fratelli Coen, qui, non soddisfanno alle attese dei
loro fan. In Ave Cesare non ci sono
gli impagabili imbroglioncelli arruffoni o i matti sadici dalla imprevedibile
ferocia che imperversano in Blood
Simple, in Lady Killer o in Fargo
(e dilagano nella omonima seria TV); e nemmeno troviamo i disorientamenti geografico-esistenziali
del balordo Ulysses di Fratello dove sei?
o dello spaesato e triste musicista di A
proposito di Davis.; o il sadismo psicopatico del massacratore di Non è un paese per vecchi; o il
nichilismo di Ed Crane ne L’uomo che non
c’era; o la malinconica stanchezza di chi cerca l’impossibile giustizia ne Il Grinta; o la indifesa atarassia del
professore Larry in A serious man.
Troviamo però, una
cosa che – a ben pensare – accomuna tutti questi film così disparati, un
elemento che potremmo definire l’ossessivo file rouge che lega TUTTI i film Joel
ed Ethan: e cioè l’assoluta convinzione che le magnifiche sorti e progressive degli
uomini (dell’universo) sono ineluttabilmente governate dal CAOS, qui
strampalato, altre volte comico, spesso tragico, sempre beffardo.
Anzi, la perfidia
dei fratelli Coen, lo dico per amor di paradosso, tocca proprio qui il suo
apice, in questo film sconclusionato, nel quale ritorna l’angosciante tema del
caos innestato, a contrasto, su una commedia che scivola via inconsistente,
ironica e formalmente superficiale, ambientata com’è nella confusione (caotica)
che regna negli studi di una major hollywoodiana, la Capitol Pictures.
Ad impersonare
l’impotenza dell’uomo di fronte al suo destino qui c’è il povero coscienzioso
manager, che di nome fa Eddie Mannix (lo
stesso Josh Brolin di Non
è un paese per vecchi e de
Il Grinta): un uomo probo, profondamente
legato al suo lavoro ma confusamente sommerso da sensi di colpa e di inadeguatezza,
tentato di mollare il rutilante mondo del cinema per guadagnare meglio lavorando
meno e avere più tempo di stare con la famiglia; un uomo assorbito dal lavoro
(e messo alla prova come il povero e indifeso Larry Gropnik in A serous man) che vive il suo dramma
interiore scisso com’è fra un suo senso della giustizia e il degrado etico che
lo circonda; un uomo angustiato dalla necessità di arginare il caos, appunto, e
di contenere la disinvoltura ambigua dei suoi interlocutori senza lasciarsi
contaminare più del necessario.
Il suo lavoro è complicato
e le fatiche sono improbe: deve proteggere le sue star da due scatenate gemelle
giornaliste di gossip a caccia di scandali (impersonate da Tilda Swinton); deve
frenare una sguaiata e amorale, e folgorante, Scarlett Johansson, diva
nuotatrice in coreografie acquatiche alla Ester Williams; deve accertarsi che
l’argomento trattato da un costosissimo film in produzione (un
peplum-evangelico sulla vita di Gesù) sia teologicamente corretto e politica(l)mente
accettabile (se non altro per schivare le costose denunce e i rovinosi boicottaggi
delle potenti e contrapposte confessioni religiose diffuse in America); deve
imporre una star del western ad un regista sofisticato che non riesce a cavare
dal bovino cowboy una battuta men che decente per una sua storia
romantica; deve arrabattarsi a portare
avanti le riprese del suddetto film evangelico in assenza del protagonista, un
rintronato Clooney rapito da una stravagante banda di sceneggiatori comunisti,
capeggiata da un ballerino di tiptap e guidata da Marcuse, intenzionati a
rifarsi dall’ostracismo maccartista.
In un film come
questo, fatto da due appassionati della storia del cinema (con Tarantino è una
bella gara!), non potevano essere evitate notazioni nostalgiche e riferimenti
dotti (il citazionismo cinefilo è un’altra cifra connotativa dei Coen che
amiamo): il film è farcito di citazioni e pare un irriverente sberleffo, ma è
un affettuosissimo omaggio, al cinema degli anni ’50, ai produttori, agli
attori, alle comparse, alla folla di lavoratori invisibili degli studi di posa.
Impagabili, le riprese degli stabilimenti della Capitol (esterni, interni, set
e studi di montaggio, con la scena della montatrice Francis McDormand che quasi
si impicca alla moviola); preziosissimi e accurati gli spezzoni magistralmente
ricostruiti e inseriti nel film (con rievocazioni dei generi in voga negli anni
Cinquanta, dal colossal storico-religioso al musical, dai film
acquatici alla commedia, al western).
La causticità coeniana
non manca, ma è amorevole e non riesce a nascondere l’affetto per quel cinema
che era così spudoratamente lontano dalla realtà ma così vicino ai sogni della
gente comune da porsi come potentissimo mezzo di riscatto per i poveri cristi oppressi
senza remissione dalla vita quotidiana. (Ed il pensiero va a La rosa purpurea del
Cairo di
Woody Allen, altro grande omaggio al cinema come evasione; e le riflessioni si potrebbero
allargare al fragile rapporto fra finzione e realtà, fra cinema e matacinema,
altro tema ricorrente nell’opera di Ethan e Joel che qui scorrazzano impuniti
da un set all’altro e dai set alla vita in una inquietante confusione da brodo
primordiale).
Nella
conclusione però, almeno su un punto, non è il caos a prevalere. Qui, in questo
filmetto, il pessimismo cosmico dei Coen s’incrina.
Il
frastornato Mannix decide (sì, DECIDE) di restare nel trambusto delle
finzioni cinematografiche (che pure lo sfiancano) piuttosto che sistemarsi a
servire la Lockheed, emergente e potentissima azienda aeronautica: consapevole
che il cinema è il salvagente contro la deriva esistenziale, mentre la Lockheed
prepara l’avvento dell’Armageddon.
E noi
stiamo con Mannix e coi fratelli Coen, pur sapendo che il cinema non salva la vita.
E stiamo anche
con quel rintronato di Clooney, il centurione convertito, che nella roboante intemerata
finale, sul Golgota, sotto la croce, si impappina perché gli scappa di mente la
parola “fede”.
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